Cultura & Società
Beni culturali tra restauri ed esigenze liturgiche
La tutela non va però limitata alla definizione di vincoli, ma deve portare a azioni concrete; più che ripartire tra enti le competenze è necessario sviluppare politiche e interventi organici sul territorio, che portino a una «salvaguardia integrata». Le Diocesi possono cooperare attraverso gli Uffici beni culturali, che pur nei loro limiti oggettivi (di personale e finanziamenti), sono chiamati a esercitare un’azione di raccordo e indirizzo, ma anche a migliorare la conoscenza del patrimonio culturale degli enti ecclesiastici (studio dei documenti, iconografia, progetti di catalogazione), e quando possibile a concorrere alla formazione di operatori, interni e esterni, affidabili e competenti.
Oltre alla normativa recente (modifica del Concordato Lateranense; Dpr 26.9.96 n. 571), anche le direttive Cei (14 giugno 1974, 9 dicembre 1992, 31 maggio 1996) vanno nella direzione di questa collaborazione con le istituzioni civili e con le realtà associative, enti e privati che operano nella società italiana. Non sono inoltre mancati richiami a un ruolo più attivo dei cittadini, oltre che da parte dello Stato, dalla Chiesa (Gaudium et spes, 75b), di fronte all’impossibilità di soddisfare tutte le esigenze legate a conservazione, tutela e fruizione del vastissimo patrimonio storico artistico ecclesiastico (per sponsorizzazioni di privati o imprese, però, la defiscalizzazione ha progressivamente perduto buona parte dei suoi vantaggi).
Gli edifici sacri sono luoghi di culto, espressione di una comunità di credenti, ma anche «strumenti della memoria», e segno di una cultura ancora comprensibile a tutti. Questi aspetti benché non analizzati nel convegno di Artimino sono stati però importanti per guidare e indirizzare restauri e adeguamenti.
Alcuni di questi interventi, attuati nell’ultimo decennio, saranno presentati nel convegno da don Renzo Fantappiè (tra gli altri quelli di Duomo, Badia di Vaiano, Musei Diocesani, San Domenico, Iolo, San’Ippolito), che evidenzierà i principali problemi e alcune soluzioni adottate.
Un’attenta, costante manutenzione degli edifici sacri (suggerita anche dalle norme Cei del 1974 e 1992) potrebbe ritardare di molto i veri e propri restauri, in genere traumatici e dispendiosi; risulta però sempre più difficile da effettuare. In caso di situazioni più gravi i necessari restauri non dovrebbero essere guidati da puri motivi di estetica, stile o gusto, ma puntare invece sul minimo impatto e sulla compatibilità con le preesistenze. Perciò, soprattutto negli interventi più decisi su strutture antiche, fortemente caratterizzate, ogni scelta dovrà essere frutto di mediazione; parametri e obiettivi dovranno essere ridefiniti in corso d’opera e a volte ridimensionati, adottando soluzioni meno invasive possibile, che non impediscano interventi futuri.
Anche il consolidamento statico, l’adeguamento e messa a norma di impianti (elettrico, di riscaldamento, di sicurezza) presentano alcune difficoltà in strutture antiche, per le quali vanno perseguiti obiettivi congrui, anche se non ottimali.
Tra gli esempi pratesi, in certi casi sono state adottate tecniche non tradizionali, ma già sperimentate, nella soluzione di problemi particolari, come l’uso delle fibre di carbonio per la volta della Cappella del Santissimo Sacramento in Cattedrale, nel trecentesco campanile di San Domenico e nel rafforzamento delle travi lignee sul secondo ordine del chiostro, nello stesso convento.
