Benedetto XVI

Benedetto XVI, visita in Austria

Pubblichiamo i testi in italiano dei discorsi pronunciati da Benedetto XVI durante la sua visita pastorale in Austria, in occasione dell’850° anniversario della fondazione del Santuario di Mariazell (7-9 settembre 2007). 1. Cerimonia all’aeroporto | 2. Preghiera alla Mariensäule | 3. Discorso al Corpo diplomatico | 4. Messa a Mariazell | 5. Vespri a Marazell | 6. Messa nel Duomo di Wien | 7. Angelus | 8. Visita ad Heilegenkreutz | 9. Incontro con il volontariato | 10. Congedo all’aeroporto .

CERIMONIA DI BENVENUTO ALL’AEROPORTO INTERNAZIONALE DI WIEN/SCHWECHAT (7 settembre)

Benedetto XVI è arrivato all’aeroporto internazionale di Wien/Schwechat, alle 11.15, accolto dal Presidente della Repubblica, Heinz Fischer, dal Cancelliere della Repubblica, Alfred Gusembauer, da numerose Autorità politiche e civili, e dall’Arcivescovo di Wien, il card. Christoph Schönborn, con i Vescovi austriaci. Dopo il saluto del Presidente dell’Austria, il Papa ha pronunciato in tedesco il discorso che riportiamo di seguito nella traduzione italiana:

Signor Presidente Federale,Signor Cancelliere Federale,venerato Signor Cardinale,cari Confratelli nell’Episcopato,illustri Signore e Signori,cari giovani amici!

Con grande gioia metto oggi piede, per la prima volta dopo l’inizio del mio Pontificato, in terra d’Austria, in un Paese che mi è familiare a causa della vicinanza geografica al luogo della mia nascita, e non soltanto per questo. La ringrazio, Signor Presidente Federale, per le cordiali parole con cui, in nome dell’intero Popolo austriaco, mi ha rivolto il Suo benvenuto. Lei sa quanto mi senta legato alla Sua Patria e a molte persone e luoghi del Suo Paese. Questo spazio culturale nel centro dell’Europa supera frontiere e congiunge impulsi e forze di varie parti del Continente. La cultura di questo Paese è essenzialmente permeata dal messaggio di Gesù Cristo e dall’azione che la Chiesa ha svolto nel suo nome. Tutto ciò e ancora molte altre cose mi danno la viva impressione di essere tra voi, cari Austriaci, un po’ “a casa”.

Il motivo della mia venuta in Austria è l’850o anniversario del luogo sacro di Mariazell. Tale Santuario della Madonna rappresenta in certo qual modo il cuore materno dell’Austria e possiede da sempre una particolare importanza anche per gli Ungheresi e per i Popoli slavi. È simbolo di un’apertura che non supera solo frontiere geografiche e nazionali, ma nella persona di Maria rimanda ad una dimensione essenziale dell’uomo: la capacità di aprirsi alla Parola di Dio ed alla sua verità.

Con questa prospettiva, durante i prossimi tre giorni, desidero compiere qui in Austria il mio pellegrinaggio verso Mariazell. Negli ultimi anni si costata con gioia un crescente interesse da parte di tante persone per il pellegrinaggio. Nell’essere in cammino durante un pellegrinaggio, proprio anche i giovani trovano una via nuova di riflessione meditativa; fanno conoscenza gli uni degli altri e insieme si ritrovano davanti alla creazione, ma anche davanti alla storia della fede che, non di rado, inaspettatamente sperimentano come una forza per il presente. Intendo il mio pellegrinaggio verso Mariazell come un essere in cammino insieme ai pellegrini del nostro tempo. In questo senso inizierò fra poco al centro di Vienna la preghiera comune che, quasi come pellegrinaggio spirituale, accompagnerà queste giornate in tutto il Paese.

Mariazell rappresenta non solo una storia di 850 anni, ma in base all’esperienza della storia – e soprattutto in virtù del rimando materno della Statua miracolosa a Cristo – indica anche la strada verso il futuro. In questa prospettiva vorrei oggi, insieme con le Autorità politiche di questo Paese e con i rappresentanti delle Organizzazioni internazionali, gettare ancora uno sguardo sul nostro presente e sul nostro futuro.

Il giorno di domani mi porterà per la festa della Natività di Maria, la Festa patronale di Mariazell, a quel Luogo di grazia. Nella Celebrazione eucaristica davanti alla Basilica ci riuniremo, secondo l’indicazione di Maria, intorno a Cristo che viene in mezzo a noi. A Lui chiederemo di poterLo contemplare sempre più chiaramente, di riconoscerLo nei nostri fratelli, di servirLo in loro e di andare insieme con Lui verso il Padre. Come pellegrini al Santuario, nella preghiera e attraverso i mezzi di comunicazione, saremo uniti a tutti i fedeli e agli uomini di buona volontà qui nel Paese e ampiamente oltre i suoi confini.

Pellegrinaggio non significa soltanto cammino verso un Santuario. Essenziale è anche il cammino di ritorno verso la quotidianità. La nostra vita quotidiana di ogni settimana comincia con la Domenica – dono liberatorio di Dio che vogliamo accogliere e custodire. Celebreremo così questa Domenica nella Basilica di Santo Stefano – in comunione con tutti coloro che nelle parrocchie dell’Austria e in tutto il mondo si raccoglieranno per la Santa Messa.

Signore e Signori! So che in Austria la Domenica, in quanto giorno libero dal lavoro, ed anche i tempi liberi in altri giorni della settimana vengono in parte usati da molte persone per un impegno volontario a servizio degli altri. Anche un simile impegno, offerto con generosità e disinteresse per il bene e la salvezza degli altri, segna il pellegrinaggio della nostra vita. Chi “guarda” al prossimo – lo vede e gli fa del bene – guarda a Cristo e Lo serve. Guidati ed incoraggiati da Maria vogliamo aguzzare il nostro sguardo cristiano in vista delle sfide da affrontare nello spirito del Vangelo e, pieni di gratitudine e di speranza, da un passato a volte difficile, ma sempre anche ricco di grazia, ci incamminiamo verso un futuro colmo di promesse.

Signor Presidente Federale, cari amici! Mi rallegro di queste giornate in Austria e all’inizio del mio pellegrinaggio saluto Lei e tutti voi con un cordiale “Grüß Gott!”.

