Toscana
Calcio giovanile, la fabbrica dei campioni

C’è una ricerca esasperata: già a sei anni i bambini iniziano l’attività calcistica, a 9-10 anni fanno tornei, spesso a 15-16 anni smettono. Uno su un milione riesce a sfondare e da quando il mercato è aperto agli stranieri è ancora più difficile. Le società, ci spiega Sonia Nuzzi, vicedirettrice di Calciopiù, devono pagare a queste compagini satelliti un rimborso per aver segnalato e fatto crescere il giocatore. Anche su questo, spesso, s’innescano polemiche: esiste una tabella, predisposta dalla federazione, che prevede un premio di preparazione ma le piccole società, di solito, tirano sul prezzo mentre le grandi puntano a risparmiare. Come è immaginabile.
Ma Don Lupori, dall’alto dei suoi 88 anni, parla oggi della sua società con disincanto e con un po’ di amaro in bocca: «La San Michele fin dalla nascita avrebbe dovuto avere un’altra filosofia rispetto alle altre società di calcio e, per certi versi, ha avuto un’altra filosofia nel vedere il calcio. Abbiamo avuto Paolo Rossi racconta ancora con orgoglio Don Lupori ed ultimamente Barzagli e, contrariamente ai principi che c’ispirarono quando fondammo la società, i dirigenti di oggi si sono fatti prendere dal demone dello sport e dell’agonismo ed i campioncini di casa nostra li abbiamo ceduti alle squadre professionistiche. Ma è quasi fatale. La società è cambiata: e spesso non è colpa dei ragazzi ma dei genitori che si preoccupano solo che il proprio figlio giochi tutta la partita. È un mondo impazzito commenta Don Lupori con genitori che mi vengono a raccontare che anche la psicologa mi ha detto che il ragazzo non dorme perché ha sbagliato un rigore. È vero, alla San Michele continuiamo a far giocare i ragazzi ma anche a fargli catechismo: tutte le settimane prepariamo i nostri ragazzi alla Prima Comunione e alla Cresima, il giovedì sera abbiamo la Messa ma oggi, anche queste pratiche vengono messe in secondo piano. Quando fondammo la San Michele avevamo in mente di creare una comunità. Oltre al calcio avevamo costruito una palestra per la pallavolo femminile, avevamo comprato terreni sopra villa Strozzi proprio per queste attività giovanili e tanto mi ha aiutato don Ajmo Petacchi che per venti anni è stato al mio fianco. Ma oggi tutto è cambiato. È cambiato il calcio, la gente, il modo di vivere lo sport. Non abbiamo mai dato soldi ai ragazzi ma oggi, come spesso vado a dire, i giovani non sono più animali religiosi ma solo animali sportivi che pensano di più al motorino o alla discoteca che non ad andare a messa la domenica. A parte il mio pessimismo occorre che i giovani d’oggi non si facciano prendere dal demone della partita, della vittoria a tutti i costi e su questo devono riflettere anche le famiglie che non ci aiutano».
Fermandosi a Firenze, oltre alla San Michele, storica compagine cittadina, merita di essere segnalata la Sales, dei Salesiani di via Gioberti, e la Madonnina del Grappa anche se, recentemente, si è fusa con la società che fa capo alla vicina parrocchia di Rifredi, sempre a Firenze. C’era qualcosa a Borgo San Lorenzo così come tentativi di far crescere giovani calciatori sotto l’ombra del campanile li abbiamo avuti, sempre nella zona di Firenze, a Brozzi ed alla Nave a Rovezzano.
Probabilmente rispetto ai primi anni lo «spirito ideale» che aveva fatto muovere i primi passi si è notevolmente professionalizzato; tutto è molto più programmato, cercando di finalizzare al meglio ogni tipo di energia profusa verso i ragazzi. Ogni giovane dotato calcisticamente può divenire un potenziale investimento. Raggiunta l’età di 14 anni, la società di appartenenza, può farlo visionare dalla società di serie A di riferimento (nel caso di Margine l’Atalanta, ma sono «presenti» in Valdinievole altri grossi club) che avendo il diritto di prima scelta può acquisire il ragazzo e trasferirlo verso la casa madre. Altrimenti la società che lo ha fatto crescere può proporlo ad altre squadre, magari di minor rango. Se pensiamo che un organizzatissimo servizio di pulmini raccoglie , nei giorni di allenamento, i ragazzi da varie province vicine alla Valdinievole per portarli al campo, e che altri giovani provenienti da città toscane molto lontane sono totalmente ospitati in un convitto, possiamo facilmente immaginare le dimensioni economiche raggiunte dai settori giovanili. A tutti i giovani prescelti e ospitati nelle «Case del giovane» delle grosse società, è garantita la possibilità di studiare, ma quanto può essere importante quest’ultimo dettaglio per un adolescente che si ciba di pane e calcio tutto il giorno? Solo pochissimi di coloro, che già vengono prescelti, riescono per un certo periodo di tempo a raggiungere il «sogno», i molti «spariscono» nelle serie minori, proprio come i sogni che il mattino si porta via ma nessuno sa dove.
Presidente Barni, a quali meccanismi è dovuta la crisi del calcio giovanile?
«Le società di base all’origine sono nate per il calcio giovanile, concentrandosi esclusivamente sul suddetto ambito. Ma allo scopo di non perdere tesserati, queste si sono attrezzate divenendo società di calcio dilettanti. Ecco che molto è cambiato, specie in termini di costi da coprire nei confronti degli operatori tecnici. Purtroppo le modalità di finanziamento costituiscono la preoccupazione primaria di un sodalizio».
Le realtà sportive cui fa capo il Csi in cosa si differenziano dalle altre?
«Noi del Csi guardiamo prima di tutto alla persona e alla sua valorizzazione, prescindendo dal perseguimento dei risultati. Da un punto di vista organizzativo facciamo leva sulla forza del servizio volontario di tanti nostri dirigenti. Però anche tra di noi sta facendo capolino il problema delle spese: arbitri da pagare, affitti dei campi sportivi da sostenere, non è semplice andare avanti».
La competizione spinta all’eccesso, altra spia che ci dice della crisi del calcio giovanile.
«Non solo spia, ma soprattutto causa della crisi che stiamo vivendo. A questo proposito grosse responsabilità vanno imputate ai genitori dei bambini impegnati nell’attività sportiva. Le società tollerano in maniera passiva la spinta eccessiva alla competizione. La federazione ha predisposto delle regole per addolcire tale ruvidezza, istituendo gradualmente squadre a cinque, sette, nove, undici giocatori. Ciò non ha portato a cambiamenti tangibili: la natura del problema è culturale».
Quali misure adottare nei confronti delle società, per risollevare il calcio dalla decadenza?
«Educare alla sconfitta».