Ragazzi vittime dei compagni di scuola. Ragazzi aggressivi, prepotenti, prevaricatori nei confronti dei loro stessi coetanei, «colpevoli» di essere disabili (come è successo nel caso del ragazzino maltrattato e umiliato dai compagni in una scuola del Torinese), o semplicemente più deboli a livello psicologico. Il fenomeno tornato prepotentemente in primo piano proprio in questi ultimi giorni è noto come «bullismo». Il termine è la traduzione italiana dell’inglese «bullying» ed è utilizzato per designare un insieme di comportamenti in cui qualcuno ripetutamente fa o dice cose per avere potere su un’altra persona o dominarla. E al problema del «bullismo» è stata dedicata una ricerca affidata dalla casa editrice D’Anna da sempre impegnata nel mondo della scuola e attenta alle problematiche degli studenti all’istituto Manners Ardi del professor Renato Mannhaeimer, realizzata su un campione di mille ragazzi dai 14 ai 18 anni. Il primo risultato degno di nota emerso dall’indagine, commissionata dalla casa editrice in occasione dell’ottantesimo anniversario della fondazione, riguarda la diffusione del fenomeno nelle scuole superiori italiane. Tenendo conto delle diverse forme in cui esso si manifesta (verbali, fisiche, sessuali e psicologiche) ci troviamo di fronte a uno scenario in cui il 33% dei ragazzi è «vittima» di almeno una forma di bullismo, mentre il 45% ne è «spettatore», cioè testimone diretto o indiretto dell’esistenza di episodi di violenza. Le vittime sono principalmente i maschi, i più piccoli, soprattutto negli istituti tecnici e professionali. I risultati diventano ancora più preoccupanti se si somma la percentuale di coloro che hanno subìto prepotenze a quella di quanti le hanno viste fare ad altri o sanno dell’esistenza a scuola di questi fatti. Così la presenza del «bullismo» a scuola riguarda il 73 % dei ragazzi intervistati (nel caso di insulti o scherzi subìti da compagni), il 48% nel caso di prepotenze fisiche (calci, pugni, spintoni) e il 21% nelle forme più gravi come «pressioni o minacce per ottenere soldi o favori». Ma quanto queste aggressioni sono legittimate tra gli studenti? Il rifiuto almeno teorico dei ragazzi alle violenze è alto ma benché il 75% dichiari che «lo disturba molto che le facciano», un significativo 17% ha un atteggiamento di accettazione o di comprensione e dichiara che ««i bulli sono assolutamente ragazzi come gli altri» e «posso capire perché lo fanno». Un altro risultato da non sottovalutare è quello che riguarda le reazioni dei ragazzi di fronte agli episodi di «bullismo». Se il 59% degli studenti preferirebbe infatti risolvere i problemi con l’intervento degli adulti (soprattutto le ragazze), il restante 41% preferirebbe risolvere le questioni «tra ragazzi» (specialmente i maschi). Infine, due indicatori che potrebbero misurare una certa «predisposizione» al «bullismo» hanno dato risultati significativi: il 18% degli intervistati si dichiara d’accordo con l’affermazione che «a volte è meglio appartenere ai gruppi dei ragazzi più forti, che magari sono anche prepotenti con gli altri, piuttosto che esserne fuori e subirne le prepotenze» e ancora più elevata (56%) è la percentuale di ragazzi d’accordo con la frase «nella vita è meglio essere furbi e svegli piuttosto che disciplinati e diligenti». La pensano così soprattutto i maschi e i più piccoli, i gruppi più «esposti» al problema del «bullismo». Sono infatti proprio i maschi e i più piccoli (14 anni) coloro che considerano meno gravi le prepotenze e che le subiscono di più: questo loro atteggiamento nei confronti «dell’essere furbi» potrebbe dunque essere interpretato sia come strategia di sopravvivenza alle violenze, sia come forma di riproduzione e predisposizione a compierle. Le ragazze? Meno «bulle» e più ragionevoliBullismo? È sostantivo singolare ma sembra soprattutto maschile. È questa una delle curiosità che emergono dall’indagine effettuata dal sociologo Renato Mannheimer per la casa editrice D’Anna. Il dato precipuo della ricerca indica nel maschio adolescente la «vittima» per eccellenza del bullo nelle scuole italiane. ma sono le ragazze il vero soggetto originale dello studio. Ragazze che, in percentuale, hanno subìto meno dei ragazzi pressioni o minacce per aver soldi o favori, che più difficilmente sono state bersaglio di insulti, scherzi, che ritengono gravissimo dare calci e pugni e prendere in giro qualcuno con cattiveria, che preferirebbero coinvolgere gli adulti nel caso dovessero assistere a un episodio di bullismo o subirlo. le ragazze dunque sono meno «bulle» e più ragionevoli. Anche nelle dichiarazioni d’intenti. Se è vero che il 61% dei maschi è d’accordo che «nella vita è meglio essere furbi e svegli piuttosto che disciplinati e diligenti», le ragazze aderiscono a questa filosofia solo nella misura del 46%. Dunque nelle ragazze il rifiuto della violenza, della prepotenza e della coercizione è più presente rispetto ai maschi. L’intervista: Ragazzi egocentrici allevati dalla tvUn fenomeno da non enfatizzare, ma nemmeno da