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Bolivia, Evo Morales si dimette. Vescovi: «Non è un colpo di Stato, ora transizione rispettosa della Costituzione»
Evo Morales, dopo 13 anni di potere e 20 giorni di proteste che hanno fatto seguito alla sua contestata conferma al primo turno delle presidenziali in Bolivia, si è arreso. Sono stati i militari a intimargli di andarsene. Ma non è un colpo di stato, spiegano i vescovi e il presidente della Conferenza episcopale boliviana, mons. Ricardo Centellas invita ad una transizione nel rispetto della Costituzione.
Evo Morales, dopo 13 anni di potere e 20 giorni di proteste che hanno fatto seguito alla sua contestata conferma al primo turno delle presidenziali in Bolivia, si è arreso. Tutto è accaduto repentinamente. L’inizio della sua fine è stato l’ammutinamento delle forze di polizia, venerdì a Cochabamba e a Santa Cruz, epicentri da settimane della protesta contro il presidente indio. Il colpo di grazia lo ha dato l’esercito, quando in Italia erano le 22. Un comunicato delle Forze armate ha intimato a Morales di andarsene. E poco dopo il presidente ha annunciato la sua rinuncia. Si troverebbe, ora, una volta smentite le notizie di fuga all’estero, nella regione di Cochabamba, mentre al momento le voci di un ordine di cattura nei suoi confronti sono state smentite dalla Polizia. In mezzo a questi avvenimenti, l’appello di Papa Francesco alla pacificazione, rivolto durante l’Angelus domenicale, e l’atteso responso, arrivato in Italia attorno all’una del pomeriggio di ieri, dell’Organizzazione degli Stati americani: le elezioni presidenziali del 20 ottobre, che avevano dato a Morales la vittoria al primo turno, al fotofinish, erano state viziate da evidenti frodi.
Messo all’angolo, Morales, che già sabato aveva invitato le opposizioni a un tavolo di dialogo, ha convocato nuove elezioni, così come gli veniva chiesto da più parti. Una decisione arrivata troppo tardi. Sia i partiti politici, a partire dal suo principale oppositore Carlos Mesa, sia i comitati civici, capitanati da Luis Fernando Camacho e Marco Pumari, hanno a quel punto preteso la rinuncia di Morales. Il «contorno» di quanto accadeva nei palazzi, si è vissuto nelle piazze: la casa della sorella del Presidente è stata incendiata, come quella di alcuni governatori e di fedelissimi del presidente. Scontri, con diversi feriti, ci sono stati nelle principali città del Paese. Lo stesso Morales, nelle sue ultime parole, ha detto di voler evitare una guerra fratricida tra boliviani, gridando però al golpe.
Vescovi: «Ora transizione rispettosa della Costituzione». Il Paese di appresta a vivere una giornata nella quale sarà chiamato a vivere una transizione ordinata. E non sarà facile. A chi toccherà portare la Bolivia alle nuove elezioni, dopo che hanno rinunciato al loro incarico, oltre al presidente, anche il suo vice e i presidenti dei due rami del Parlamento? Se la vittoria al primo turno di Morales aveva fin da subito dato spazio a fondati sospetti, anche la sua improvvisa defenestrazione suscita degli interrogativi, pur nella cornice di una mobilitazione popolare massiccia, prolungata e in gran parte pacifica.
