Vita Chiesa
Benedire le famiglie, il racconto di un parroco
Per un parroco la concentrazione pastorale verso la Benedizione alle famiglie inizia appena dopo le festività natalizie per avviarsi poi, come tradizione, in Quaresima.
La mia parrocchia, in diocesi di Firenze, è territorialmente molto estesa, soprattutto formata da nuclei abitativi sparsi, non raggruppati come in città, spesso confusi fra le tante fabbriche della zona industriale di Scandicci; quasi duemila famiglie che si visitano ogni 2 anni (quindi circa mille all’anno)! Si prepara un calendario preciso (giorni di passaggio e numeri civici toccati in quella giornata) che, grazie a diversi volontari, viene distribuito casa per casa pochi giorni prima del Mercoledì delle Ceneri, giorno in cui comincia il giro delle Benedizioni che si protrae fino a ridosso della Settimana Santa. Dal lunedì al venerdì, nel pomeriggio, il sottoscritto cammina in talare, cotta e stola per le vie della parrocchia (con l’aiuto prezioso di don Tarcisio Faoro, salesiano).
Proprio da quest’anno, su proposta del Consiglio Pastorale parrocchiale, è stata reintrodotta la bella consuetudine di farci accompagnare dai bambini/ragazzi dalla 5ª elementare in sù. Per loro è un’esperienza nuova e quasi avventurosa: cercare i numeri civici fra le fabbriche è a volte arduo per cui sembra una caccia al tesoro; visitare le diverse abitazioni diventa per loro scoprire quanto siano grandi o piccole, se c’è un cane o qualche gatto da «affrontare» prima di entrare; impegnarsi nell’essere educati entrando in casa; resistere o cedere alle tante occasioni di dolci, caramelle, cioccolatini, biscotti che subito la gente offre loro vedendoli con me (il parroco invece, come le forze dell’ordine, non accetta nulla «in servizio»!).
Ma la situazione, diciamo più simpatica è quando, percorrendo a piedi le strade, gli automobilisti o i passanti vedono il parroco con talare, cotta e stola con accanto uno o due ragazzi anche loro con la tunicella; i sorrisi e i saluti gioiosi si susseguono continuamente. Sembra un tornare indietro nel tempo quando decenni fa incrociavano la stessa situazione. Tutto questo è davvero bello e importante. La gente, anche se lontana dalla fede, comprende che un sacerdote porta loro la benedizione di Dio e vederselo arrivare in compagnia crea molta più familiarità e accoglienza.
Visitare le famiglie in Quaresima è certamente anche faticoso perché in questo particolare periodo liturgico già si moltiplicano gli impegni pastorali, formativi e spirituali però credo fortemente che sia una pratica da non interrompere. Mi dà l’occasione di conoscere famiglie e persone nuove, di parlare con chi vedo raramente, di constatare la realtà di vita delle persone stesse, di spendere due parole in più per informarmi sulla vita personale, lavorativa, sociale dei parrocchiani La crisi economica morde fortemente anche in queste zone e leggo tanta preoccupazione e forti angosce, sui volti che incontro. Poi, molti anziani soli che avrebbero bisogno di assistenza o di compagnia anche solo per trascorrere la notte; anziani soli perché anche dimenticati dai figli per cui solitudine che si somma a sofferenza affettiva e fisica. Oppure malattie invalidanti e qui il parroco ascolta e porge una parola di conforto e la benedizione. In genere la gente mi aspetta volentieri; alcune famiglie mi accolgono come una volta: con un piccolo lume acceso sulla tavola di cucina, con dei fiori accanto e con la casa che profuma di primavera. Rientro a casa arricchito, certamente stanco, ma ho tessuto legami più stretti con chi ho incontrato.
Non sempre è così bello, però: le famiglie straniere non cristiane ovviamente non aprono. Ciò che mi ferisce è quando qualcuno mi risponde che non vuole la benedizione senza nemmeno aprire la porta di casa, oppure non si fanno volutamente trovare. Accade poche volte, soprattutto negli anonimi condomini, ma ancora posso dire raramente. Sembra che faccia paura un parroco che porta la Benedizione di Dio, è questa l’impressione che ho sempre in questi casi. Trovo anche battezzati non credenti che rifiutano ogni dialogo e approccio mentre i fedeli di altre confessioni (ad esempio ortodossi) sono più cordiali e gentili nel chiedere di passare oltre. E poi, se tutti in famiglia lavorano è difficile che siano in casa ma se desiderano che io mi fermi a benedire o lasciano qualcuno che apra per loro o mi richiamano in parrocchia per fissare un altro momento; lasciamo sempre un avviso che siamo passati a coloro che sono assenti.
Forse non siamo ancora riusciti a crederlo davvero, ma il Dio che Gesù è venuto a farci conoscere non è un Dio impassibile e lontano, che osserva dall’alto un mondo che funziona come un orologio, magari perfino difettoso. È un Dio vicino e che si fa vicino, ci accompagna e ci salva ogni giorno dalle nostre paure, dalle nostre chiusure, dalla prigione dell’egoismo. Un Dio che bussa alle nostre porte, e non per dare un voto alle nostre vite, ma per aiutarci a osservarle con uno sguardo nuovo, ad accettarle e ad amarle quando proprio non riusciamo a vederci niente di buono, a riprenderle in mano da capo, con una nuova fiducia, con la quale potremo certamente dare al nostro cammino una nuova direzione.
Per una famiglia, dunque, ricevere la benedizione significa fare memoria della fedeltà di Dio e chiedere, come si esprime una delle preghiere che l’accompagnano, di saper custodire sempre i doni dello Spirito e, soprattutto, manifestare con il nostro amore, la nostra dedizione, la nostra generosità, la grazia e la forza della benedizione di Dio. Un piccolo rito per un grande annuncio, dunque: un modo molto semplice ed essenziale, arricchito dal fatto stesso della visita in casa, di far echeggiare sempre e di nuovo la bontà del Padre che, nel suo Figlio crocifisso e risorto, ci ha salvati dalla morte e ci ha donato lo Spirito per poter camminare in una vita nuova.
Verrebbe da pensare, in effetti, che il nostro bussare alle porte delle case, il nostro discreto affacciarci nelle luci e nelle ombre, nelle gioie e nelle sofferenze di tanti, assume un valore singolarmente prezioso proprio in questo tempo in cui il privato ha sommerso praticamente tutte le forme di socializzazione e di incontro. Un gesto controcorrente, che dovremmo probabilmente imparare a valorizzare di più e meglio, scoprendone la dimensione autenticamente missionaria, arricchendolo non tanto di parole o di segni, ma di valore in sé, curandolo maggiormente, dedicandovi forse più tempo, facendone occasione di dialogo e di rinnovata conoscenza delle persone, delle loro vicende, del loro itinerario umano e spirituale.
Dopo tutto, nella società postcristiana in cui viviamo, le benedizioni delle famiglie, con i non pochi rifiuti che si ricevono bussando alle porte, con l’indifferenza o l’imbarazzo che non di rado si percepiscono, ma anche con la gioia e la serenità, la luce e la speranza che non di rado portano con sé, possono essere davvero il segno discreto di un vangelo che è annuncio e proposta libera e disinteressata, fedele a quel «se vuoi» con il quale Gesù accompagnava ogni chiamata. Un’esperienza di annuncio in un mondo profondamente trasformato.
Alessandro Andreini