PREGHIERA ALLA MARIENSÄULE NELLA PIAZZA “AM HOF” A WIEN (7 settembre)

Prima tappa del pellegrinaggio di Benedetto XVI è stata la Mariensäule (colonna di Maria) nella Piazza “Am Hof” a Wien. Dalla loggia della facciata della chiesa, introdotto dall’indirizzo di omaggio dell’Arcivescovo di Wien, card. Christoph Schönborn, il Papa ha dato inizio alla liturgia, alla quale prendevano parte tutti i Vescovi dell’Austria. Di seguito riportiamo il testo italiano del saluto del Papa con la preghiera alla Mariensäule (lingua originale: tedesco):

Venerato Signor Cardinale,onorevole Signor Sindaco,cari fratelli e sorelle!

Come prima tappa del mio pellegrinaggio verso Mariazell ho scelto la Mariensäule, per riflettere un momento con voi sul significato della Madre di Dio per l’Austria del passato e del presente, come anche sul suo significato per ciascuno di noi. Saluto di cuore tutti voi convenuti qui per la preghiera ai piedi della Mariensäule. Ringrazio Lei, caro Signor Cardinale, per le calorose parole di benvenuto all’inizio di questa nostra celebrazione. Saluto il Signor Sindaco e tutte le Autorità presenti. Un particolare saluto rivolgo ai giovani e ai rappresentanti delle comunità di lingue straniere nell’Arcidiocesi di Vienna, che dopo questa liturgia della Parola si raccoglieranno nella chiesa, dove fino a domani rimarranno in adorazione davanti al Santissimo. Così essi realizzeranno in modo molto concreto ciò che in questi giorni vogliamo fare tutti noi: con Maria guardare a Cristo.

Con la fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato, si collega sin dai primi tempi una venerazione particolare per sua Madre, per quella Donna, nel cui grembo Egli assunse la natura umana partecipando perfino al battito del suo cuore, la Donna che accompagnò con delicatezza e rispetto la sua vita fino alla sua morte in croce, e al cui amore materno Egli alla fine affidò il discepolo prediletto e con lui tutta l’umanità. Nel suo sentimento materno Maria accoglie anche oggi sotto la sua protezione persone di tutte le lingue e culture, per condurle insieme, in una multiforme unità, verso Cristo. A Lei possiamo rivolgerci nelle nostre preoccupazioni e necessità. Da Lei, però, dobbiamo anche imparare ad accoglierci a vicenda con lo stesso amore con cui Ella accoglie tutti noi: ciascuno nella sua singolarità, voluto come tale e amato da Dio. Nella famiglia universale di Dio, nella quale per ogni persona è previsto un posto, ciascuno deve sviluppare i propri doni per il bene di tutti.

La Mariensäule, eretta dall’imperatore Ferdinando III come ringraziamento per la liberazione di Vienna da un grande pericolo e da lui inaugurata proprio 360 anni fa, deve essere anche per noi oggi un segno di speranza. Quante persone, da allora, si sono fermate presso questa colonna e, pregando, hanno levato gli occhi verso Maria! Quanti hanno sperimentato nelle difficoltà personali la forza della sua intercessione! Ma la nostra speranza cristiana si estende ben oltre la realizzazione dei nostri desideri piccoli e grandi. Noi leviamo gli occhi verso Maria, che ci mostra a quale speranza siamo stati chiamati (cfr Ef 1, 18); Lei, infatti, personifica ciò che l’uomo è veramente!

L’abbiamo appena sentito nel brano della Lettera agli Efesini: già prima della creazione del mondo, Dio ci ha scelti in Cristo. Egli conosce ed ama ciascuno di noi fin dall’eternità! E a quale scopo ci ha scelti? Per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità! E ciò non è un compito inattuabile: in Cristo Egli ce ne ha già donato la realizzazione. Noi siamo redenti! In virtù della nostra comunione col Cristo risorto, Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale. Apriamo il nostro cuore, accogliamo l’eredità preziosa! Allora potremo intonare, insieme a Maria, la lode della sua grazia. E se continueremo a portare le nostre preoccupazioni quotidiane davanti alla Madre immacolata di Cristo, Lei ci aiuterà ad aprire le nostre piccole speranze sempre verso la grande, vera speranza che dà senso alla nostra vita e può colmarci di una gioia profonda ed indistruttibile.

In questo senso vorrei ora, insieme a voi, levare gli occhi verso l’Immacolata, affidare a Lei le preghiere che poc’anzi avete pronunciate e chiedere la sua protezione materna per questo Paese e per i suoi abitanti:

Santa Maria, Madre Immacolata del nostro Signore Gesù Cristo, in te Dio ci ha donato il prototipo della Chiesa e del retto modo di attuare la nostra umanità. A te affido il Paese d’Austria e i suoi abitanti: aiuta tutti noi a seguire il tuo esempio e ad orientare la nostra vita totalmente verso Dio! Fa che, guardando a Cristo, diventiamo sempre più simili a Lui: veri figli di Dio! Allora anche noi, pieni di ogni benedizione spirituale, potremo corrispondere sempre meglio alla sua volontà e diventare così strumenti di pace per l’Austria, per l’Europa e per il mondo. Amen.

INCONTRO CON LE AUTORITÀ E CON IL CORPO DIPLOMATICO, NELL’HOFBURG DI WIEN

Venerdì 7 settembre, nella Sala dei Ricevimenti dell’Hofburg di Wien, Benedetto XVI ha incontrato le Autorità e il Corpo Diplomatico, oltre ad esponenti del mondo della Cultura, tra cui i Rettori delle Università austriache. Dopo il saluto del Presidente della Repubblica, Heinz Fischer, Benedetto XVI ha pronunciato in tedesco il discorso che pubblichiamo di seguito nella sua traduzione italiana:

Onorevole Signor Presidente Federale,Onorevole Signor Cancelliere Federale,Illustri Membri del Governo Federale,Onorevoli Deputati del Parlamento nazionale e Membri del Senato Federale,Illustri Presidenti Regionali,Stimati Rappresentanti del Corpo diplomatico,Illustri Signore e Signori! Introduzione

È per me una grande gioia e un onore incontrarmi oggi con Lei, Signor Presidente Federale, con i Membri del Governo Federale, come anche con i Rappresentanti della vita politica e pubblica della Repubblica d’Austria. In questo incontro nella Hofburg si rispecchia il buon rapporto, caratterizzato da fiducia vicendevole, tra il Vostro Paese e la Santa Sede, di cui Lei, Signor Presidente, ha parlato. Di questo mi rallegro vivamente.

