Opinioni & Commenti
Borse, il cerino acceso e la patacca cinese
Si dice: giocare in Borsa. Non a caso, visto che più di altri questo è l’investimento finanziario più simile ad un gioco. C’è qualcuno che vince, e qualcuno che perde (soldi) per far vincere l’altro. In teoria non è così, si tratterebbe di liquidi investiti nelle Borse per sostenere lo sviluppo di questa o quell’azienda. In pratica, dalla Wall Street dei ruggenti anni Venti ad oggi, si «gioca» in Borsa sperando di fare il colpaccio.
È quello che hanno pensato e fatto decine di milioni di cittadini cinesi, quando negli anni scorsi e fino a ieri hanno investito tutti i loro risparmi – e non solo: si sono pure fortemente indebitati – nelle Borse locali, nella speranza che i soldi seppelliti sotto terra facessero nascere l’albero degli zecchini d’oro. Solo che il Gatto e la Volpe questa volta hanno assunto le sembianze del governo cinese, che ha favorito a più non posso il rally borsistico: arricchire (e quindi fare felici) le masse a sforzo zero è il sogno di ogni governante.
E così aziendine che producono serramenti in legno si sono trovate con capitalizzazioni di Borsa pari ad una multinazionale occidentale. I prezzi volavano, chi aveva comprato a suo tempo, poteva vendere incassando laute plusvalenze. Solo che il gioco prevede che ad un certo punto la candela si esaurisca, rimanga nelle mani di qualcuno che così si scotta. E si precipita a vendere tutto, nel terrore di perderlo.
Sta succedendo proprio in queste ore non solo nel mercato borsistico cinese, che era dentro appunto ad una gigantesca bolla speculativa, ma per contagio pure a tutte le altre Borse mondiali, che dopo tanta finzione si ricordano che un conto è giocare e speculare, un altro è investire. Anzi, da decenni fa parte del gioco: si attirano le pecore dentro il recinto, quando sono tante si tosano. I grandi investitori finanziari lo sanno fare benissimo: entrano nel gioco dopo la tosatura, escono un po’ prima che le pecore sopraggiunte abbiano di che insospettirsi.
E adesso? In altri tempi, la cosa non ci avrebbe più di tanto preoccupato. Scoppia la bolla, c’è chi si bagna e chi ha festeggiato prima. Poi si ricomincia.
Ora il quadro è ben più complesso. Il mondo è reduce da anni difficili, un po’ tutte le economie stanno rallentando, anzitutto quella cinese che negli ultimi 15 anni ha trainato il resto del globo. Se in quel Paese-continente le cose si mettono male, tutto il resto del mondo trema: ne va delle esportazioni dell’intero Occidente. Un malanno contagioso mentre il malato sembrava ristabilirsi. Che succederà, allora?
Qualcosa si inventeranno, nel 2008 l’abbiamo risolta facendo ingigantire i debiti pubblici. Nessuno ha interesse ad arrivare al «vedo», sempre rimanendo in termini di gioco. Cioè scoprire che tutto il mondo è avviato sulla strada del benessere, ma ottenuto in soli 10-15 anni. Le ricchezze vere, appunto il benessere, non si conquistano con i giochetti finanziari bensì con il duro lavoro. Ma con il lavoro non si diventa tutti ricchi in pochissimo tempo. Lo siamo diventati con le carte, i debiti pubblici, la moneta virtuale; con la finzione.
Pure in Cina: nel 1966, anno della nefasta Rivoluzione culturale maoista, la povertà nelle campagne era tale che si vociferava di episodi di cannibalismo. Cinquant’anni dopo Pechino è diventato il più interessante mercato per le vendite della Ferrari e dello champagne. In Romagna dicono: «patacche». Ecco, in questo mondo di patacche e pataccari sarebbe interessante una riflessione globale su cosa abbia scritto il Papa non più tardi di qualche settimana fa, per riportare un po’ tutti con i piedi per terra. Anche perché la classica strada percorsa dall’umanità ogni qualvolta sia arrivata al «vedo», è semplicemente inaccettabile: la guerra. Ce lo siamo già dimenticati?