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Betlemme, 15 anni fa l’assedio della basilica della Natività

Il francescano padre Ibrahim Faltas ricorda i giorni dell'assedio della Basilica della Natività a Betlemme, nell'aprile 2002, che lo videro protagonista nelle difficili trattative con i 240 palestinesi in fuga dagli israeliani che si erano rifugiati nel convento. Ma il discorso si attualizza anche all'oggi, dalla condizione dei cristiani in terra Santa alla vicina Siria.

Oggi 2 aprile una giornata importante, riaffiorano i ricordi del 2 aprile 2002 quando ebbe inizio l’assedio della Basilica della Natività. Sono trascorsi quindici anni, ed è doveroso fare memoria di quanto è accaduto perché ha modificato il corso della storia a Betlemme, ma soprattutto la vita di tanta gente.

Nel 2002, durante la seconda intifada, la Basilica venne occupata per la prima volta nella storia, da 240 palestinesi in fuga, dall’esercito israeliano che era entrato nella città. Il numeroso gruppo era formato da diverse persone con situazioni diverse, giovani e anziani, che per 39 giorni sono rimasti asserragliati all’interno della Basilica. Ci furono morti e feriti, e le trattative per la liberazione dei palestinesi furono molto difficili, con momenti in cui si pensava che tutto si sarebbe risolto in fretta, ma le trattative internazionali furono più lunghe del previsto.

Noi frati francescani, custodi dei luoghi santi, mettemmo a primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo tutti i fuggitivi, ma contemporaneamente cercando di salvare il luogo che ricorda la nascita di Gesù.

Vivemmo momenti di grande disperazione, dove ormai si pensava ad un epilogo cruento, ad una vera battaglia tra palestinesi che erano all’interno della Basilica e israeliani che si trovavano all’esterno, la tensione era molto alta e tutti avemmo paura di non uscirne vivi. Fu allora che con mia grande sorpresa, ricevetti la provvidenziale telefonata  da San Giovanni Paolo II, che in quel momento con le sue parole d’incoraggiamento ad non avere paura, ma di continuare a resistere, di avere fiducia e confidare nella speranza di una soluzione, che avrebbe cambiato radicalmente la situazione di quei giorni, in cui la tensione era molto alta e tutti eravamo disperati, avevamo perso la fiducia in una soluzione pacifica.

E così fu! La Basilica venne liberata e gli accordi internazionali trovarono una soluzione per porre fine  all’assedio.

Sicuramente questa vicinanza di Giovanni Paolo II, ha intensificato in me la consapevolezza che il continuo dialogo era l’unico mezzo importante per rimanere vivi e poter oggi raccontare questa esperienza che ha toccato la vita di tutti noi.     

Terminato l’Assedio della Basilica della Natività, pensavamo di pregustare quel senso di libertà e soprattutto di poter ritornare alle nostre attività della vita quotidiana. Ma non fu così. Trovammo la città di Betlemme chiusa da un muro di separazione, da Gerusalemme e con il resto d’Israele. Un vero confine, difficilmente valicabile. La città era una prigione a cielo aperto! La popolazione di Betlemme era molto impaurita e confusa di tutta questa nuova situazione che si trovava a vivere, e non importa se cristiani o musulmani, se anziani o bambini.  Sebbene impietrito da questa realtà, ero determinato a coltivare e investire in relazioni sane e vitali con gli abitanti della città, convinto che le virtù della riconciliazione, dell’amore, dell’altruismo e dell’accettazione dell’altro fossero i semi essenziali di una coesistenza pacifica. Pensai che innanzitutto era per noi  tutti  un dovere primario aiutare i bambini a ritrovare la serenità infranta, a sostenerli nella loro crescita educativa, per abbattere il rischio che dentro il cuore di ogni bambino s’innalzasse un muro che ostacoli ogni gesto e slancio d’amore e di pace.