Le relazioni tra la Santa Sede e l’Austria rientrano nel vasto complesso dei rapporti diplomatici, che trovano nella città di Vienna un importante crocevia, perché qui hanno sede anche vari Organismi internazionali. Sono lieto della presenza di molti Rappresentanti diplomatici, ai quali va il mio deferente saluto. Vi ringrazio, Signore e Signori Ambasciatori, per la vostra dedizione non solo al servizio dei Paesi che rappresentate e dei loro interessi, ma anche della causa comune della pace e dell’intesa tra i popoli.

Questa è la mia prima visita come Vescovo di Roma e Pastore supremo della Chiesa cattolica universale in questo Paese, che, però, conosco da molto tempo e per numerose visite precedenti. È – permettetemi di dirlo – veramente una gioia per me trovarmi qui. Ho qui molti amici e, come vicino bavarese, il modo di vivere e le tradizioni austriache mi sono familiari. Il mio grande Predecessore di beata memoria, Papa Giovanni Paolo II, ha visitato l’Austria tre volte. Ogni volta è stato ricevuto dalla gente di questo Paese con grande cordialità, le sue parole sono state ascoltate con attenzione e i suoi viaggi apostolici hanno lasciato le loro tracce.

Austria

L’Austria negli ultimi anni e decenni ha registrato successi, che ancora due generazioni fa nessuno avrebbe osato sognare. Il Vostro Paese non ha solo vissuto un notevole progresso economico, ma ha sviluppato anche un’esemplare convivenza sociale, di cui il termine “solidarietà sociale” è diventato un sinonimo. Gli austriaci hanno ogni ragione di esserne riconoscenti, e lo manifestano avendo un cuore aperto verso i poveri e gli indigenti nel proprio Paese, ma essendo anche generosi quando si tratta di dimostrare solidarietà in occasione di catastrofi e di disgrazie nel mondo. Le grandi iniziative di “Licht ins Dunkel” – “Luce nelle tenebre” – prima di Natale e “Nachbar in Not” – “Vicino nel bisogno” – sono una bella testimonianza di questi sentimenti.

Austria e l’ampliamento dell’Europa

Ci troviamo qui in un luogo storico, dal quale per secoli è stato governato un impero che ha unito ampie parti dell’Europa centrale e orientale. Questo luogo e quest’ora offrono, pertanto, un’occasione provvidenziale per fissare lo sguardo sull’intera Europa di oggi. Dopo gli orrori della guerra e le esperienze traumatiche del totalitarismo e della dittatura, l’Europa ha intrapreso il cammino verso un‘unità del Continente, tesa ad assicurare un durevole ordine di pace e di giusto sviluppo. La divisione che per decenni ha scisso il Continente in modo doloroso è, sì, superata politicamente, ma l’unità resta ancora in gran parte da realizzare nella mente e nel cuore delle persone. Anche se dopo la caduta della cortina di ferro nel 1989 qualche speranza eccessiva può essere rimasta delusa e su alcuni aspetti si possono sollevare giustificate critiche nei confronti di qualche istituzione europea, il processo di unificazione è comunque un’opera di grande portata che a questo Continente, prima corroso da continui conflitti e fatali guerre fratricide, ha portato un periodo di pace da tanto tempo sconosciuto. In particolare, per i Paesi dell’Europa centrale e orientale la partecipazione a tale processo è un ulteriore stimolo a consolidare al loro interno la libertà, lo stato di diritto e la democrazia. Vorrei ricordare, a tale proposito, il contributo che il mio predecessore Papa Giovanni Paolo II ha dato a quel processo storico. Pure l’Austria, che si trova al confine tra l’Occidente e l’Oriente di allora ha, come Paese-ponte, contribuito molto a questa unione e ne ha anche – non bisogna dimenticarlo – tratto grande profitto.

Europa

La “casa Europa”, come amiamo chiamare la comunità di questo Continente, sarà per tutti luogo gradevolmente abitabile solo se verrà costruita su un solido fondamento culturale e morale di valori comuni che traiamo dalla nostra storia e dalle nostre tradizioni. L’Europa non può e non deve rinnegare le sue radici cristiane. Esse sono una componente dinamica della nostra civiltà per il cammino nel terzo millennio. Il cristianesimo ha profondamente modellato questo Continente: di ciò rendono testimonianza in tutti i Paesi e particolarmente in Austria non solo le numerose chiese e gli importanti monasteri. La fede ha la sua manifestazione soprattutto nelle innumerevoli persone che essa, nel corso della storia fino ad oggi, ha portato ad una vita di speranza, di amore e di misericordia. Mariazell, il grande Santuario nazionale austriaco, è al contempo un luogo d’incontro per vari popoli europei. È uno di quei luoghi nei quali gli uomini hanno attinto e attingono tuttora la “forza dall’alto” per una retta vita.

In questi giorni la testimonianza di fede cristiana al centro dell’Europa viene espressa anche mediante la “Terza Assemblea Ecumenica Europea” in Sibiu/Hermannstadt (in Romania) posta sotto il motto: “La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e di unità in Europa”. Viene spontaneo il ricordo del “Katholikentag” centro-europeo che nel 2004, sotto il motto “Cristo – speranza dell’Europa”, ha radunato tanti credenti a Mariazell!

Oggi si parla spesso del modello di vita europeo. Con ciò si intende un ordine sociale che collega efficacia economica con giustizia sociale, pluralità politica con tolleranza, liberalità ed apertura, ma significa anche conservazione di valori che a questo Continente danno la sua posizione particolare. Questo modello, sotto i condizionamenti dell’economia moderna, si trova davanti ad una grande sfida. La spesso citata globalizzazione non può essere fermata, ma è un compito urgente ed una grande responsabilità della politica quella di dare alla globalizzazione ordinamenti e limiti adatti ad evitare che essa si realizzi a spese dei Paesi più poveri e delle persone povere nei Paesi ricchi e vada a scapito delle generazioni future.

Certamente – lo sappiamo – l’Europa ha vissuto e sofferto anche terribili cammini sbagliati. Ne fanno parte: restringimenti ideologici della filosofia, della scienza ed anche della fede, l’abuso di religione e ragione per scopi imperialistici, la degradazione dell’uomo mediante un materialismo teorico e pratico, ed infine la degenerazione della tolleranza in una indifferenza priva di riferimenti a valori permanenti. Fa però parte delle caratteristiche dell’Europa la capacità di autocritica che, nel vasto panorama delle culture del mondo, la distingue e la qualifica.

