«La vita come dono – ha affermato l’Arcivescovo – è una delle evidenze che rischiamo di perdere, tra chi vuole disporne a suo piacimento, slegandola dalla sorgente pura che ne è l’amore coniugale, per farla diventare un oggetto da produrre in forme sempre più tecnicizzate e quindi disponibili, e chi la tratta come una realtà puramente biologica, priva del valore e della dignità personale, di cui quindi ci si può disfare se ostacola la vita dell’adulto o se la società si mostra incapace di sostenere l’adulto nell’accoglierla». Betori ha voluto ricordare anche la fondazione della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, iniziata proprio l’8 settembre: nella nascita di Maria, ha ricordato, «la città di Firenze ha voluto porre il germe dell’edificazione della sua cattedrale, quasi a porre in continuità il farsi del corpo di Maria con il farsi dell’edificio della sua lode al Signore, che nel programma teologico che racchiude piazza del Duomo è appunto pensato come il grembo della Chiesa/Maria che accoglie i credenti per inviarli nel mondo. Non dimentichiamo mai questo volto mariano della nostra fede e della nostra storia,a cui mi sento particolarmente legato da quando proprio in questo giorno, sette anni fa, fu annunciata la mia nomina ad arcivescovo di questa città».Il Cardinale ha anche osservato come le letture della liturgia raccontino la genealogia di Gesù: «Mentre dunque celebriamo la nascita di Maria la Chiesa già ci orienta verso la nascita del Figlio, il fiore che sboccia dal suo grembo. Mentre loda il Signore per la nascita di Maria, la Chiesa si preoccupa di far volgere il nostro sguardo sul suo Figlio». Il messaggio che viene da questa pagina di Vangelo quindi è che «La storia dell’uomo, ieri come oggi, non è estranea a Dio. È una storia, quella umana, che chiede anche a noi oggi lo stesso affidamento a Dio che Maria sperimentò lungo tutta la sua esistenza. Di fronte ai non pochi problemi che i nostri tempi propongono, nella vicende personali e sociali, chiedendoci di lasciarci coinvolgere fin nelle grandi trasformazioni epocali di cui profughi e migranti sono segno ed effetto, siamo chiamati a sentirci strumenti della misericordia e dell’accoglienza di Dio. Si tratta di non chiuderci in noi stessi e nei nostri egoismi, ma di aprirci al Dio che irrompe nella nostra vita con il volto dei fratelli: tutti fratelli, anche quelli che vengono da lontano, come Racab o come Rut. Non ci manchi la forza della carità e la fiducia in una missione che il Signore ci chiama a svolgere, ancora una volta in difesa della vita dei più fragili e poveri».