Questo mio pensiero si rafforzò, quando un ragazzino della mia scuola, un giorno fece un disegno, nel quale secondo lui il muro è «un serpente attorno alla nostra libertà». Per esprimere al meglio il proprio pensiero, questo bambino ha espresso l’ingenuità dei suoi sentimenti in un’immagine molto eloquente che solo i bambini, con la loro innocenza  possono descrivere così violentemente, un’immagine più chiara di migliaia di parole.

Questo disegno mi fece riflettere molto, poiché ripensando ai 39 giorni dell’Assedio, e con le nuove restrizioni che la gente viveva diventava urgente ed importante non creare un muro nella mente e nel cuore delle persone. Alla luce di ciò la mia missione era quella di far conoscer al mondo la situazione di Betlemme e dei cristiani, approfondire attraverso la conoscenza e il dialogo tutte le tematiche che potessero aiutarci a trovare una soluzione pacifica, sensibilizzando l’opinione pubblica e lasciandoci aiutare, da soli non potevamo farcela!

Presi la decisione di aderire ad alcuni inviti che avevo ricevuto dall’Italia, per parlare delle ultime vicende e iniziò il mio «pellegrinaggio» tra conferenze, dibattiti e manifestazioni, in particolare in Italia, dove ho sempre ricevuto una accoglienza calorosa e dove sono sbocciate tante amicizie, ma anche tanta solidarietà che si è concretizzata attraverso parecchi progetti.   

Sono stati quindici anni intensi, di duro lavoro, dove attraverso numerose attività rivolte ai bambini e ai giovani, abbiamo cercato di ristabilire una «normalità», nella vita di tutti i giorni, ma soprattutto un rispetto nella dignità di ogni singolo uomo, cercando di arginare l’emigrazione di molti cristiani alla quale, molte volte assistiamo inermi, nella consapevolezza che loro sono le pietre vive che riscaldano la vita dei luoghi santi.

Ma questi ultimi anni, hanno visto un crollo dell’economia Palestinese, causata prevalentemente dalla mancanza dei pellegrini. Molta gente di Betlemme, vive solo di questo. E purtroppo tutta la situazione politica dei paesi circostanti si riflette inevitabilmente sulla nostra economia. 

Dal mio osservatorio privilegiato della città della Pace, Gerusalemme, ricordare oggi questo anniversario ha un’importanza particolare nel contesto del conflitto medio orientale, ma soprattutto dopo la primavera araba, che ha portato  un radicale cambiamento nei paesi arabi che ci circondano. Forse oggi è da rileggere come l’apertura ad un periodo che si apre a cambiamenti, facendo intravedere prospettive nuove anche per la minoranza cristiana che vuole essere, più che mai partecipe e attiva di quel processo di sviluppo dei paesi arabi di cui ne fa pienamente parte.

Ma è sconfortante assistere a ciò che accade nei paesi confinanti come la Siria, dove anche noi frati francescani siamo presenti, dove migliaia di persone che fuggono dalla violenza della guerra,  facendoci quasi dimenticare che dietro ad ogni uomo, ad ogni donna, ogni bambino c’è una storia di vita, un sogno di continuare a vivere nel diritto di ogni singolo uomo, nella rispetto della dignità di ciascuno. Migliaia e migliaia di siriani, iracheni, curdi, afghani, palestinesi, fuggono dalle loro terre devastate dall’invasione dell’Isis, che ha trovato grandi spazi e possibilità’ di confermarsi nella loro cruenta violenza, durante gli anni precedenti, quando si inneggiava alla benvenuta Primavera Araba, che purtroppo ha portato  solo a questa situazione incontrollabile e ingestibile. La calda estate del 2014, della guerra a Gaza, ha lasciato gravi conseguenze al paese, poiché ha messo in ginocchio l’economia palestinese, in particolare per la comunità cristiana,  a causa della mancanza di turisti, e dei pellegrini, che hanno paura a venire in Terra Santa.

