Vita Chiesa
«Campo scuola story»: la Gioventù studentesca di CL
di Marco Lapi
Sono passati quasi 40 anni ma l’esperienza di quei primi campi estivi con Gs – Gioventù Studentesca, ovvero i ragazzi delle medie superiori di Comunione e Liberazione – resta tra i ricordi più nitidi di quel periodo. Avevo iniziato a seguire il movimento a novembre del 1972, in seconda liceo scientifico, invitato da Gabriella, compagna di classe che ancora oggi è tra le mie più care amiche. Quella nuova compagnia cambiò di colpo la mia vita di adolescente, il modo di stare a scuola e di studiare e l’uso del tempo libero. La fede cominciava a investire tutta la giornata, a partire dalla preghiera mattutina delle Lodi prima di entrare in classe; non era più una parentesi festiva o comunque legata solo alla parrocchia e all’oratorio.
Alla fine di quell’anno scolastico, nel luglio del 1973, il campo estivo di Castello Tesino, in provincia di Trento, rappresentò per me un’altra grande novità. Fino ad allora non mi ero mai mosso fuori Firenze senza i miei genitori, se non per un viaggio in treno in Versilia dove faceva tappa il Giro d’Italia. Eppure ricordo la loro fiducia quando al momento della partenza con il bagaglio stipato in uno zaino militare quasi più grande di me, dissi che non li avrei chiamati e che ci saremmo rivisti al ritorno. Ci accompagnava don Silvano Seghi, allora curato di Santa Maria al Pignone e già punto di riferimento di Cl a Firenze, assieme agli universitari romagnoli che vivevano negli appartamenti: il viaggio fu lungo, treno e poi autobus; all’arrivo fummo accolti in una casa parrocchiale da don Romano di Rovereto, un sacerdote alto e robusto, con l’aspetto del montanaro. E tale si sarebbe rivelato nelle gite che caratterizzarono quel campo, assieme ai giochi e ai momenti di preghiera e di confronto. Con Giorgio, un amico della sua comunità di cui ricordo bene il nome anche se il volto si è fatto sfocato, quel prete di Rovereto – che poi sarebbe anche venuto a trovarci a Firenze – ci insegnò come andare in montagna e ce ne fece scoprire non solo la bellezza ma anche la valenza educativa. Le gite non erano banali, a parte quella per il vicino villaggio Sat di Celado: ricordo ancora le mete; la grotta di Castello Tesino con le sue stalattiti e stalagmiti, il ghiacciaio della Fradusta sulle Pale di San Martino, raggiunto dopo un avvicinamento in pullman e funivia (altra novità emozionante; chi l’aveva mai viste?) ma purtroppo invaso quel giorno dalla nebbia, il rifugio Ottone Brentari presso il lago di Cima d’Asta, alla fine di un sentiero che sembrava interminabile.
Per me, fino ad allora, la montagna era stata il Pratomagno, terra di origine dei miei, e ci si andava per cercare funghi. Ora invece scoprivo la maestosità delle cime e degli incredibili orizzonti. Ciò che sembrava lontano e irraggiungibile non lo era affatto a patto che ci si fidasse di chi ci guidava e dei suoi consigli: seguire i più grandi, chi aveva esperienza diveniva allora non solo condizione per raggiungere la meta ma paradigma per la vita. Si andava su insieme, con il passo che tutti potevano sostenere, senza quelle accelerazioni istintive che magari potevano farti sentire al momento più bravo ma che poi ti avrebbero tagliato le gambe. Si andava in fila uno dietro all’altro, dandosi una mano quando serviva. E si arrivava, magari affaticati ma contenti, comunque mai così stanchi da rinunciare agli immancabili canti in coro.
Il mio amore per la montagna e le camminate è nato lì, durante quelle vacanze. Che però lasciarono, a me come agli altri, ulteriori doni, tra cui l’amicizia con i giessini di altre comunità che condividevano con noi quell’esperienza. Tra i pochi di Grosseto spiccava uno spilungone, Raffaele Tiscar detto Lele, che avrebbe poi avuto una parte prioritaria nella nostra stessa storia fiorentina, a partire dagli anni dell’Università. Da Desenzano sul Garda, asssieme ad altri amici, veniva invece Luca Doninelli, che poi sarebbe divenuto apprezzato scrittore: con lui iniziai un rapporto di corrispondenza ma anche di scambio di visite favorito dal fatto che sua madre era fiorentina e aveva parenti in città. Scriversi lettere, in quell’epoca priva di cellulari, sms, e-mail e quant’altro, che oggi può sembrare lontana anni luce, era un modo non solo di tenersi banalmente in contatto ma di raccontarsi come crescevamo, o magari facevamo fatica, nel seguire il movimento. Allora molte comunità, tra cui la nostra, erano agli inizi, e confrontarsi con chi aveva fatto più strada rappresentava un aiuto non dissimile da quello che ci si dava in montagna, a dimostrazione della valenza educativa di cui sopra.
Seguirono altri anni al liceo e altri campi estivi. Il primo a Soraga, in Val di Fassa, nel 1974, assieme ad altre comunità toscane tra cui Arezzo e Sansepolcro. A guidarci in montagna in quell’anno furono i biturgensi don Valerio Valeri e Alfredo Socali, nonché Enrico Arrigoni, seminarista valtellinese trapiantato ad Arezzo ma anche valente alpinistra. Inutile dire che le gite si fecero ancora più ardite, con tanto di via ferrata del Passo Santner, presso le Torri del Vajolet, che comunque percorremmo in pochi.
L’anno successivo, invece, volammo basso: alle Dolomiti si sostituì la Val di Sieve, e precisamente il convento di Sandetole sopra Contea; la meta più impegnativa fu il Falterona. Vacanza segnata, tra l’altro, da misteriosi rumori notturni che turbavano il sonno della camerata maschile e che poi si rivelarono provenienti da una nidiata di barbagianni nella soprastante soffitta, ma proprio per questo forse ancor più divertente.
Potevamo ormai dirci cresciuti dentro quella storia; l’anno successivo l’esame di maturità avrebbe segnato il passaggio tra gli universitari. Cresciuti, ma non certo arrivati, sia chiaro. Perché la vita è un lungo cammino nella sequela di Cristo, dove ogni tanto torna quell’istinto giovanile di allungare il passo credendo di essere più bravo, o lasciare il sentiero e quindi la compagnia degli amici per cercare improbabili scorciatoie. Per questo ancora oggi mi torna piuttosto spesso alla mente, in montagna ma non solo, la replica di Giorgio cui, all’inizio della gita alla grotta di Castello Tesino, avevo chiesto quale fosse la nostra meta. «Il paradiso», mi rispose. E non aggiunse altro.