La vita

È nell’Europa che, per la prima volta, è stato formulato il concetto di diritti umani. Il diritto umano fondamentale, il presupposto per tutti gli altri diritti, è il diritto alla vita stessa. Ciò vale per la vita dal concepimento sino alla sua fine naturale. L’aborto, di conseguenza, non può essere un diritto umano – è il suo contrario. È una “profonda ferita sociale”, come sottolineava senza stancarsi il nostro defunto Confratello, Cardinale Franz König.

Nel dire questo non esprimo un interesse specificamente ecclesiale. Vorrei piuttosto farmi avvocato di una richiesta profondamente umana e portavoce dei nascituri che non hanno voce. Con ciò non chiudo gli occhi davanti ai problemi e ai conflitti di molte donne e mi rendo conto che la credibilità del nostro discorso dipende anche da quel che la Chiesa stessa fa per venire in aiuto alle donne in difficoltà.

Mi appello in questo contesto ai responsabili della politica, affinché non permettano che i figli vengano considerati come casi di malattia né che la qualifica di ingiustizia attribuita dal Vostro ordinamento giuridico all’aborto venga di fatto abolita. Lo dico mosso dalla preoccupazione per i valori umani. Ma questo non è che un lato di ciò che ci preoccupa. L’altro è di fare tutto il possibile per rendere i Paesi europei di nuovo più aperti ad accogliere i bambini. Incoraggiate, Vi prego, i giovani, che con il matrimonio fondano nuove famiglie, a divenire madri e padri! Con ciò farete del bene a loro medesimi, ma anche all’intera società. Vi confermo anche decisamente nelle Vostre premure politiche di favorire condizioni che rendano possibile alle giovani coppie di allevare dei figli. Tutto ciò, però, non gioverà a nulla, se non riusciremo a creare nei nostri Paesi di nuovo un clima di gioia e di fiducia nella vita, in cui i bambini non vengano visti come un peso, ma come un dono per tutti.

Una grande preoccupazione costituisce per me anche il dibattito sul cosiddetto “attivo aiuto a morire”. C’è da temere che un giorno possa essere esercitata una pressione non dichiarata o anche esplicita sulle persone gravemente malate o anziane, perché chiedano la morte o se la diano da sé. La risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita è un’attenzione amorevole, l’accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della medicina palliativa – e non un “attivo aiuto a morire”. Per affermare un accompagnamento umano verso la morte occorrerebbero però delle riforme strutturali in tutti i campi del sistema sanitario e sociale e l’organizzazione di strutture di assistenza palliativa. Occorrono poi anche passi concreti: nell’accompagnamento psicologico e pastorale delle persone gravemente malate e dei moribondi, dei loro parenti, dei medici e del personale di cura. In questo campo la “Hospizbewegung” fa delle cose grandiose. Tutto l’insieme di tali compiti, però, non può essere delegato soltanto a loro. Molte altre persone devono essere pronte o essere incoraggiate nella loro disponibilità a non badare a tempo e anche a spese nell’assistenza amorosa dei gravemente malati e dei moribondi.

Il dialogo della ragione

Fa parte dell’eredità europea, infine, una tradizione di pensiero, per la quale è essenziale una corrispondenza sostanziale tra fede, verità e ragione. Si tratta qui, in definitiva, della questione se la ragione stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no. Si tratta della questione se la realtà abbia alla sua origine il caso e la necessità, se quindi la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso, o se invece resti vero ciò che costituisce la convinzione di fondo della fede cristiana: In principio erat Verbum – In principio era il Verbo – all’origine di tutte le cose c’è la Ragione creatrice di Dio che ha deciso di parteciparsi a noi esseri umani.

Permettetemi di citare in questo contesto Jürgen Habermas, un filosofo quindi che non aderisce alla fede cristiana. Egli afferma: “Per l’autocoscienza normativa del tempo moderno il cristianesimo non è stato soltanto un catalizzatore. L’universalismo ugualitario, dal quale sono scaturite le idee di libertà e di convivenza solidale, è un’eredità immediata della giustizia giudaica e dell’etica cristiana dell’amore. Immutata nella sostanza, questa eredità è stata sempre di nuovo fatta propria in modo critico e nuovamente interpretata. A ciò fino ad oggi non esiste alternativa”.

I compiti dell’Europa nel mondo

Dall’unicità della sua chiamata deriva, tuttavia, per l’Europa anche una responsabilità unica nel mondo. A questo riguardo essa innanzitutto non deve rinunciare a se stessa. Il continente che, demograficamente, invecchia in modo rapido non deve diventare un continente spiritualmente vecchio. L’Europa inoltre acquisterà una migliore consapevolezza di se stessa se assumerà una responsabilità nel mondo che corrisponda alla sua singolare tradizione spirituale, alle sue capacità straordinarie e alla sua grande forza economica. L’Unione Europea dovrebbe pertanto assumere un ruolo guida nella lotta contro la povertà nel mondo e nell’impegno a favore della pace. Con gratitudine possiamo costatare che Paesi europei e l’Unione Europea sono tra coloro che maggiormente contribuiscono allo sviluppo internazionale, ma essi dovrebbero anche far valere la loro rilevanza politica di fronte, ad esempio, alle urgentissime sfide poste dall’Africa, alle immani tragedie di quel Continente, quali il flagello dell’AIDS, la situazione nel Darfur, l’ingiusto sfruttamento delle risorse naturali e il preoccupante traffico di armi. Così pure l’impegno politico e diplomatico dell’Europa e dei suoi Paesi non può dimenticare la permanente grave situazione del Medio Oriente, dove è necessario il contributo di tutti per favorire la rinuncia alla violenza, il dialogo reciproco e una convivenza veramente pacifica. Deve anche continuare a crescere il rapporto con le Nazioni dell’America latina e con quelle del Continente asiatico, mediante opportuni legami di interscambio.

