Opinioni & Commenti
Berlino e Roma, la doppia finale del calcio italiano
Cominciamo idealmente da Berlino. Citarsi addosso è deplorevole, anzi è assolutamente antigienico, sostengono in casa mia, però la vanità è così tanta, e la nostalgia ancora di più, che nel parlare, discorrere, magari discutere, ma non disquisire da eccelse cattedre su questi campionati del mondo, il cronista in oggetto ha spesso ripensato a Spagna ’82, quando la nazionale di Bearzot stentò nelle partite di Vigo in Galizia, ma al contrario di altre squadre non soffrì il caldo, poi scese a Barcellona, prima al Sarria, stadio che non esiste più, poi al Nou Camp, che ora chiamano Camp Nou, in attesa del balzo fantastico al Santiago Bernabeu di Madrid. Al cronista di cui sopra è tornato in mente quel periodo anche per alcune affinità con il presente, sempre in chiave azzurra s’intende, ma felicemente superate: i bronci, le impuntature, i permali, la commediola degli equivoci, fino all’ipotesi di un silenzio stampa che in Germania invece non c’è stato, ma forse non era molto lontano, a giudicare da certe parole non esattamente indecifrabili di pochi giorni fa.
Ripensare a Spagna ’82 equivaleva istintivamente a costruirsi a poco a poco un animo vincente, e difatti ricordiamo la visita lampo di Giovanni Spadolini nel ritiro azzurro nei pressi di Barcellona e quella, storica, di Pertini a Madrid in occasione della finale. Questa volta ha prevalso, come linea costante, il biondo e il diafano di Giovanna Melandri, ministro dello sport dal passo sportivo e suadente.