Comprensibile dunque la prudenza del presidente della Conferenza episcopale boliviana, mons. Ricardo Centellas, vescovo di Potosí, che ha affidato al Sir, pochi minuti dopo la rinuncia di Morales, le sue prime dichiarazioni sul nuovo scenario, dopo che anch’egli aveva chiesto al presidente di rinunciare al suo incarico, un paio d’ore prima. «Come Conferenza episcopale stiamo accompagnando questo processo di transizione chiedendo due cose: che esso avvenga da un lato in modo pienamente legale e rispettoso della Costituzione, e dall’altro che esso avvenga in modo pacifico. Chiediamo che venga installato un nuovo Tribunale elettorale rinnovato e al di sopra di ogni sospetto, per avere elezioni pienamente democratiche». Secondo mons. Centellas, «la rinuncia di Evo è frutto soprattutto della pressione sociale di questa settimana. Nella mia città, Potosí, si è arrivati a 33 giorni di sciopero civico, a livello nazionale si è arrivati a 19 giorni. La tensione sociale è salita di tono, tutti hanno iniziato a chiedere nuove elezioni, lo ha chiesto il mondo intero. A mio avviso il presidente non è riuscito ad affrontare nel modo adeguato questa protesta sociale. L’accelerazione, poi, è stata dovuta soprattutto alla comunicazione dell’Organizzazione degli Stati americani, dalla quale è venuta la conferma della frode elettorale». È consapevole, il presidente della Ceb, che «la fase che si apre ora è molto incerta». Come molti osservatori fanno notare, «non esiste un volto rappresentativo di quella che è l’attuale opposizione». Tuttavia, «passeranno dei mesi prima delle nuove elezioni e c’è la speranza che sorgano uomini nuovi e che le cose migliorino».
«Non è un colpo di Stato». Nella notte italiana, qualche ora dopo, arriva anche il comunicato ufficiale dei vescovi, che, insieme ad alcune organizzazioni civiche, ribadisce gli stessi concetti, e scandisce: «Quello che succede in Bolivia non è un colpo di Stato. Lo diciamo di fronte a tutti i cittadini boliviani e alla comunità internazionale». L’episcopato, del resto, ha seguito da vicino gli eventi, spesso tragici di questi giorni. Lo ha fatto, per esempio, in stretto rapporto con il suo arcivescovo, mons. Carlos Curiel Herrera, vescovo ausiliare di Cochabamba, la città dove la settimana scorsa ci sono stati violenti scontri, con una vittima e diversi feriti. «Il nostro in questi giorni è stato un invito al dialogo, con la preoccupazione di entrare in una spirale di violenza», ha detto al Sir prima della rinuncia di Morales, non senza tralasciare (il vescovo, religioso scolopio, è venezuelano di nascita) un riferimento personale: «Ho visto il ripetersi di alcuni avvenimenti che ho vissuto in Venezuela, prego perché tutto si risolva pacificamente e in modo diverso rispetto a quanto accade nel mio Paese d’origine, che le similitudini che ho visto svaniscano». Mons. Curiel si dice convinto che «la gente chieda soprattutto nuove elezioni» e che l’offerta di dialogo da parte di Morales «sia arrivata tardi, fuori tempo massimo».
Un primo bilancio dell’era di Evo. L’uscita di scena di Morales, avvenuta dopo aver «forzato» in tutti i modi la Costituzione, a partire dalla sua contestata ricandidatura, tuttavia, non può non scuotere tutto il Continente. Mons. Centellas prova a fare un primo, sintetico bilancio: «Ha cominciato molto bene, ha terminato molto male. Ha iniziato con una forte inclusione della cultura indigena e ha terminato annichilendo gli indigeni. Nei primi anni ha amministrato bene l’economia, negli ultimi lo Stato è andato in deficit, si è partiti con uno stile anche personale di austerità, è si è arrivati a una corruzione generalizzata». Come ha accennato il presidente della Ceb, Morales è stato anche un simbolo, spiega Cristiano Morsolin, esperto di diritti umani dell’America Latina: «C’ero anch’io ad accompagnare Morales in visita al Parlamento europeo nel 2005, appena prima della sua elezione. Poi, il primo presidente indigeno della storia dell’America Latina, che ha approvato una delle costituzioni più avanzate del mondo nel 2009, dove si respirano vari temi poi affrontati dall’enciclica Laudato Si’». Oggi l’epilogo, «e il mio ricordo personale, al di là di tutto – conclude Morsolin – va a quanto già accaduto in Honduras e in Paraguay nello scorso decennio».