Cultura & Società

Beni culturali ecclesiastici. Paolucci: Il segreto della tutela è l’amore della gente

di Lorella Pellis

Sarà uno dei big al convegno di Livorno sulla salvaguardia dei beni culturali ecclesiastici. Ad Antonio Paolucci, direttore dei Musei vaticani e presidente di «Memoria ecclesiae», il compito della prolusione ai lavori.

Professor Paolucci, data la dimensione del patrimonio artistico della Toscana è facile immaginare quale sia anche l’incidenza dei beni culturali ecclesiastici all’interno della regione. Una realtà di cui forse è anche difficile rendersi conto, perché ci sono ovviamente le opere d’arte ma anche documenti storici di grande valore…

«Tutti sappiamo che la realtà del patrimonio culturale a destinazione ecclesiastica, i beni cioè che genericamente intendiamo come opere di arte sacra o comunque di interesse, di storia, di competenza e di destinazione religiose, sono un numero sterminato in tutta Italia. Da Bressanone a Lampedusa non c’è centro abitato che non conservi qualcosa della sua storia religiosa. In Toscana questo è più diffuso che altrove perché la Toscana è sempre stata considerata e continua a essere considerata la vetrina dell’artisticità italiana. E tuttavia, sembra strano dirlo, ma anche in Toscana questo patrimonio è in gran parte incognito e in grandissima parte non valorizzato, non conosciuto come meriterebbe. Questo è il problema. Di questo e di altri argomenti che attengono questo specifico problema si parlerà lunedì prossimo al convegno di Livorno».

Tutela e salvaguardia sono senza dubbio l’obiettivo primario, visti anche i tanti furti che hanno interessato finora le nostre chiese. Ma preservare un’opera mettendola in cassaforte significa in pratica snaturarla. I musei diocesani sono una risposta sufficiente a questa esigenza?

«La caratteristica distintiva delle opere d’arte a connotazione sacra, quelle che abitano le nostre chiese, cappelle e santuari, è che hanno un carattere squisitamente identitario cioè sono parte della comunità, del popolo che le ha volute. La cosa più importante in assoluto per la salvaguardia di questi beni è il riconoscimento da parte della popolazione, della comunità che ne è moralmente proprietaria. Si mantiene nella storia quello che si conosce, meglio ancora quello che si ama, quello che lo si riconosce come identitario, come espressione della propria storia e cultura. Per fortuna vi sono ancora tante chiese in Toscana, come in tutta Italia, dove la gente è orgogliosa di Simone Martini o del Pontormo. Penso a Carmignano, per dirne una, dove il Pontormo sta lì da secoli. Quelle cose si salveranno proprio perché la gente le considera sue. Sono beni che hanno un padrone. Questo è lo strumento fondamentale della tutela. Quello che si dimentica è inevitabilmente destinato a deperire, a essere dimenticato e quindi a perdersi. Per cui o il museo diocesano ha una relazione concreta, efficace, vissuta, con la popolazione, con la comunità ecclesiale che lo ha voluto, e allora funziona anche come luogo della tutela, altrimenti diventa una specie di freezer, qualcosa dove queste opere stanno lì, nessuno le conosce più, nessuno è interessato alla loro sopravvivenza, vengono dimenticate e la conseguenza dell’oblìo è la dispersione, è la fine. Questo secondo me è il vero problema».

Quali possibilità ci sono, viceversa, di mantenere il patrimonio artistico-religioso il più possibile diffuso sul territorio, nei luoghi per i quali è stato pensato, ovviamente garantendo la necessaria sicurezza?

«Se io avessi un’idea materialistica e banale della tutela direi che ci vogliono più soldi e investimenti. No, non è così. Ci vuole un’educazione da parte dei preti, da parte dei vescovi, da parte della scuola verso la popolazione perché capisca l’importanza di questi beni e se ne faccia carico, ne sia orgogliosa. Questo è il vero investimento. Con i soldi si fanno solo pasticci e devastazioni».

Come giudica l’attuale politica di tutela e promozione del patrimonio storico-artistico-religioso sia a livello nazionale che regionale?

«La giudico assolutamente inadeguata. Se la gente stessa non sa più riconoscere, vedendola in un quadro attaccato in una chiesa, una Trasfigurazione da un’Ascensione, da una Resurrezione, cosa vuole che ne sappiano i ministri e i sottosegretari? Torniamo sempre lì. Questo è il mio pallino fisso. Cioè la consapevolezza colta della gente, l’orgoglio del possesso, la conoscenza della storia. Lavoro improbo, immane, che impegna generazioni ma che non si risolve con la bacchetta magica della politica. I politici hanno altro da pensare, ai loro interessi primari prima di tutto e poi, forse, al resto. Quindi o la cosa nasce dalle comunità, oppure sono estremamente pessimista. Ma sono ottimista invece per quanto riguarda la gente. Questa è la linea da perseguire».

Lei dice che non servono più investimenti. Ma non pensa che tempi di vacche magre come questi finiscano per incidere negativamente su quell’intervento pubblico adeguato, anche sul piano promozionale, che sembra auspicare anche il prossimo convegno di Livorno?

