Nonostante la tensione all’esterno dello stadio, l’arrivo dei black-block, le notizie delle cariche di polizia e dei feriti, lo spettacolo doveva andare avanti. Il globo-pallone-frutto tropicale doveva aprirsi e i tre cantanti dovevano fare il loro lavoro, quello di internazionalizzare la cerimonia d’apertura della ventesima edizione dei campionati del mondo di calcio. Pitbull è statunitense, come Jennifer Lopez, che però ha origini portoricane, mentre Claudia Leitte giocava in casa: a loro spettava il compito di far digerire un inno, “We are one” che già di per sé si era attirato critiche di ogni tipo, compito ahimè non del tutto assolto per due motivi: il primo è che l’inno di un Mondiale in una delle patrie del calcio non si può cantare in playback, e il secondo è che se lo si canta in playback lo si deve fare con una sincronia movimento-suono che qui non si è vista, anzi, lo scollamento tra movimenti delle labbra e dei suoni era fin troppo evidente.E sì che non era cominciato male, il ventesimo dei Mondiali di calcio. In linea con i problemi che venivano dalla piazza di un Paese che paga l’esser stato indicato tra le potenze emergenti e che sconta ora il passaggio tra un’economia di sostegno del credito e della capacità di spesa delle famiglie a quella della necessità di migliorare i servizi e le strutture, si è badato al sodo: il Brasile della natura (da difendere contro inquinamento, disboscamento e incendi), delle sue genti e delle sue tradizioni, dall’antica arte marziale (ma secondo alcuni una danza rituale mascherata da combattimento durante la schiavitù) della Capoeira al samba, fino al calcio oltre le barriere fisiche, 660 figuranti, tra bambini, alberi, canoe, fiori hanno colorato uno scenario che non doveva essere né ricco né eclatante, ma dare il senso di quella cultura e di quelle origini.Molti, tra l’altro, avrebbero preferito cantanti locali, visto che la musica brasiliana ha dato tantissimo alla canzone d’autore. Qualcuno l’ha visto come il prezzo da pagare alla mondializzazione. Anche e soprattutto nel calcio. Un prezzo, secondo molti tra i dimostranti, troppo alto, in un Paese in cui sussistono ancora sacche di miseria e di emarginazione.Ma il calcio in Brasile vola molto più alto del mercato e degli interessi bancari, perché qui diventa letteratura, letteratura vera, con la L maiuscola: personaggi mitici non le sono certo mancati, come Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per chi ha gustato il calcio degli Ottanta semplicemente Sócrates, medico, politico (militante di sinistra), elegante in campo come pochi, scomparso tre anni fa per una cirrosi epatica. Su di lui la giornalista Solange Cavalcante ha scritto un interessante libro, “Compagni di stadio. Sócrates e la democrazia corinthiana”. Mica il solo: l’evento più luttuoso, che ancora oggi turba l’immaginario collettivo (ci furono, correva il 1950, addirittura dei suicidi) del tifoso brasiliano di ogni età, la sconfitta nel mondiale – qui in Brasile, a Rio – per mano dell’Uruguay di Schiaffino e Chiggia, è stato magistralmente narrato dallo scrittore argentino Osvaldo Soriano in uno dei racconti di “Fùtbol”. Il quale fùtbol, oggi come oggi, è molto più gioco di squadra rispetto agli anni di Pelè, tanto per fare un nome. Lo sa anche Papa Francesco, che nel suo video-messaggio ha mostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che di calcio se ne intende: occorre allenarsi, avere fair play e rispetto per gli avversari, e, soprattutto “superare l’individualismo” per non recare pregiudizio al successo della propria squadra. Non è un messaggio di circostanza: se è vero che alcuni campioni fanno la differenza, senza i portatori d’acqua, gli Oriali cantati da Ligabue, quei campioni sarebbero condannati all’isolamento e alla sterilità. E al fallimento della comunità. Non solo di quella calcistica.