Alcune ditte che hanno collaborato al convegno presenteranno relazioni tecniche, basate su sopralluoghi effettuati in aree della Diocesi nelle quali è previsto - e in alcuni casi già avviato un intervento di restauro, in modo da suggerire possibili soluzioni a problemi specifici: per il complesso di Pizzidimonte (a completamento di un articolato intervento di ristrutturazione e restauro) la pavimentazione, l’impianto di illuminazione e le finiture nella chiesa; per la splendida Badia di Montepiano un’ipotesi di restauro delle superfici lapidee, interessate da un rapido, generale degrado (non solo nelle notevoli parti scultoree del portale). Per il complesso di Sant’Agostino a Prato saranno suggerite soluzioni per il ripristino delle antiche coperture a coppi e embrici, mentre un primo studio sugli intonaci dell’ex refettorio di San Domenico a Prato (passato al Comune dopo il 1866, a lungo utilizzato come palestra e attualmente tornato alla Diocesi) fornirà indicazioni per un possibile recupero dell’importante spazio di origine trecentesca, che potrebbe ritrovare la sua originaria connessione col complesso conventuale e divenire sede di un nuovo Museo di Arte sacra che raccolga importanti donazioni di argenti e suppellettile sacra dal XIII al XIX secolo.
Così, quando si celebra la gioia e la forza della fede, «tutto» l’uomo partecipa: per quello che è e con quello che ha. Nello stesso tempo, la fede è una «missione», e quindi si presenta a Dio con il suo corredo di un’umanità che manda e che attende. L’importante e cogliere la sensibilità dei tempi, saperli discernere. Gesù l’aveva detto: fate attenzione «ai segni dei tempi» (Mt.16,3). È questo il compito permanente della Chiesa che, nel tempo e nei tempi, annuncia il suo Signore.
Non potendo, anche brevemente, fare un’«excursus» storico, veniamo all’epoca moderna, la nostra, dove le coordinate temporali, in cui l’uomo vive e si riconosce, sono state «sconvolte». In negativo e in positivo.
Sinteticamente, si può dire che il secolo XX è il risultato radicale di un paradosso di segno umanistico: l’uomo si disgrega, nella gloria-ricatto delle scienze (filosofiche e quantistiche) e, nello stesso tempo, si ri-compatta nel progresso delle dinamiche sociali, soprattutto dopo le catastrofi delle ideologie a-tee e dis-umane. In questo scenario, assolutamente rivoluzionato, la Chiesa ha sentito la chiamata di una nuova Pentecoste e si è ritrovata nel Concilio Vaticano II (1962-65). Ne è uscita una Chiesa rifatta, nella «figura», sia interna che nell’aspetto visibile, e nel suo compito pastorale. Completamente. A cominciare dalla Liturgia. Ed è sulla liturgia il primo documento ufficiale: Sacrosanctum Concilium.
Così, di fronte a un inarrestabile «fai da te» nel campo liturgico: canzoni, canzonette, estrosità linguistiche e gestuali e, soprattutto, elementi e strutture d’accatto, se non addirittura vandalismi, negli spazi liturgici delle celebrazioni, la Chiesa ha risposto con note, richiami e documenti. Ci sono i documenti e devono diventare, giustamente, «normativi», benché tuttora ci sia una persistenza di gestioni anarchiche e/o autocefale nelle diocesi.
Di necessario rilievo sono i convegni rivolti agli operatori nei vari campi dell’azione liturgica. Nel caso dell’adeguamento degli spazi per la nuova liturgia, i referenti sono: in primis i vescovi e la nuova «committenza» (sacerdoti, uffici diocesani, ecc…) e poi i professionisti dei segni e delle strutture: architetti, artisti, artigiani e «dintorni».
Ma, soprattutto, l’anima di ogni pensiero e di ogni progetto liturgico è la coscienza che si celebra sempre! un «atto di fede» totale e finale. Il Cristo Lui stesso Trinità incarnata è «hic et nunc» la salvezza. Basta. Quanto poi alla ricaduta e all’influenza su tutto il linguaggio espressivo (letterario, figurativo e musicale), basterebbe ricordare quanto dicevano e scrivevano i primi cristiani, proprio per vivere nella «leggerezza» (simbolica e minimale) l’evento-Cristo che è «Colui che non ha luogo-sito» (chiesa di san Salvatore Chora, Istambul).