«Dirò una cosa paradossale, scandalosa. Io faccio l’elogio della miseria. Le opere d’arte si sono conservate perché la gente era povera, hanno cominciato ad essere rovinate, perdute, rubate da quando gli italiani sono diventati abbastanza ricchi. Quindi non preoccupiamoci dei tagli. Preoccupiamoci che non ci siano tagli nella testa della gente, nella cultura, nella sensibilità delle donne e degli uomini. Questo è importante».

Quindi, secondo lei, non è neppure necessario ipotizzare un più vasto coinvolgimento di sponsor privati…

«Lasciamo stare gli sponsor privati. Qui siamo sempre a parlare di quattrini, di soldi. Vada nell’oratorio della Misericordia a San Casciano Val di Pesa. Si fermi davanti alla Croce dipinta da Simone Martini e poi se ne riparla. Anche senza sponsor».

Qual è a suo giudizio, dunque, il compito della Chiesa in questo campo?

«Il compito della Chiesa è di essere un po’ più colta, che i preti sappiano un po’ più di queste cose, che usino le opere d’arte antiche per fare della catechesi intelligente. Questo si dovrebbe chiedere alla Chiesa».

IL CONVEGNO

La salvaguardia dei beni culturali ecclesiastici e la promozione del patrimonio storico-religioso in Toscana è il tema del convegno dal titolo «Conoscere per conservare. Conservare per conoscere» – organizzato dalla Conferenza episcopale toscana e da «Memoria ecclesiae» – in programma a Livorno lunedì 31 maggio. I lavori si svolgono a partire dalle ore 9 nel Palazzo vescovile Girolamo Gavi (sala Benedetto Fagioli).

Dopo il saluto di mons. Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, presidente della Cet, sarà la volta della prolusione di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e presidente di «Memoria ecclesiae». Seguiranno i saluti delle autorità. Al convegno parteciperanno esponenti di rilievo del mondo culturale, politico ed ecclesiale.

La prima sessione dei lavori verterà sui temi del «Patrimonio culturale religioso toscano» e sulle «Normative nazionali e toscane per la salvaguardia, la tutela, la conservazione e la promozione del patrimonio storico-artistico di proprietà ecclesiastica: qualità e limiti».

La seconda sessione verterà su 3 momenti: «Quale politica nazionale e regionale per la salvaguardia e la promozione del patrimonio religioso in Italia e in Toscana?»; «La costituzione della Commissione regionale per i beni culturali»; «L’inaugurazione del lavoro delle commissioni».

Le conclusioni del convegno saranno affidate a mons. Simone Giusti, vescovo di Livorno e presidente della commissione Cet per i beni culturali.

Il vescovo Simone Giusti,  serve un nuovo impulso all’impegno per la conservazione

Conoscere per conservare. Conservare per conoscere» non è un titolo scelto a caso quello del convegno in programma il 31 maggio a Livorno organizzato dalla Diocesi e dalla Cet in collaborazione con «Memoria Ecclesiae»: «Conoscere e conservare infatti – sottolinea monsignor Simone Giusti, vescovo della diocesi labronica – sono due termini profondamente concatenati tra loro: la maggior parte del patrimonio storico artistico toscano e italiano è di origine religiosa, spesso di proprietà di diocesi povere o di singole parrocchie non in grado di approntare restauri, né di provvedere alla conservazione delle opere, per questo è fondamentale che le Istituzioni sostengano la conservazione e la promozione dei beni culturali ecclesiali».

A questo proposito monsignor Giusti, che è Presidente della commissione per i beni culturali della Conferenza episcopale toscana, ha invitato al convegno relatori e ospiti d’eccezione, esperti d’arte e rappresentanti del Governo e della Regione, che offriranno alcune valutazioni sui beni toscani, proponendo nuovi accordi tra enti pubblici e diocesi, possibilità di finanziamenti economici, facilitazioni fiscali nelle opere di restauro e costituzione di commissioni di studio per migliorare lo stato di conservazione del patrimonio artistico ecclesiale, potenziandone così la fruibilità.

Tra le idee che saranno protagoniste del convegno ci sarà la costituzione di Commissioni paritetiche tra Diocesi toscane, Comuni e Regione per l’istituzione di un comitato unitario di indirizzo regionale, perché le scelte di conservazione e promozione siano concordate e possano concretizzarsi più velocemente.

Fra i tanti compiti delle suddette Commissioni, sicuramente più urgente sarà quello di predisporre una prima «carta dei rischi» per catalogare e programmare una serie di interventi di restauro e conservazione specifici del patrimonio artistico a disposizione, con una scadenza triennale, dando la precedenza ai beni maggiormente in cattivo stato, stabilendo competenze e non sprecando così finanziamenti preziosi.

«Non possiamo permettere – continua il vescovo di Livorno – che tante opere d’arte di bellezza inestimabile, testimonianze di grandi artisti che danno lustro alla nostra regione e al nostro paese, restino nascoste al pubblico perché non siamo in grado di proteggerle o di restaurarle per esporle, ma questo sarà possibile solo grazie alla concertazione tra enti pubblici e diocesi.

Spero che il convegno di Livorno possa portare alla luce queste problematiche e dare un nuovo impulso all’impegno per la conservazione, perché questo significherebbe incrementare la conoscenza del nostro territorio e della nostra storia».

Chiara Domenici