Toscana
Bregantini: «La mafia non ci fa paura»
«Siamo molto preoccupati. La mafia oggi non fa attacchi eclatanti o particolarmente violenti e dannosi. Questi attacchi però sono terribili sul piano simbolico. La mafia quando usa la simbologia in maniera proterva è talmente sicura di sé che dice: non occorre che io ti mandi un messaggio distruttivo e mortale ma ti mando un messaggio identificativo che è molto chiaro, che capisci da solo senza che io ti faccia un danno eccessivo». Monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri-Gerace, non nasconde la sua amarezza per le ripetute intimidazioni arrivate in questi giorni alle cooperative della Locride, dal centro polifunzionale «Magna Grecia» del Comune di Ardore (Rc), gestito da una impresa di giovani, al Centro Giovanile Salesiano di Locri, fino alla cooperativa sociale «Valle del Marro» di Gioia Tauro. Lo abbiamo incontrato a margine del convegno della Fisc sul regionalismo, tenuto nei giorni scorsi a Reggio Calabria. Proprio sul ruolo della stampa, e in particolare di quella cattolica, mons. Bregantini invita a «cogliere il bello, il positivo, la speranza che già c’è» per dare coraggio alla gente. «Anche nel male ci spiega bisogna intuire e cogliere le situazioni che possono aprire spiragli di bene. Si tratta di una lettura critica, non buonista, che faccia emergere le deficienze strutturali e le lacune anche della nostra catechesi, della nostra Chiesa e i limiti di una religiosità chiusa e che non diventa etica. Occorre un giornale che sappia essere profetico, coraggioso, libero».
Mons. Bregantini, cosa significa oggi un regionalismo condiviso partendo dalla Calabria?
«Bisogna giocare sulle due anime della storia, sul pendolo della vita che è la capacità di dare ad ogni popolo la sua identità. Senza questa identità un popolo si turba e si ribella non partecipando. Noi, come diocesi di Locri-Gerace abbiamo preso queste due parole identità e corresponsabilità nei lavori del nostro Sinodo diocesano che si sta svolgendo. La stessa cosa deve avvenire a livello regionale. Le tipicità locali, le lingue, le situazioni, le culture, i problemi devono emergere. Ma un’identità che non si apra alla corresponsabilità si svuota. Bisogna anche pensare che a lavorare solo con le proprie identità si rimane isolati e soffocati».
Questo popolo calabrese da secoli è sfortunato. Non ci si piange però un po’ troppo addosso?
Quanto le cooperative sociali, nate all’interno del progetto Policoro, possono dare risposte a queste situazioni di precarietà?
«Se la cooperativa è fatta bene e se, soprattutto, offre un guadagno, regge e può rispondere a molte esigenze. Se si guadagna si capisce che la cooperativa è una strada da percorrere altrimenti se si lavora senza guadagno, senza risposte, si intuisce che non è questa la strada e la cooperativa fallisce. Ma questo non è per incapacità dei giovani calabresi. La nostra esperienza ci dice che se queste cooperative sono ben accompagnate danno delle risposte chiare e delle soddisfazioni. L’esempio del Consorzio Sociale Goel, nato nella diocesi di Locri-Gerace, ne è un esempio».
È, quindi, una esperienza da esportare nelle altre diocesi?
«Sì, ma nello stesso tempo noi impariamo dalle altre diocesi, dalle altre realtà. Il progetto Policoro ha dato dei segni positivi e belli un po’ ovunque, diversificati ».
Ma qual è il limite che si registra anche all’interno di queste esperienze?
«Sono ancora realtà di nicchia. Anche nella nostra diocesi manca una cultura in questo senso. Sono cose belle, ricche, sono come i quadri di una parete ».
Sono comunque spiragli di luce e di speranza
«Certamente: bisogna però passare dall’esperienza alla cultura e in questo abbiamo bisogno di tempo. Più di quello che pensavamo. Noi ritenevamo che in un paese dove c’è una cooperativa che funziona i ragazzi del paese sarebbero stati attratti naturalmente da questo. Ma non è immediato. Occorre un processo formativo ed educativo esplicito».
Ma i suoi giovani non è che le chiedono: andrà via anche lei dalla Calabria?
«Me lo chiedono ma io non me ne vado. Non lascio questi giovani a loro stessi, devo stare al loro fianco».
Don Ciotti: «La Toscana ha gli anticorpi giusti»
Mafia in Toscana? «Nessuna regione è esente dal rischio risponde il presidente di Libera, don Luigi Ciotti ma la Toscana ha sempre avuto gli anticorpi per respingere questi attacchi». I tentativi di penetrazione mafiosa, comunque, non sono mancati: lo documentano i beni confiscati alla mafia nella nostra regione che sono, attualmente, 23. «Si tratta per lo più di cose relativamente piccole: appartamenti, garage… ma con un paio di eccezioni importanti» spiega Maurizio Pascucci, uno dei coordinatori di Libera in Toscana.
Il caso più significativo, tra quelli risolti positivamente, è una casa colonica nel comune di Massa e Cozzile: un podere nascosto in un bosco, che il clan Nuvoletta usava come raffineria di droga. Oggi ospita una comunità di recupero per tossicodipendenti. Ma il vero e proprio «tesoro» mafioso in Toscana è l’Hotel Gran Paradiso di Montecatini: una grande struttura in mattoni rossi, ben visibile anche dall’Autostrada. Un albergo a 4 stelle su cui aveva messo le mani la Banda della Magliana. «È stato oggetto di discussioni infinite spiega Pascucci ma non è stato ancora assegnato. È una struttura molto impegnativa, e non è facile trovarle una destinazione a fini sociali».
Riccardo Bigi