Conclusione

Onorevole Signor Presidente Federale, illustri Signore e Signori! L’Austria è un Paese ricco di molte benedizioni: grandi bellezze paesaggistiche che, anno dopo anno, attirano milioni di persone per un soggiorno di riposo; un’inaudita ricchezza culturale, creata e accumulata da molte generazioni; molte persone dotate di talento artistico e di grandi forze creative. Dappertutto si possono vedere le testimonianze delle prestazioni prodotte dalla diligenza e dalle doti della popolazione che lavora. È questo un motivo di gratitudine e di fierezza. Ma certamente l’Austria non è un'”isola felice” e neppure crede di esserlo. L’autocritica fa sempre bene e, senz’altro, è diffusa in Austria. Un Paese che ha ricevuto tanto deve anche dare tanto. Può contare molto su se stesso e anche esigere da se stesso una certa responsabilità nei confronti dei Paesi vicini, dell’Europa e del mondo.

Molto di ciò che l’Austria è e possiede, lo deve alla fede cristiana ed alla sua ricca efficacia sulle persone. La fede ha formato profondamente il carattere di questo Paese e la sua gente. Deve perciò essere nell’interesse di tutti non permettere che un giorno in questo Paese siano forse ormai solo le pietre a parlare di cristianesimo! Un’Austria senza una viva fede cristiana non sarebbe più l’Austria.

Auguro a Voi e a tutti gli Austriaci, soprattutto agli anziani e ai malati, come anche ai giovani che hanno la vita ancora davanti a sé, speranza, fiducia, gioia e la benedizione di Dio! Vi ringrazio.

SANTA MESSA IN OCCASIONE DELL’850° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE DEL SANTUARIO DI MARIAZELL

Sabato 8 settembre, alle 10,30, Benedetto XVI ha presieduto, all’esterno della Basilica di Mariazell, la Celebrazione Eucaristica per l’850° anniversario di fondazione del Santuario, nella Solennità della Natività della Beata Vergine Maria, festa patronale di Mariazell. Nel corso della Messa ha pronunciato in lingua tedesca l’omelia che riportiamo di seguito nella traduzione italiana:

Cari fratelli e sorelle,

con il nostro grande pellegrinaggio a Mariazell celebriamo la festa patronale di questo Santuario, la festa della Natività di Maria. Da 850 anni vengono qui persone da vari popoli e nazioni, persone che pregano portando con sé i desideri dei loro cuori e dei loro Paesi, le preoccupazioni e le speranze del loro intimo. Così Mariazell è diventata per l’Austria, e molto al di là delle sue frontiere, un luogo di pace e di unità riconciliata. Qui sperimentiamo la bontà consolatrice della Madre; qui incontriamo Gesù Cristo, nel quale Dio è con noi, come afferma oggi il brano evangelico – Gesù, di cui nella lettura del profeta Michea abbiamo sentito: Egli sarà la pace (cfr 5,4). Oggi ci inseriamo nel grande pellegrinaggio di molti secoli. Facciamo una sosta dalla Madre del Signore e la preghiamo: Mostraci Gesù. Mostra a noi pellegrini Colui che è insieme la via e la meta: la verità e la vita.

Il brano evangelico, che abbiamo appena ascoltato, apre ulteriormente il nostro sguardo. Esso presenta la storia di Israele a partire da Abramo come un pellegrinaggio che, con salite e discese, per vie brevi e per vie lunghe, conduce infine a Cristo. La genealogia con le sue figure luminose e oscure, con i suoi successi e i suoi fallimenti, ci dimostra che Dio può scrivere diritto anche sulle righe storte della nostra storia. Dio ci lascia la nostra libertà e, tuttavia, sa trovare nel nostro fallimento nuove vie per il suo amore. Dio non fallisce. Così questa genealogia è una garanzia della fedeltà di Dio; una garanzia che Dio non ci lascia cadere, e un invito ad orientare la nostra vita sempre nuovamente verso di Lui, a camminare sempre di nuovo verso Cristo.

Andare in pellegrinaggio significa essere orientati in una certa direzione, camminare verso una meta. Ciò conferisce anche alla via ed alla sua fatica una propria bellezza. Tra i pellegrini della genealogia di Gesù ce n’erano alcuni che avevano dimenticato la meta e volevano porre sé stessi come meta. Ma sempre di nuovo il Signore aveva suscitato anche persone che si erano lasciate spingere dalla nostalgia della meta, orientandovi la propria vita. Lo slancio verso la fede cristiana, l’inizio della Chiesa di Gesù Cristo è stato possibile, perché esistevano in Israele persone con un cuore in ricerca – persone che non si sono accomodate nella consuetudine, ma hanno scrutato lontano alla ricerca di qualcosa di più grande: Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna, Maria e Giuseppe, i Dodici e molti altri. Poiché il loro cuore era in attesa, essi potevano riconoscere in Gesù Colui che Dio aveva mandato e diventare così l’inizio della sua famiglia universale. La Chiesa delle genti si è resa possibile, perché sia nell’area del Mediterraneo sia nell’Asia vicina e media, dove arrivavano i messaggeri di Gesù, c’erano persone in attesa che non si accontentavano di ciò che facevano e pensavano tutti, ma cercavano la stella che poteva indicare loro la via verso la Verità stessa, verso il Dio vivente.