È in questo contesto storico di questi ultimi anni, a Betlemme, abbiamo accolto la visita di numerosi capi di stato, di delegazioni internazionali, di due grandi pontefici Benedetto XVI e Papa Francesco, che con la loro visita hanno cercato di riaccendere la luce della speranza di un futuro migliore a tanta gente, ma purtroppo, non abbiamo assistito a grandi cambiamenti. Le trattative sono ferme ormai da tempo! Mi piace pensare a tutte queste persone che sono venute in pellegrinaggio a Betlemme, come gli angeli, che sono stati riportati alla luce dai restauri della Basilica della Natività, riconosciuta come Patrimonio dell’umanità.

Gli angeli raffigurati nel mosaico si recano in processione, verso il luogo della grotta dove è nato Gesù. Quando pensiamo a Betlemme, il mondo dovrebbe ricordare a questo piccolo luogo, come il punto d’inizio di tutta la cristianità.

Oggi Betlemme, capitale della Cristianità, a distanza di quindici anni è ancora separata da Gerusalemme, la città Santa, la città della Pace. Se la situazione dovesse continuare a peggiorare fra vent’anni le chiese diventeranno musei e i cristiani avranno totalmente abbandonato le città: proprio Gerusalemme e Betlemme, le città-sorelle, che non dovrebbero vivere l’abbandono dei propri cittadini cristiani

L’impegno di tutti noi, e della comunità internazionale, di lavorare  affinché vengano rispettati i  principi etici, morali, religiosi di ogni uomo, per ristabilire tra israeliani e palestinesi,  una coesistenza e una convivenza pacifica, costruita su i saldi pilastri della  giustizia e del  perdono, di educare la nuova  generazione, al dialogo e al rispetto per poter  aprire un’era nuova di rinascita storica, culturale è di pace ricordando che «La pace non è un fungo, non cresce da sola, la pace si costruisce con lo spirito di pace, con le idee di pace, con le opere di pace. Dobbiamo rendere impossibile la guerra, dobbiamo aiutare la pace. È compito di tutti».

San Giovanni Paolo II ha lasciato a tutti noi una frase che racchiude tutto ciò che stiamo vivendo: «Se ci sarà pace a Gerusalemme, ci sarà pace in tutto il mondo». Io sono frate francescano e non posso che ricordare a tutti gli insegnamenti di San Francesco «La pace che voi predicate abbiatela prima nel cuore».

* ofm, Vice-Presidente della Fondazione Giovanni Paolo II e membro del Discretorio della Custodia della Terra Santa

L’assedio della Natività (Dal Diario di Fr. Ibrahim Faltas)

2 aprile 2002

A Betlemme non era una novità: si sparava, i carri armati israeliani erano entrati e i palestinesi non erano restati con le mani in mano a farsi catturare. Qui, a parte  Cristo a cui ho dedicato la mia missione, sono sempre stati pochi quelli abituati a offrire l’altra guancia. La giornata è cominciata presto, più o meno alle due del mattino. Nove palestinesi armati, gente che non conoscevo,  erano penetrati nella basilica entrando dalla porta posteriore dei greci-ortodossi. Ero con il parroco, padre Amjad, e con il guardiano padre Joannes, quando li ho visti nella sala parrocchiale. Gli ho detto: cosa fate qui? Dovete andarvene. E  loro, senza bisogno di insistere, hanno accettato. Li ho accompagnati fin sulla piazza della Mangiatoia e se ne sono andati. Non li ho mai più incontrati.

Ma a mezzogiorno è squillato il telefonino. Era Mark Innaro della Rai, un amico. Ed era rimasto bloccato con gli altri giornalisti. Gli israeliani non li facevano andare né avanti né indietro. Volevano entrare da noi. Ho preso le chiavi e sono sceso ad aspettarli sul portone di Santa Caterina. Si sentivano tante esplosioni. I giornalisti mi hanno fatto un’intervista; poi, in attesa che la situazione gli permettesse di uscire, ho aperto per loro il nostro ostello Casanova  mettendo a disposizione il mio ufficio per farli lavorare. Abbiamo mangiato assieme. Loro sono rimasti nel chiostro e io sono andato a dormire.

Mi ero appena addormentato quando è arrivato il parroco padre Amjad tutto agitato. Mi ha detto: guarda che sono entrati i palestinesi, sono tanti e sono armati. Cosa facciamo con loro?