sottovalutare», sempre esistito, e «oggi più presente per diversi motivi in ambito scolastico». Così Anna Oliverio Ferraris, docente di psicologia dell’età evolutiva all’Università «La Sapienza» di Roma, saggista e autrice del libro di prossima uscita Piccoli bulli crescono (Rizzoli), commenta uno degli ultimi episodi di violenza e bullismo verificatosi nei giorni scorsi: l’aggressione, filmata e messa in rete, avvenuta in un istituto tecnico di Torino, di alcuni ragazzi nei confronti del compagno disabile. Per la psicoterapeuta il bullismo non nasce per caso, ma è legato a «carenze educative, disagio scolastico e sociale», e ad una sorta di «inquietante adattamento» di alcuni ragazzi alla violenza, indotto anche da un uso scorretto dei media. Professoressa, come spiegare, rispetto al passato, la diffusione del bullismo in ambito scolastico?«Negli ultimi decenni la scuola ha conosciuto diversi cambiamenti, tra cui una maggiore tolleranza verso i ragazzi e un allentamento della sorveglianza. Scomparsi, inoltre, i grandi luoghi di aggregazione, la scuola costituisce un importante spazio di incontro ma, al tempo stesso, diviene catalizzatore di conflitti. Un tempo la frequentavano solo alunni appartenenti alla classe medio-alta; oggi vi si mescolano studenti di ogni classe sociale. Il confronto non è solo sul rendimento scolastico o sulla capacità di integrazione: anche le disuguaglianze di tipo economico costituiscono motivo di attrito». Un episodio, quello accaduto a Torino, grave in sé, ulteriormente aggravato dalla ripresa e dalla diffusione su Internet «Non è una novità. Dall’Inghilterra si è propagata da qualche anno la moda dell’happy- slappy (schiaffo felice), che consiste nell’aggredire qualcuno per filmarne le reazioni e metterle in rete. Una sorta di Paperissima, ma più cattiva. D’altra parte i nostri ragazzi sono cresciuti con questi modelli. Una trasmissione come Paperissima è fortemente diseducativa perché incoraggia a ridere delle difficoltà altrui. Non bisogna dunque meravigliarsi se alcuni ragazzi si divertono nel sopraffare altri e nel filmare le loro difficoltà. Amplificando l’eco delle proprie gesta su Internet essi si sentono invincibili». Quali le responsabilità degli adulti?«Se non ricevono un’adeguata educazione, i ragazzi tendono a guardare ogni evento dal loro punto di vista senza considerare il dolore altrui. In loro prevale una forma di egocentrismo che non sa vedere la sofferenza psicologica inflitta alla vittima e, pertanto, non ispira compassione. L’educazione ai sentimenti e alla convivenza inizia in famiglia e deve proseguire a scuola. È legata al modo in cui il bambino viene trattato, a come si parla in casa dei propri sentimenti ed emozioni; alla qualità del dialogo e della relazione tra genitori e figli, ma anche all’incontro con testimoni positivi, alla lettura di buoni libri, alla visione di buoni film. Oggi, invece, molti adolescenti vengono allevati dalla tv che prendono a modello insieme ai videogames, alcuni dei quali sono di una raccapricciante crudezza. Anche il libero accesso in età molto precoce a siti Internet violenti o pornografici abitua i ragazzi a consumare per puro divertimento, e in una sorta di inquietante adattamento cognitivo, scene di violenza nelle quali la vittima è considerata un perdente». Come intervenire?«Consolidati programmi educativi di prevenzione e recupero rivolti agli alunni delle scuole primarie e secondarie esistono già; l’importante è che vi sia la volontà di metterli in campo. È, infatti, a discrezione delle scuole se attivarli o meno». Che cosa prevedono tali programmi educativi?«Si articolano principalmente in tre punti: condurre il bullo a comprendere la sofferenza causata alla vittima; capire le motivazioni che lo spingono a tali comportamenti; trovare i mezzi per rimediare al male compiuto. Si tratta di responsabilizzare il ragazzo che, sentendosi meno ricco o meno bravo di altri, tenta di mostrarsi forte picchiando o mettendo qualcuno in condizioni di inferiorità. Occorre fargli capire la gravità delle sue azioni, ma anche renderlo consapevole delle motivazioni che le sottendono, facendogli vedere che esistono manifestazioni di forza più valide della violenza esercitata sui deboli per alzare il proprio livello di autostima. La forza morale e il coraggio sono ben altro. Infine, deve essere il ragazzo stesso a proporre le modalità per rimediare al male compiuto tirando fuori le proprie risorse ed energie positive. Anche il bullo ha una parte buona; l’importante è farla emergere». Dando risalto mediatico a certi episodi non si rischia di provocare fenomeni di emulazione?«Questi si verificherebbero invitando i ragazzi violenti in tv e facendone di conseguenza dei personaggi. Credo che l’informazione di questi giorni possa piuttosto servire a far riflettere su un fenomeno che non è da enfatizzare ma nemmeno da sottovalutare. Dovrebbe ispirare un serio dibattito per mettere in campo un’efficace strategia di prevenzione in famiglia, a scuola e nelle altre agenzie educative».