Di questo cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno. È il nocciolo del pellegrinaggio. Anche oggi non è sufficiente essere e pensare in qualche modo come tutti gli altri. Il progetto della nostra vita va oltre. Noi abbiamo bisogno di Dio, di quel Dio che ci ha mostrato il suo volto ed aperto il suo cuore: Gesù Cristo. Giovanni, con buona ragione, afferma che Lui è l’Unigenito Dio che è nel seno del Padre (cfr Gv 1,18); così solo Lui, dall’intimo di Dio stesso, poteva rivelare Dio a noi – rivelarci anche chi siamo noi, da dove veniamo e verso dove andiamo. Certo, ci sono numerose grandi personalità nella storia che hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio. Restano, però, esperienze umane con il loro limite umano. Solo LUI è Dio e perciò solo LUI è il ponte, che veramente mette in contatto immediato Dio e l’uomo. Se noi cristiani dunque lo chiamiamo l’unico Mediatore della salvezza valido per tutti, che interessa tutti e del quale, in definitiva, tutti hanno bisogno, questo non significa affatto disprezzo delle altre religioni né assolutizzazione superba del nostro pensiero, ma solo l’essere conquistati da Colui che ci ha interiormente toccati e colmati di doni, affinché noi potessimo a nostra volta fare doni anche agli altri. Di fatto, la nostra fede si oppone decisamente alla rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità – come se questa fosse troppo grande per lui. Questa rassegnazione di fronte alla verità è, secondo la mia convinzione, il nocciolo della crisi dell’Occidente, dell’Europa. Se per l’uomo non esiste una verità, egli, in fondo, non può neppure distinguere tra il bene e il male. E allora le grandi e meravigliose conoscenze della scienza diventano ambigue: possono aprire prospettive importanti per il bene, per la salvezza dell’uomo, ma anche – e lo vediamo – diventare una terribile minaccia, la distruzione dell’uomo e del mondo. Noi abbiamo bisogno della verità. Ma certo, a motivo della nostra storia abbiamo paura che la fede nella verità comporti intolleranza. Se questa paura, che ha le sue buone ragioni storiche, ci assale, è tempo di guardare a Gesù come lo vediamo qui nel santuario di Mariazell. Lo vediamo in due immagini: come bambino in braccio alla Madre e, sull’altare principale della basilica, come crocifisso. Queste due immagini della basilica ci dicono: la verità non si afferma mediante un potere esterno, ma è umile e si dona all’uomo solamente mediante il potere interiore del suo essere vera. La verità dimostra se stessa nell’amore. Non è mai nostra proprietà, un nostro prodotto, come anche l’amore non si può produrre, ma solo ricevere e trasmettere come dono. Di questa interiore forza della verità abbiamo bisogno. Di questa forza della verità noi come cristiani ci fidiamo. Di essa siamo testimoni. Dobbiamo trasmetterla in dono nello stesso modo in cui l’abbiamo ricevuta, così come essa si è donata.

„Guardare a Cristo”, è il motto di questo giorno. Questo invito, per l’uomo in ricerca, si trasforma sempre di nuovo in una spontanea richiesta, una richiesta rivolta in particolare a Maria, che ci ha donato Cristo come il Figlio suo: „Mostraci Gesù!” Preghiamo oggi così con tutto il cuore; preghiamo così anche al di là di questa ora, interiormente alla ricerca del Volto del Redentore. „Mostraci Gesù!”. Maria risponde, presentandoLo a noi innanzitutto come bambino. Dio si è fatto piccolo per noi. Dio non viene con la forza esteriore, ma viene nell’impotenza del suo amore, che costituisce la sua forza. Egli si dà nelle nostre mani. Chiede il nostro amore. Ci invita a diventare anche noi piccoli, a scendere dai nostri alti troni ed imparare ad essere bambini davanti a Dio. Egli ci offre il Tu. Ci chiede di fidarci di Lui e di imparare così a stare nella verità e nell’amore. Il bambino Gesù ci ricorda naturalmente anche tutti i bambini del mondo, nei quali vuole venirci incontro. I bambini che vivono nella povertà; che vengono sfruttati come soldati; che non hanno mai potuto sperimentare l’amore dei genitori; i bambini malati e sofferenti, ma anche quelli gioiosi e sani. L’Europa è diventata povera di bambini: noi vogliamo tutto per noi stessi, e forse non ci fidiamo troppo del futuro. Ma priva di futuro sarà la terra solo quando si spegneranno le forze del cuore umano e della ragione illuminata dal cuore – quando il volto di Dio non splenderà più sopra la terra. Dove c’è Dio, là c’è futuro.

„Guardare a Cristo”: gettiamo ancora brevemente uno sguardo al Crocifisso sopra l’altare maggiore. Dio ha redento il mondo non mediante la spada, ma mediante la Croce. Morente, Gesù stende le braccia. Questo è innanzitutto il gesto della Passione, in cui Egli si lascia inchiodare per noi, per darci la sua vita. Ma le braccia stese sono allo stesso tempo l’atteggiamento dell’orante, una posizione che il sacerdote assume quando nella preghiera allarga le braccia: Gesù ha trasformato la passione – la sua sofferenza e la sua morte – in preghiera, e così l’ha trasformata in un atto di amore verso Dio e verso gli uomini. Per questo le braccia stese del Crocifisso sono, alla fine, anche un gesto di abbraccio, con cui Egli ci attrae a sé, vuole racchiuderci nelle mani del suo amore. Così Egli è un’immagine del Dio vivente, è Dio stesso, a Lui possiamo affidarci.

„Guardare a Cristo!” Se questo noi facciamo, ci rendiamo conto che il cristianesimo è di più e qualcosa di diverso da un sistema morale, da una serie di richieste e di leggi. È il dono di un’amicizia che perdura nella vita e nella morte: „Non vi chiamo più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15), dice il Signore ai suoi. A questa amicizia noi ci affidiamo. Ma proprio perché il cristianesimo è più di una morale, è appunto il dono di un’amicizia, proprio per questo porta in sé anche una grande forza morale di cui noi, davanti alle sfide del nostro tempo, abbiamo tanto bisogno. Se con Gesù Cristo e con la sua Chiesa rileggiamo in modo sempre nuovo il Decalogo del Sinai, penetrando nelle sue profondità, allora ci si rivela come un grande, valido, permanente ammaestramento. Il Decalogo è innanzitutto un „sì” a Dio, a un Dio che ci ama e ci guida, che ci porta e, tuttavia, ci lascia la nostra libertà, anzi, la rende vera libertà (i primi tre comandamenti). È un “sì” alla famiglia (quarto comandamento), un “sì” alla vita (quinto comandamento), un “sì” ad un amore responsabile (sesto comandamento), un “sì” alla solidarietà, alla responsabilità sociale e alla giustizia (settimo comandamento), un “sì” alla verità (ottavo comandamento) e un “sì” al rispetto delle altre persone e di ciò che ad esse appartiene (nono e decimo comandamento). In virtù della forza della nostra amicizia col Dio vivente noi viviamo questo molteplice “sì” e al contempo lo portiamo come indicatore di percorso in questa nostra ora del mondo.

„Mostraci Gesù!”. Con questa domanda alla Madre del Signore ci siamo messi in cammino verso questo luogo. Questa stessa domanda ci accompagnerà quando torneremo nella nostra vita quotidiana. E sappiamo che Maria esaudisce la nostra preghiera: sì, in qualunque momento, quando guardiamo verso Maria, lei ci mostra Gesù. Così possiamo trovare la via giusta, seguirla passo passo, pieni della gioiosa fiducia che la via conduce nella luce – nella gioia dell’eterno Amore. Amen.

