Cultura & Società
Calcio e non solo, come cambia la lingua dello sport
Il linguaggio che sentiamo nelle telecronache, soprattutto per quanto riguarda il calcio, è molto diverso da quello di quarant’anni fa: ne parliamo con il linguista e accademico della Crusca Claudio Giovanardi
Un’indigestione di sport: in attesa delle sospirate ferie all’insegna delle Olimpiadi di Parigi, è questo che già ci sta proponendo l’estate 2024, con una sorta di grande zapping dal calcio al ciclismo, dall’atletica al nuoto, per non parlare del tennis tornato prepotentemente alla ribalta grazie non solo a Yannick Sinner ma anche ai toscani Jasmine Paolini e Lorenzo Musetti. E toscano, cambiando disciplina, è anche Alberto Bettiol, laureatosi campione d’Italia domenica 23 giugno sulle strade della nostra regione, in attesa di dire la sua anche al Tour de France che com’è noto parte quest’anno sabato 29 proprio da Firenze. Dopo le tre settimane del Giro, sentiremo di nuovo le telecronache infarcite di strappi, allunghi, fughe e volate, perché ogni sport ha ovviamente il suo lessico, ben noto agli appassionati ma non così costante come si potrebbe credere. Ce ne accorgiamo soprattutto nel calcio, che in questi giorni è di scena con i campionati europei in Germania.
Ma come e perché è cambiato nel corso degli anni il linguaggio del racconto sportivo? Lo abbiamo chiesto a Claudio Giovanardi, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università Roma Tre e Accademico della Crusca. «Il linguaggio dello sport, come tutti i linguaggi settoriali – premette il nostro interlocutore all’inizio dell’intervista – è destinato a cambiare nel tempo, anche se mantiene un nucleo centrale di termini che si mantengono costanti. Il fenomeno più vistoso del dopoguerra è che sono diventati popolari sport che prima non lo erano: penso al tennis, alla pallacanestro, al rugby e tanti altri».
Professor Giovanardi, che influenza hanno avuto le lingue straniere, in particolare l’inglese?
«Nello sport le lingue dominanti sono state da sempre il francese e l’inglese. Il francese è ancora la lingua ufficiale della scherma, mentre l’inglese è la lingua materna del calcio, e questo spiega perché ancor oggi abbiamo alternative del tipo calcio d’angolo/corner, fuorigioco/off side, calcio di rigore/penalty. Certamente la grande diffusione di parole angloamericane nell’italiano di oggi ha favorito una seconda anglicizzazione in diversi linguaggi sportivi».
Scendendo nello specifico, il calcio è senz’altro lo sport dove il cambiamento è stato più evidente e non sempre ciò è dovuto all’anglofilia. I contropiedi sono diventati ripartenze, i terzini esterni bassi, per esempio. Perché quest’esigenza di usare termini nuovi per ruoli o situazioni analoghe?
«Questo fenomeno è sicuramente il più vistoso degli ultimi anni. Si è voluto immaginare il calcio come una “scienza” fatta di tattiche e strategie, per la quale era necessario “reinventare” la terminologia rendendola più specifica. Basti pensare alle sequenze numeriche con cui si indica la disposizione dei calciatori in campo, come se fossero pedine di un plotone militare: 4-4-2, 4-3-3, 3-5-2 ecc. In linea generale la tendenza è quella di individuare i calciatori in base alla posizione che occupano in campo: esterno alto e basso, centrale difensivo, centrale di centrocampo, punta centrale ecc. Si è persa la poesia delle vecchie denominazioni: terzino, ala, regista, mediano, libero».
C’è una tendenza a voler essere a tutti i costi nuovi che forse va anche al di là dello sport?
«Sì, ma si tratta perlopiù di una verniciatura di superficie. Lei citava prima ripartenza che ha sostituito contropiede, ma il concetto rimane lo stesso. Oggi va molto di moda nel calcio parlare di palle inattive, che nient’altro sono se non il calcio da fermo (su punizione o calcio d’angolo), o ancora di seconde palle, che non sono altri palloni messi in campo, ma semplicemente palle intercettate durante il gioco. Un tempo si faceva catenaccio, oggi si sta in undici dietro la linea della palla».
Quanto ha influito la proliferazione degli eventi sportivi in tv in tutto questo?
«La tv ha fortemente condizionato il modo di fare cronaca dei giornali, dal momento che chi legge il giornale il giorno seguente all’evento già ne conosce l’esito. Il gran numero di sport oggi divenuti popolari, ha anche favorito il cosiddetto fenomeno del “transfer”, ovvero il passaggio di termini da una disciplina all’altra. Faccio solo due esempi relativi al calcio. Quando un calciatore prende la rincorsa per saltare e colpire di testa il pallone si parla di terzo tempo, che è un termine usato per indicare un tipo di azione della pallacanestro; quando sbaglia un gol facile, si dice che ha sciupato un match point, termine ripreso dal tennis».
Dai toni e termini pomposi del passato remoto si è poi passati a telecronache linguisticamente più misurate e in tempi più recenti si sembra approdati al racconto sopra le righe o quasi urlato. Anche queste diverse «mode» hanno influito nella modifica del linguaggio?
«Un tempo le telecronache erano molto più misurate non solo da un punto di vista dell’espressività, ma anche della quantità di parole. Telecronisti come Nando Martellini, Paolo Rosi, Giorgio Bellani (e tanti altri) si limitavano a commentare le fasi del gioco senza mai sovrapporsi alle immagini. Oggi il telecronista (anzi, i telecronisti, perché spesso sono in due) è assillato dall’horror vacui, come se tacere per qualche istante rappresentasse un fatto riprovevole; e parlando di continuo il rischio di dire sciocchezze aumenta notevolmente».
Il ciclismo però pare un po’ diverso, forse ha bisogno di meno parole e così può diventare anche occasione di diventare uno spot per i territori attraversati dalle classiche o dalle tappe. Ma magari anche su questo il linguaggio è cambiato…
«Il linguaggio del ciclismo è ricco di termini francesi. Mi limito a qualche esempio: grimpeur (scalatore), finisseur (velocista), en danseuse (da ballerina), con riferimento all’andatura dondolante tipica degli scalatori in salita. Non mancano però anche parole inglesi come sprint (volata), che ultimamente è stato affiancato anche da rush. Resistono alcune espressioni idiomatiche come essere al gancio cioè non avere più energia nelle gambe, oppure fare il treno, alludendo ai corridori di una stessa squadra che si mettono in testa alla corsa dandosi il cambio nel condurre il gruppo. Non possiamo dimenticare la celeberrima espressione tirare la volata, che si riferisce a un corridore che prepara la volata finale del suo compagno velocista, ma che oggi, con valore figurato, indica chi lavora a vantaggio del successo di qualcuno (ad esempio in politica).
Ci sono sport, a suo giudizio, che invece hanno sostanzialmente mantenuto lo stesso linguaggio di sempre?
«Ripeto ciò che ho detto all’inizio: ogni linguaggio settoriale o specialistico si aggiorna nel corso del tempo, quindi immaginare uno sport che non abbia mutato qualcosa del proprio linguaggio è impossibile. Diciamo che le discipline “di nicchia” sono meno soggette alle mode: penso alla scherma e alla ginnastica artistica».