Allora sono sceso. Erano veramente tanti, un centinaio, qualcuno giovanissimo. Avevano forzato la porta del chiostro di Santa Caterina che era chiusa. Era chiaro che non sarebbero stati disposti a uscire. C’erano bombardamenti, si sparava. Farli andare via sarebbe stato come mandarli a morire. Erano nervosi, ci siamo messi a parlare e si sono calmati. Mi sono fatto promettere che non avrebbero usato le armi. Qui mai nessuno deve sparare, da dentro e da fuori la Natività.

Per fortuna quel giorno non è accaduto. I giornalisti, che non sanno stare buoni neppure nei momenti difficili, li volevano intervistare. Poi ci hanno ripensato. Ma i palestinesi avevano accettato. Sembravano tranquillizzati. Nessuno di noi ha avuto la sensazione di essere loro ostaggio. Pensavano soprattutto ai feriti che si erano portati dietro, una decina. Ce n’era uno, Jihad, che stava molto male, aveva i piedi  maciullati dai colpi. Suor Lisetta gli si è messa accanto lei è infermiera, e ha subito fatto la sua diagnosi: doveva essere operato.

Io parlavo con Abdul Kassem Dauod. Lo conoscevo bene, era il capo della polizia segreta qui a Betlemme. Gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa. Ma lui voleva essere trattato come tutti gli altri, voleva restare con gli altri.

Cosa dobbiamo fare, mi chiedevo? Dovevamo prendere una decisione con i responsabili delle altre comunità religiose della basilica. Così, alle nove di sera, con padre Johannes, il guardiano di Santa Caterina, ci siamo riuniti nel salone dei greci-ortodossi. Una volta tanto, eravamo tutti d’accordo: insieme a ortodossi e armeni abbiamo deciso di lasciare i palestinesi  dormire, per quella notte, nella basilica.

Però bisognava fare qualcosa perché fuori si venisse a sapere cosa stava succedendo da noi. Allora ho chiamato i miei superiori, il padre custode di Terra Santa e il delegato apostolico.

Proprio quella mattina, con padre Amjad avevamo preparato  molto cibo da distribuire alla gente di Betlemme perché si sapeva che l’esercito israeliano stava entrando. In previsione di tempi duri, dal venerdì santo avevamo acquistato una discreta quantità di alimentari per dare conforto a chi sarebbe rimasto chiuso in casa. Quei viveri li abbiamo consegnati ai palestinesi e io ho dato loro pure una cinquantina di coperte perché faceva freddo quella notte.

Era molto tardi quando sono andato a letto. Mi addolorava questa situazione: la basilica violata con le armi. A rincuorarmi c’era il pensiero di non aver sbagliato. Io, ancor prima di essere un prete, sono un cristiano, ho il dovere di ospitare chi ha bisogno di rifugio, chi ha fame. Anche San Francesco accolse i ladroni che chiedevano rifugio e cibo,

Pensavo: questa storia non sarà lunga, un giorno, due, massimo tre. Avevo paura più per quello che accadeva fuori dalle nostre mura, a Betlemme. E ero contento della presenza di giornalisti. A volte sono fastidiosi, ma in quella occasione ci potevano essere di aiuto; avrebbero potuto raccontare momento per momento l’evolversi della situazione.

Io dirigo l’istituto « terra Santa « di Betlemme. Quel giorno doveva riprendere la scuola dopo le vacanze pasquali. Ma i miei 1000 studenti e erano rimasti a casa, come tutti a Betlemme, dove infuriava la battaglia. Peccato perdere giorni di lezione, oltretutto sotto esami.

Certo, la mia stanza e proprio inadatta a sopportare un assedio militare. Sto su un angolo, e due pareti su quattro sono vetrate. Con me le altre celle dei frati e di pochi metri e io sono piuttosto voluminoso.

Mi sono addormentato con difficoltà, per le esplosioni.

E ho pregato: nelle tue mani e la mia vita, o Dio. Anche il mio corpo riporta al sicuro.