Al termine della Messa, alcuni rappresentanti dei Consigli Parrocchiali eletti nel 2007 nelle diocesi austriache ricevono dalle mani del Papa i due libri del Nuovo Testamento scritti da Luca: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Pubblichiamo di seguito la traduzione italiana delle parole con cui il Santo Padre ha conferito loro il Mandato (testo originale in tedesco):

Carissimi fratelli e sorelle,membri dei Consigli Pastorali Parrocchialidelle Chiese diocesane dell’Austria:sono grato a tutti voichiamati a svolgere un impegnativo servizionelle rispettive comunità ecclesiali di appartenenza. Accogliete e vivete la Parola di Dio:sia essa ad orientare sull’esempio di Maria le vostre sceltenella famiglia, nel lavoro e nella comunità cristiana. Continuate a camminare nella fedee, fedeli al mandato che vi e stato affidato,andate con sollecitudine e letiziaverso tutte le creature per comunicare loro i doni della salvezza. Ricordatevi che siete inseriti in una storiae in una tradizione ricca di testimoni fedeli a Dio e al Vangelo. Lasciatevi guidare dallo Spirito Santoper essere lievito di nuova vita,sale della terrae luce del mondo. Vi sia di conforto e di incoraggiamentola benedizione del Signore, nostra pace.

Prima del saluto ai fedeli nelle diverse lingue, Benedetto XVI ha rivolto un pensiero alle persone colpite in questi giorni dalle alluvioni in Austria.

Cari fratelli e sorelle!

Prima dell’incontro con i Consigli parrocchiali e prima di consegnarvi il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, vorrei riprendere quanto è già stato detto nelle intenzioni di preghiera. Sono molte le persone che qui in Austria stanno soffrendo, in questi giorni, a causa delle alluvioni ed hanno subito danni. Vorrei rassicurare tutte queste persone della mia preghiera, della mia compassione e del mio dolore e sono certo che tutti coloro che ne avranno la possibilità, mostreranno solidarietà e li aiuteranno.

Poi vorrei ricordare anche i due pellegrini che sono morti qui, oggi – li ho compresi nella mia preghiera durante la Santa Messa. Possiamo confidare che la Madre di Dio li abbia condotti direttamente al cospetto di Dio, dato che erano venuti in pellegrinaggio per incontrare Gesù insieme con Lei.

VESPRI MARIANI CON SACERDOTI, RELIGIOSI, RELIGIOSE, DIACONI E SEMINARISTI, NEL SANTUARIO DI MARIAZELL (8 settembre)

Alle 16.30 di sabato 8 settembre, nella Basilica del Santuario Benedetto XVI, nella celebrazione dei Secondi Vespri della Solennità della Natività della Beata Vergine Maria, ha incontrato i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i diaconi, i seminaristi e le persone di vita consacrata. Nel corso della liturgia, introdotta dal saluto del Vescovo di Graz-Seckau, mons. Egon Kapellari, il Papa ha pronunciato in tedesco l’omelia che riportiamo di seguito nella traduzione italiana:

Venerati e cari confratelli nel ministero sacerdotale,

cari uomini e donne di vita consacrata,

cari amici!

Ci siamo riuniti nella venerabile Basilica della nostra “Magna Mater Austriae“, a Mariazell. Da molte generazioni la gente prega qui per ottenere l’aiuto della Madre di Dio. Lo facciamo oggi anche noi. Vogliamo con Lei magnificare la bontà immensa di Dio ed esprimere al Signore la nostra gratitudine per tutti i benefici ricevuti, in particolare per il grande dono della fede. Vogliamo confidare a Lei anche le domande che ci stanno a cuore: chiedere la sua protezione per la Chiesa, invocare la sua intercessione per il dono di buone vocazioni per le nostre Diocesi e Comunità religiose, sollecitare il suo aiuto per le famiglie e la sua preghiera misericordiosa per tutte le persone che cercano una via d’uscita dai peccati e la conversione e, infine, affidare alle sue cure materne tutti i malati e le persone anziane. Che la grande Madre dell’Austria e dell’Europa aiuti tutti noi a realizzare un profondo rinnovamento della fede e della vita!

Cari amici, come sacerdoti, religiosi e religiose, voi siete servi e serve della missione di Gesù Cristo. Come duemila anni fa Gesù ha chiamato persone alla sua sequela, così anche oggi giovani uomini e donne alla sua chiamata si mettono in cammino, affascinati da Lui e mossi dal desiderio di porre al servizio della Chiesa la propria vita, donandola per aiutare gli uomini. Hanno il coraggio di seguire Cristo e vogliono essere suoi testimoni. La vita al seguito di Cristo è, di fatto, un’impresa rischiosa, perché siamo sempre minacciati dal peccato, dalla mancanza di libertà e dalla defezione. Perciò abbiamo tutti bisogno della sua grazia, così come Maria la ricevette in pienezza. Impariamo a guardare sempre, come Maria, a Cristo prendendo Lui come criterio di misura. Possiamo partecipare all’universale missione di salvezza della Chiesa, della quale il Capo è Lui. Il Signore chiama i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici ad entrare nel mondo, nella sua realtà complessa, per cooperare lì all’edificazione del Regno di Dio. Lo fanno in una molteplicità grande e variegata: nell’annuncio, nell’edificazione di comunità, nei vari ministeri pastorali, nell’amore fattivo e nella carità vissuta, nella ricerca e nella scienza esercitate con spirito apostolico, nel dialogo con la cultura dell’ambiente circostante, nella promozione della giustizia voluta da Dio e in misura non minore nella contemplazione raccolta del Dio trinitario e nella sua lode comunitaria.

Il Signore vi invita al pellegrinaggio della Chiesa “nel suo cammino attraverso i tempi”. Vi invita a farvi pellegrini con Lui e a partecipare alla sua vita che ancora oggi è Via Crucis e via del Risorto attraverso la Galilea della nostra esistenza. Sempre, però, è lo stesso ed identico Signore che, mediante lo stesso unico battesimo, ci chiama all’unica fede. La partecipazione al suo cammino significa dunque ambedue le cose: la dimensione della Croce – con insuccessi, sofferenze, incomprensioni, anzi addirittura disprezzo e persecuzione –, ma anche l’esperienza di una profonda gioia nel suo servizio e l’esperienza della grande consolazione derivante dall’incontro con Lui. Come la Chiesa, così le singole parrocchie, le comunità e ogni cristiano battezzato traggono l’origine della loro missione dall’esperienza del Cristo crocifisso e risorto.

