Italia

Briciole di clemenza per il pianeta carcere

di Giuseppe AnzaniNiente amnistia, niente indulto. La briciola di clemenza invocata verso la sofferenza del pianeta carcere, si chiama «indultino». L’ha votato la Camera dei deputati, in modo trasversale rispetto allo schieramento dei partiti, e non sono mancate le polemiche. Ad alcuni è sembrata ancor poca cosa questa attenzione operosa verso il popolo dei reclusi, da anni in attesa, dentro un crescente disagio; ad altri è parsa un’esagerazione, una debolezza, persino un pericolo, fino a ostentare fasce di lutto. Un segno comunque è venuto, e dobbiamo prenderne atto. Questo attenua l’impressione penosa di un dibattito passato tenuto in istallo troppo a lungo; si è compreso, forse, al di là delle difficoltà contingenti di articolare una legge acconcia, che l’apertura verso una calcolata misericordia può rinverdire le sfide della speranza e dar più frutto di una chiusura totale agli appelli di chi sta in «queste» carceri, fatte così; mentre la durezza può tornare controproducente se zittisce ogni attenzione clemente, perché ne sciupa non solo le ragioni sapienziali, ma ne smarrisce brutalmente persino i principi di ragion pratica.Che cosa sappiamo davvero della realtà del carcere dove nelle gabbie adatte a far penare i 40mila si stipa la carne dei 57mila reclusi? Che cosa sappiamo davvero di ciò che passa dentro il cuore e lo spirito che abita quella carne? O il teorema del castigo ci ha talmente accecati da non rammentare più lo scopo per il quale il castigo ci par giusto, perché non vendica ma redime? Sono passati tre anni dall’inizio di quel grande Giubileo millenario, che ci metteva in contatto col bisogno di riconciliazione e di speranza, a non sentirci perduti, inchiodati ai nostri debiti permanenti. E ne sgorgava, come fiotto d’acqua sorgiva, l’attesa di un segno che raggiungesse simbolicamente il pianeta del dolore penitente, a far sicuri quegli uomini reclusi che non erano stati gettati via, confinati in una discarica. Per tre anni si è atteso, e non era accaduto nulla. Ci si accapigliava, nel mondo politico, tra confusi progetti e polemiche, apprezzando sì la preghiera del Papa, supplice non da ieri per i fratelli ristretti in carcere; ma tosto rammentando che la pena è un istituto serio e severo, che deve avere certezza. In questa ottica dura, la parola della clemenza pareva ai duri un’intrusione di debolezza.Certezza, sì: ma quale pena, e a quale scopo, e con quale frutto. Se le condizioni di vita carceraria configurano il periodo di pena come un sottratto alla vita, come un tempo destrutturato anziché investito nella rieducazione, lo spreco del dolore può covare in cuore le sue disperate rivolte, come un tizzone ardente. Le rivolte si possono reprimere, è già accaduto. Ma ribadire le catene come geniale crudeltà risolutiva delle tensioni ribelli provocate da un disumano disagio è tutto il contrario della norma costituzionale che bandisce ogni trattamento contrario al senso di umanità, e vuole la pena come strumento che tende alla rieducazione. Il recluso non può perdere il rispetto della dignità, non può perdere i diritti umani. Rammentiamo le parole dette qualche mese fa dal presidente Ciampi ai detenuti del carcere di Spoleto: i principi della dignità e del recupero sono applicati, “ma non è così ovunque”. Pensare la detenzione come un tempo consumato in una sorta di sterile esilio, inflessibile e insensibile ai mutamenti della condotta e del cuore, non è solo un’ingiustizia atroce, è la più stolta diseconomia del sistema punitivo.Da un lato, dunque, c’è differenza fra la privazione della libertà e la Caienna: e il sovraffollamento carcerario è una violenza immanente. Quel sovrappiù di penosità della reclusione che c’è in Italia per la carenza di strutture decenti è una ingiustizia che renderebbe persin doveroso un calcolato accorciamento del castigo nominale inflitto, in ragione del peso specifico della modalità subumana di espiazione. Dall’altro lato, a dare senso e utilità al castigo, la pena deve diventare penitenza; cioè cammino verso un traguardo di emenda. A questo scopo la pedagogia della prova, della mano tesa, del segnale di clemenza sapientemente orientato e misurato, può essere una sferzata di speranza, una goccia d’acqua dentro l’arsura dei cuori disperati.

Anche i principi contenuti nella nostra legge penitenziaria, così moderna e così disapplicata, ci spingono in quella direzione per ragioni di giustizia, e non di indulgenza. Il tempo della pena non appartiene al mondo dell’espulsione e della solitudine, ma al cammino operoso verso la ricostruzione della vita onesta. Non è un tempo rapito e distrutto, ma un tempo recuperato. La società attuale, stretta fra la paura del delitto, l’esigenza di sicurezza e di protezione, il desiderio così comune e così frustrato di una giustizia efficace, rimanda alla classe politica un problema difficile di equilibrio. I castighi che per qualità e quantità danno frutto di disperazione sono una medicina che si trasforma in veleno. Sono una ingiustizia, in sé. A rendere visibile nel mondo della carne ciò che avviene nel mondo dello spirito, abbiamo bisogno di segni. Una qualche indulgenza per la carne incarcerata che soffre è un segno; un segno che abbiamo compreso il prodigio della speranza. Che c’è un tempo di espiazione e un tempo di redenzione. Di una giustizia che chiude e castiga e di una giustizia aperta al rimedio, che lenisce e accompagna, che rende fecondo il dolore inflitto, che promuove il recupero sociale.

È questo indultino una risposta sufficiente al «Jobel» che da tre anni ci ha interpellato? È presto per dirlo. La filosofia di questa legge non è uno sconto, ma una messa alla prova. La pena non si scorcia neanche di un giorno, ma viene sospesa (una sola volta) l’esecuzione degli ultimi tre anni di pena per chi non ha commesso reati gravissimi, ha tenuto buona condotta in carcere e ha già scontato un quarto della propria condanna. Chi non sta ai patti e alle prescrizioni per i successivi cinque anni, torna in carcere e sconta tutto. Sicchè il frutto di questa legge si vedrà nel futuro. E questi condannati «in sospensione», per farcela, avranno ancora bisogno di attenzione da tutti noi. Avranno bisogno di soccorso, perché risalire la china è più difficile che camminare in piano. Una misericordia inerte, senza poi nessun aiuto nel cammino impervio, diventerebbe un abbandono.

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