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Caporetto cent’anni dopo: prima che una disfatta fu un atto di ribellione

Oggi Caporetto non c’è più. È inutile cercarlo sulla carta. Per ritrovarlo sotto il suo vero nome bisogna uscire dall’Italia e andare in Slovenia a cercare un paesino di quattromila abitanti che si chiama, anzi si è sempre chiamato, Kobarid. Kobarid divenne Caporetto nel 1919 quando dopo la guerra il paese fu affidato all’Italia. Ma di italiano anche allora Caporetto aveva solo il nome.

Quando nel 1921 si fece il primo censimento nella cittadina «italiana» ci si trovarono dentro appena 98 abitanti italiani su un totale di 6.224. Gli italiani erano arrivati a Caporetto, ma in divisa, solo il 24 maggio 1915, il primo giorno in cui l’Italia era entrata in guerra. E non c’erano entrati con la forza delle loro baionette, ma perché gli austriaci si erano ritirati da soli. Ritenevano infatti più difendibile il loro confine sulle montagne vicine, intorno al fiume Isonzo che correva giù nelle gole, in quella specie di paesaggio dantesco fatto di altissimi costoni di roccia, discese ripidissime, frane paurose dove ci si combatterà per due anni, issando sulle cime cannoni con le funi, graffiando la pietra con il piccone per scavare trincee e gallerie. A Kobarid i bersaglieri furono accolti da un gelido silenzio degli abitanti chiusi in casa. Un colonnello che era andato in avanscoperta fu preso addirittura a sassate.

Gli austriaci si rifecero vivi a Caporetto il 24 ottobre 1917. Alle due del mattino scatenarono una tempesta di fuoco con l’artiglieria seguito dall’uso dei gas. Alle sei iniziò l’avanzata della fanteria protetta dalla nebbia. I soldati italiani si ritirano in massa. Trecentomila si arrendono praticamente senza combattere appena si vedono circondati. In molti fuggono e gettano le armi. Gli sbandati che gridano «tutti a casa» sono trecentocinquantamila. In poche ore trentotto delle sessantacinque divisioni dell’esercito di Vittorio Emanuele III in pratica non esistono più. Il primo novembre gli austriaci sono già al Tagliamento. Il 9 novembre hanno raggiunto il Piave. Di là ora «tutto è Austria». Sono Austria le province di Udine e di Belluno, per metà quella di Trento e in buona parte quella di Venezia. In quindici giorni il nemico è avanzato di centotrenta chilometri, quasi dieci chilometri al giorno. Quattrocentomila profughi fuggono da Cividale, Udine, Tolmezzo, Pordenone, Conegliano, Belluno, Treviso, Venezia. Le strade non bastano più per contenere le truppe regolari in ritirata, la massa degli sbandati, l’enorme corteo degli sfollati. Si creano strade parallele camminando nel fango autunnale dei campi che fiancheggiano la strada. Ai ponti si formano ingorghi pazzeschi.

Subito il giorno dopo la rotta, il generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore generale dell’esercito, parla di truppe che si sono arrese al nemico senza combattere. In realtà la responsabilità della disfatta sta soprattutto negli errori dei generali a cominciare dal generale Pietro Badoglio che ha il comando dell’armata investita dall’attacco e che pure farà ancora tanta carriera nella storia d’Italia. Tuttavia è indubbio che Caporetto è anche e soprattutto ormai un rifiuto dal basso di una guerra dagli aspetti terribili che dura da due anni e che non riesce ancora a vedere la fine.

Il 1917 è stato l’anno più tragico di una guerra già tragica. Dovunque si affaccia la rivolta dei soldati contro la guerra. A febbraio scoppia la rivoluzione russa che all’inizio non è altro che una sterminata diserzione di un intero esercito. A maggio quarantamila soldati francesi hanno abbandonato le lori trincee sullo Chemin des Dames e due reggimenti hanno addirittura cercato di marciare su Parigi. Nell’impero austriaco e nellimpero ottomano i disertori sono ormai milioni. Anche in Italia più della metà (391) delle settecento fucilazioni per diserzione o per ribellione di tutta la guerra sono concentrate nel 1917. Nel marzo 1917 sono fucilati addirittura nel sonno dei soldati della brigata Ravenna che non volevano tornare al fronte. Ai primi di luglio sono fucilati quattro alpini del battaglione Alvernis solo perché avevano chiesto di rimandare un attacco alla notte. A metà luglio a Santa Maria La Longa si ribella la brigata Catanzaro. Ventotto soldati sono fucilati. D’Annunzio vide i cadaveri ancora caldi tutti di meridionali: «Siete contadini: lo riconosco dalle vostre mani, dal modo di tenere i piedi». Nell’agosto a San Vito nella pianura veneta un reggimento non vuole tornare in trincea. Sono fucilati sette soldati legati a sette pali piantati in terra e a sette sedie prese in chiesa.

Dall’inizio dell’anno Cadorna ha allungato il periodo in cui si deve restare in trincea da sei a dodici mesi. Ha ridotto le licenze ad una sola di quindici giorni in un anno. Nel maggio e nell’agosto ancora Cadorna ha scatenato la decima e undicesima battaglia dell’Isonzo. Ha perso nei due attacchi trecentomila uomini fra morti, feriti e dispersi per riportare alla fine al punto di partenza un esercito esausto e inutilmente sacrificato . E ora tutta insieme la rabbia accumulata da chi è al fronte da due anni esplode. Molti decidono da soli che per loro la guerra è finita. I soldati si danno la loro pace che i generali non gli hanno dato.

Per gli austriaci tutto diventa facile. Quella che noi chiamiamo «la disfatta di Caporetto» loro lo chiamano «il miracolo di Caporetto». Non credevano ai loro occhi. Il sottotenente Erwin Rommel, la futura «volpe del deserto», in quei giorni è a Caporetto. Con soli cinque morti e trenta feriti cattura 150 ufficiali, 9.150 soldati e 81 cannoni. Il capo di stato maggiore Krafft von Dellmensinger raccontò di avere incontrato centinaia di soldati italiani che gli andavano incontro agitando fazzoletti bianchi e gridando «Viva la Germania!». Carlo Emilio Gadda scrisse nel suo Taccuino di Caporetto che già la sera del 24 ottobre soldati italiani disarmati si ubriacavano insieme ai tedeschi nella piazza del paese. In Addio alle armi Hemingway raccontò dei carabinieri che ai ponte di Pradamano sul Tagliamento aspettavano i soldati che avevano abbandonato il loro reparto per fucilarli immediatamente sul greto del fiume.

Alla fine il giudizio più terribile, più angosciante, meno militare sulla tragedia di Caporetto lo diede Curzio Malaparte nel suo La rivolta dei santi maledetti: «Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale. È una rivoluzione».