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Betori, arcivescovo Firenze: “L’inclusione non consiste nel cancellare ogni identità religiosa o culturale”
Il testo dell'omelia proclamata questo pomeriggio in Cattedrale dall'Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori nella Commemorazione di tutti i fedeli defunti
Gli amici vorrebbero convincere Giobbe che le sue disgrazie sono il giusto prezzo della sua empietà, ed egli si difende rivendicando di avere a sua difesa Dio stesso: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,25-27a). È questa, per Giobbe, una sicura speranza.
Una linea interpretativa assai diffusa dall’antichità ha colto in queste parole l’espressione della fede nella risurrezione al di là della morte. Ma contro questa interpretazione si pone il fatto che tutta la vicenda di Giobbe si muove nell’orizzonte della vita terrena e per giustificare le sofferenze del giusto rinvia all’inaccessibilità del mistero di Dio e all’incomprensibilità dei suoi disegni. Giobbe infatti conclude così il suo dialogo con Dio: «Ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. […] Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (Gb 42,3b-5-6).
Ma anche se l’agire di Dio come redentore a favore di Giobbe va visto non come dono di una vita oltre la morte, questi però, all’interno della sua sofferenza, può rivendicare la sua giustizia di fronte ai nemici grazie alla dichiarazione di innocenza che Dio non gli farà mancare. Emerge così come la spoliazione estrema dell’uomo, la sua morte, se vista in rapporto con il Creatore non appare priva di speranza, compiendosi nell’ottica dell’amicizia dell’uomo con Dio. La morte è in tal modo sottratta alla disperazione, e l’uomo è illuminato della certezza che nella morte non è solo. Egli ne attraversa l’oscurità avendo accanto a sé il suo redentore, Dio. Giobbe non ci offre ancora una chiara parola sulla vita oltre la morte, ma ci assicura che alla morte non si va incontro da soli, bensì in compagnia di un Dio che è nostro alleato anche in quest’ultima, decisiva prova della vita.
La parola di San Paolo, nella seconda lettura ci rivela il motivo per cui la morte non deve affliggere e intimorire il cristiano: come lui e prima di lui quella soglia è stata superata per noi dallo stesso Figlio di Dio fatto uomo. Attraversandola con la potenza del suo amore, cioè donando tutto sé stesso fino alla fine per noi empi e peccatori, Gesù ha tolto alla morte le armi e il potere, e ne ha fatto un passaggio verso la vera vita, verso cui egli si è incamminato come «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). La morte non ha più potere su di noi (cfr. Rm 6,9), perché «siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo» (Rm 5,10). La morte, per chi crede nel Cristo Risorto e conforma a lui la sua vita, non è un precipitare nelle tenebre, nel nulla, ma la soglia che introduce nella gloria e nella luce di Dio, nella compagnia del nostro Salvatore.
La perdita di questa certezza di fede è alla radice di preoccupanti orientamenti che si diffondono nella cultura odierna. Vale per quanti, rifiutando di pensare ai morti come anime che vivono nella gloria di Dio o sono in un cammino di purificazione per raggiungerla, ripropongono la figura del defunto, propria delle antiche religioni, come spirito umbratile non riconciliato con la terra, una visione di cui si nutrono fenomeni come lo spiritismo e i suoi addentellati di magia e superstizione, fino all’aberrazione del satanismo. Questa stessa tendenza si manifesta in forme che si vorrebbero giocose, ma che scalfiscono la serietà della morte, nella vacua festa degli spiriti, estranea peraltro alla nostra cultura mediterranea.
Su un versante diverso, per certi versi opposto, si collocano i tentativi per poter oscurare il problema della morte nella presunzione di poterne essere noi i padroni. Così si pensa che la morte possa essere inflitta agli altri a seconda di un giudizio di accettabilità della loro esistenza nel consesso umano. Padroni e giudici della vita, saremmo liberi di dare la morte a un feto o a un neonato la cui esistenza viene giudicata di non adeguata qualità; parimenti da sopprimere sarebbero quanti sono segnati dalla malattia mentale o gli anziani non più consapevoli di sé per qualche malattia degenerativa; in questa logica la risposta alla sofferenza non assume più la forma della cura della persona, ma si traduce nell’aiuto al suicidio. Ma quello che chiedono tanti malati, anche quelli terminali, e i loro familiari non è la morte anticipata, ma attenzione e assistenza. Una società capace di cura evita ogni logica di scarto, evita che un malato si senta solo un peso, e si impegna perché ogni persona sia sostenuta a vivere fino alla fine una vita dignitosa e i familiari non siano lasciati soli nel dolore, e nella disperazione di non poter accedere per i loro cari a cure e assistenza adeguate, a partire dalle cure palliative.
E, infine, c’è il tacere la morte, eliminarla dal nostro parlare, un falso espediente per eludere il problema del confronto con il limite. È un tacere che prende le forme di una cura del corpo diventata non custodia ma ossessione, in un vitalismo giovanilista senza freni. Ma è anche un tacere che si inserisce nello sforzo di una certa cultura di cambiare la realtà attraverso la trasformazione del linguaggio, una specie di preludio all’avvento della “non lingua” profetizzato da George Orwell, e che registriamo anche, in altro ambito, nel ridicolo tentativo di negare i fatti storici, come il Natale di Gesù, vittima della cancel culture. L’accoglienza e l’inclusione non consistono nel cancellare ogni identità religiosa o culturale, riducendo tutto e tutti a un magma indistinto, in cui nessuno riconosce sé stesso e gli altri. Si tratta di una deriva, un’imposizione spesso calata dall’alto e non condivisa dalla gente, neppure da chi dovrebbe essere il “beneficiario” del politicamente corretto. La convivenza, l’arricchimento di una società non nascono dall’annullamento delle identità, ma dal loro pacifico comporsi. E, su questo fronte della convivenza fraterna, occorre mettere in guardia contro i segnali di ritorno dell’antisemitismo.
Tornando al nostro tema della morte, pensare con serietà la morte costituisce oggi un dovere imperioso per i credenti e per la loro testimonianza. È una riflessione che è strettamente legata al ribadire che in questa storia e non fuori di essa è accaduto un fatto che ha ribaltato il potere della morte sull’uomo, liberandoci dall’angoscia esistenziale e dal timore per il nostro futuro. Un uomo, il Figlio di Dio fatto uomo, ha vinto la morte, è passato per le sue fauci, ma non ne è stato inghiottito; anzi con la sua croce egli ha fatto della morte un trofeo del suo trionfo. Un trionfo a cui egli – lo abbiamo ascoltato nel vangelo – promette di associare chiunque crede in lui: «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40). Affidiamoci a questa promessa e, nella preghiera, affidiamo a Cristo i nostri cari e tutti i defunti.
Giuseppe card. Betori