Mondo

Braccio di ferro Madrid-Barcellona: «nessuno cerca un vero dialogo»

Il referendum incostituzionale del 1° ottobre è saltato dopo l'intervento del governo nazionale. Ma il premier Rajoy non propone alcuna soluzione e il presidente catalano Puigdemont cavalca l'onda separatista. Il docente dell'Università di Barcellona Steven Forti afferma: «Entrambi sono prigionieri di una cieca strategia». Intanto la mobilitazione popolare cresce nella regione. E l'Europa? «Dovrebbe impegnarsi per facilitare un vero confronto tra le parti».

Un dialogo tra sordi. Anzi, il dialogo non c’è. E mentre Spagna e Catalogna marciano in direzioni opposte, a Barcellona la tensione sale a livelli allarmanti. Il governo nazionale di Mariano Rajoy ha di fatto reso impossibile la celebrazione del referendum proclamato per il 1° ottobre dalle Generalitat, l’esecutivo regionale, per sostenere il processo indipendentista. I poliziotti della Guardia Civil giunti da ogni angolo della penisola iberica sono – si calcola – almeno 30mila. Le schede elettorali sono state sequestrate, i seggi smantellati… Così per le strade di Barcellona e delle altre città e villaggi catalani la gente è scesa in strada, rivendicando l’autonomia politica e la «libertà di scegliere» il proprio futuro.

«Ciò che preoccupa è che non ci sono canali di dialogo aperti» tra le parti, spiega al Sir Steven Forti, italiano di origine, docente di Storia contemporanea alla Universitat Autònoma de Barcelona, città dove vive da 15 anni. Autore di vari studi sulla storia catalana, ha appena pubblicato un volume sul processo indipendentista in atto nella regione, che conta oltre 7 milioni di abitanti (su una popolazione spagnola di 46 milioni) e produce il 19% del Pil nazionale. Ragioni economiche e fiscali, oltre a quelle identitarie, culturali e politiche, segnano le differenze tra Spagna e Catalogna, chiarisce lo storico. In particolare sul referendum «dal punto di vista costituzionale ha ragione il governo, perché esso va contro la Costituzione»; ma sull’intera vicenda non bastano le sentenze dei giudici, dietro i quali si è trincerato Rajoy. Così come al governo catalano si può obiettare di aver scelto la via unilaterale delle rivendicazioni secessioniste…

Professore, cosa sta succedendo a Barcellona?

«Succede che la tensione sale alle stelle. Gli studenti medi e universitari sono scesi in piazza, la popolazione si è mobilitata. Domenica non si terrà il referendum previsto, ma di certo avremo una giornata di forte rivendicazione identitaria».

Sono possibili scontri o violenze?

«Non credo, finora non è mai successo, le proteste dei catalani sono sempre state civili e nel rispetto della legge. Ma è altrettanto vero che ora la situazione si è fatta più tesa. E questo si deve al fatto che non si è avviato alcun confronto tra le parti e, stando così le cose, nessuno cambierà idea. Sarà importante verificare quale sarà il livello di partecipazione alle manifestazioni del fine settimana che certamente si svolgeranno in tutta la regione».

Chi ci sarà in piazza?

«Non solo gli indipendentisti, che secondo calcoli piuttosto precisi (anche in base al multisondaggio del 2014 e alle elezioni del 2015) dovrebbero essere fra il 30 e il 45% della popolazione. Ci sarà anche chi, dopo le forzature del governo nazionale, reclama il rispetto della democrazia e dell’autodeterminazione, chi vorrebbe semplicemente maggiori garanzie di autonomia in campo fiscale e più rispetto per la lingua e la cultura catalane».

Perché si è arrivati a questo punto?

«Perché a mio avviso sia Rajoy, peraltro alla guida di un governo già di per sé debole, sia Carles Puigdemont, presidente catalano, sono ormai schiavi della loro cieca strategia. Rajoy non ha mai avanzato una vera proposta di conciliazione con Barcellona (magari inserendo nella Costituzione spagnola qualche ulteriore riconoscimento dell’identità catalana). Puigdemont, anche per ragioni elettorali, non ha mai cercato un accordo. Ora chi dei due volesse fare un passo indietro sarebbe additato dai suoi come uno sconfitto, un traditore».

L’Unione europea parteggia, seppur con una certa prudenza, per l’unità del Paese. E questo è piuttosto ovvio, anche perché i fronti separatisti in Europa non mancano, e in più c’è la ferita aperta del Brexit. A suo avviso questa è una posizione utile alla causa?

«La questione è in effetti molto complessa. La Commissione europea da una parte richiama all’unità, dall’altra fa intuire che si è di fronte a una questione interna spagnola. Ciò che dovrebbe fare Bruxelles è muoversi dietro le quinte, con prudenza e rispetto, cercando di facilitare il dialogo tra il governo di Madrid e la regione catalana».

Si parla di una «identità catalana» diversa dal resto del Paese. Da storico, cosa ne pensa?

«La storia, la lingua, la cultura di un popolo sono molto importanti. E qui in Catalogna a maggior ragione. Anche perché c’è una società civile vivace, un florido reticolato di associazionismo civile. E poi non va dimenticata la potenza economica della regione…. Questi elementi vengono però manipolati per fini politici o addirittura elettorali da parte delle forze indipendentiste. Inoltre aggiungerei che esiste una sorta di abuso politico della storia, piegata alle rivendicazioni separatiste. Taluni storici catalani hanno fatto apparire la Catalogna come un Paese che vive sotto l’occupazione castigliana. È chiaro che qui ci sono pericolose forzature».

Nel mondo globale un piccolo Stato come la Catalogna che fine farebbe?

«Qui sta un altro elemento che fa riflettere: in realtà nulla è stato seriamente elaborato sul day after. L’indipendenza è vissuta come una grande utopia collettiva. Si è detto che l’indipendenza avrebbe portato ricchezza, giustizia sociale, libertà. Insomma, un Paese del Bengodi. Invece qualche analisi puntuale e lungimirante sarebbe assolutamente necessaria. Io credo che qualcuno viva di sogni. Ora stiamo a vedere se da lunedì ci sarà, sia da parte di Madrid che a Barcellona, una concreta volontà di ascoltarsi e di affrontare insieme i problemi sul tavolo».