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Burkina Faso in balìa della galassia jihadista. Povertà, armi e un milione di rifugiati
Il missionario padre Paolo Motta racconta la terribile situazione del Paese segnato da forti tensioni interne, crescita demografica e urbanesimo, pressioni migratorie e violenza. I media hanno di recente raccontato della scomparsa e poi dell'uccisione del sacerdote Rodrigue Sanon, che era stato minacciato dai terroristi. La popolazione è impaurita...
I porosi confini del Sahel sono sempre più labili e insicuri: nella “terra di mezzo” tra Mali, Burkina Faso e Niger, a predominare è il deserto o la fitta boscaglia; dai villaggi di frontiera la popolazione fugge incalzata da milizie armate che non hanno volto e spesso neanche nome. In particolare il “Paese degli uomini integri” (quel Burkina Faso del presidente-eroe Thomas Sankara, ucciso nel 1987), pacifico fino al 2015, è segnato da una continua violenza ad opera di jihadisti che portano desolazione e morte.
Una moltitudine di sfollati. A parlarcene, dalla capitale Ouagadougou, dove vive, è padre Paolo Motta, della Comunità missionaria di Villaregia. “La città è molto cambiata in questi ultimi anni – spiega –. Noi siamo arrivati nel 2017: la popolazione aumenta a un ritmo serrato. Ouagadougou è in grande espansione: si parla del 5-7% di crescita annua. Gli sfollati dai villaggi di frontiera si riversano in città perché fuggono dal terrore. Abbiamo come due Paesi: uno che avanza, l’altro che muore”. Così la città si riempie e la “campagna” si svuota. La parte non valicabile, off limits è la “zona rossa”, oltre la quale può accadere di tutto e non c’è esercito che regga.
Il sacrificio di padre Sanon. Padre Paolo parla anche dell’uccisione di un sacerdote africano (ne hanno dato notizia anche alcuni media in Europa), padre Rodrigue Sanon, di Notre Dame de la paix de Soubaganyedougou, scomparso e ritrovato cadavere nella boscaglia il 21 gennaio scorso. “Nessun gruppo ha rivendicato ancora quest’omicidio – afferma –. Sono atti simbolici, non sembra ci sia dietro un piano politico. I terroristi sono isolati ed estemporanei, ma si inseriscono in un pullulare di fenomeni lontani, che affondano le loro radici nella guerra di Siria”. Quando lo Stato islamico ha cominciato ad entrare in crisi, “molti elementi ben addestrati – dice il missionario italiano – si sono rifugiati nelle fasce del Sahel, in Mali e anche in Burkina e proprio qui hanno posto le loro nuove basi”.
Il ruolo dell’islam. Tuttavia non hanno ancora “una forte identità politica, quanto piuttosto delle risorse economiche che riescono a gestire molto bene. Hanno creato dei corridoi di traffici illeciti, armi e droga, di contrabbando”. E se è vero, come racconta il missionario, che la convivenza con i vicini di casa di religione islamica “è assolutamente pacifica e possibile”, è altrettanto vero che una parte di islam più radicale sta pian piano penetrando nel Paese, a detrimento soprattutto della libertà delle donne. “Vi si aggregano tutti i gruppuscoli che hanno un piccolo controllo del territorio in zone di confine: a loro non interessa neanche molto dell’islam quanto dei soldi che girano e dei commerci. È molto difficile dialogare con questa galassia”, ammette. “Sparano o minacciano e la gente ha paura: se fai così ogni giorno in un villaggio diverso, anche se non hai il controllo del territorio, semini un terrore tale che la gente o ti obbedisce o se ne va…”. Inoltre non esiste un solo islam e non esiste un solo gruppo: “ci sono dieci moschee con dieci imam di correnti diverse nello stesso territorio. Questo crea una frammentazione, come nel cristianesimo con le sette. C’è una propaganda sempre più forte. E una certa paura da parte della gente comune a denunciare le violenze”.
Situazione ingestibile. Naturalmente a soffrire (e a morire) non sono solo i sacerdoti e non sono solo i cristiani. Il popolo burkinabè è in grande difficoltà, come sa bene l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati che oltre agli sfollati interni gestisce la presenza di 20mila rifugiati maliani in Burkina, 3mila dei quali nel solo campo profughi di Goudoubo. “In Burkina gli sfollati sono più di un milione. È il secondo o terzo Paese con più sfollati interni dopo la Siria”, dice ancora padre Paolo.
Fede: consolazione e rifugio. Quanto può essere importante in un Paese così dilaniato la presenza della Chiesa? La fede – spiega – è consolazione ma anche rifugio. “Ci è stato affidato un territorio di una trentina di km quadrati, che comprende due villaggi, Sandogo, più vicino alla città e Bouassà, periferico e meno abitato, per un totale di 75mila abitanti. Abbiamo avviato una nuova parrocchia, iniziando con i cristiani che già c’erano. La domenica le chiese sono molto affollate e le messe davvero seguite”.
*redazione di “Popoli e Missione”