Il centro della missione di Gesù Cristo e di tutti i cristiani è l’annuncio del Regno di Dio. Questo annuncio nel nome di Cristo significa per la Chiesa, per i sacerdoti, i religiosi e le religiose, come per tutti i battezzati, l’impegno di essere presenti nel mondo come suoi testimoni. Il Regno di Dio, infatti, è Dio stesso che si rende presente in mezzo a noi e regna per mezzo nostro. L’edificazione del Regno di Dio, pertanto, avviene quando Dio vive in noi e noi portiamo Dio nel mondo. Voi lo fate, rendendo testimonianza di un “senso” che è radicato nell’amore creativo di Dio e si oppone a ogni insensatezza e ad ogni disperazione. Voi state dalla parte di coloro che cercano faticosamente questo senso, dalla parte di tutti coloro che vogliono dare alla vita una forma positiva. Pregando e chiedendo, siete gli avvocati di coloro che sono alla ricerca di Dio, che sono in cammino verso Dio. Voi rendete testimonianza di una speranza che, contro ogni disperazione muta o manifesta, rimanda alla fedeltà e all’attenzione amorevole di Dio. Con ciò siete dalla parte di tutti coloro che hanno il dorso piegato sotto destini pesanti e non riescono a liberarsi dai loro fardelli. Rendete testimonianza di quell’Amore che si dona per gli uomini e così ha vinto la morte. State dalla parte di coloro che non hanno mai sperimentato l’amore, che non riescono più a credere nella vita. Vi opponete così ai molteplici tipi di ingiustizia nascosta o aperta, come anche al disprezzo degli uomini che sta espandendosi. In questo modo, cari fratelli e sorelle, tutta la vostra esistenza deve essere, come quella di Giovanni Battista, un grande, vivo rimando a Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato. Gesù ha qualificato Giovanni “una lampada che arde e risplende” (Gv 5,35). Siate anche voi simili lampade! Fate brillare la vostra luce nella nostra società, nella politica, nel mondo dell’economia, nel mondo della cultura e della ricerca. Anche se è solo un piccolo lume in mezzo a tanti fuochi fatui, esso tuttavia riceve la sua forza e il suo splendore dalla grande Stella del mattino, il Cristo risorto, la cui luce brilla – vuole brillare attraverso noi – e non tramonterà mai.

Seguire Cristo – noi vogliamo seguirLo – seguire Cristo significa crescere nella condivisione dei sentimenti e nell’assimilazione dello stile di vita di Gesù; è quanto ci dice la Lettera ai Filippesi: “Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo!” (cfr 2, 5). “Guardare a Cristo” è il motto di questi giorni. Nel guardare a Lui, il grande Maestro di vita, la Chiesa ha scoperto tre caratteristiche che risaltano nell’atteggiamento di fondo di Gesù. Queste tre caratteristiche – le chiamiamo con la Tradizione i “consigli evangelici” – sono divenute le componenti determinanti di una vita impegnata nella sequela radicale di Cristo: povertà, castità ed obbedienza. Riflettiamo in questa ora un po’ su queste caratteristiche.

Gesù Cristo, che era ricco di tutta la ricchezza di Dio, si è fatto povero per noi, ci dice san Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (cfr 8, 9); è questa una parola inesauribile, sulla quale sempre dovremmo tornare riflettere. E nella Lettera ai Filippesi si legge: Ha spogliato se stesso e si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce (cfr 2, 6ss). Egli, che si è fatto povero, ha chiamato “beati” i poveri. San Luca, nella sua versione delle Beatitudini, ci fa capire che questa affermazione – il proclamare beati i poveri – riguarda senz’altro la gente povera, veramente povera, nell’Israele del suo tempo, dove c’era un contrasto opprimente tra ricchi e poveri. San Matteo nella sua versione delle Beatitudini ci spiega, tuttavia, che la semplice povertà materiale come tale da sola non garantisce ancora la vicinanza a Dio, perché il cuore può essere duro e pieno di brama di ricchezza. Matteo – come tutta la Sacra Scrittura – ci lascia però capire che, in ogni caso, Dio ai poveri è vicino in modo particolare. Così diventa chiaro: il cristiano vede in loro il Cristo che lo attende, aspettando il suo impegno. Chi vuol seguire Cristo in modo radicale, deve rinunciare ai beni materiali. Deve, però, vivere questa povertà a partire da Cristo, come un diventare interiormente libero per il prossimo. Per tutti i cristiani, ma specialmente per noi sacerdoti, per i religiosi e le religiose, per i singoli come pure per le comunità, la questione della povertà e dei poveri deve essere sempre di nuovo oggetto di un severo esame di coscienza. Proprio nella nostra situazione, in cui non stiamo male, non siamo poveri, penso che dobbiamo riflettere particolarmente su come possiamo vivere questa chiamata in modo sincero. Vorrei raccomandarlo al vostro – al nostro – esame di coscienza.

Per comprendere bene che cosa significhi castità, dobbiamo partire dal suo contenuto positivo. Lo troviamo ancora una volta solo guardando a Gesù Cristo. Gesù ha vissuto in un duplice orientamento: verso il Padre e verso gli uomini. Nella Sacra Scrittura veniamo a conoscerLo come persona che prega, che passa intere notti in dialogo col Padre. Pregando Egli inseriva la sua umanità e quella di tutti noi nel rapporto filiale col Padre. Questo dialogo diventava poi sempre nuovamente missione verso il mondo, verso di noi. La sua missione lo conduceva ad una dedizione pura ed indivisa agli uomini. Nelle testimonianze delle Sacre Scritture non vi è alcun momento della sua esistenza in cui si possa scorgere, nel suo comportamento verso gli uomini, una qualche traccia di interesse personale o di egoismo. Gesù ha amato gli uomini nel Padre, a partire dal Padre – e così li ha amati nel loro vero essere, nella loro realtà. L’entrare in questi sentimenti di Gesù Cristo – in questo essere totalmente in comunione col Dio vivente e in questa comunione tutta pura con gli uomini, a loro disposizione senza riserve – questo entrare nei sentimenti di Gesù Cristo ha ispirato a Paolo una teologia ed una prassi di vita che risponde alla parola di Gesù sul celibato per il Regno dei cieli (cfr Mt 19, 12). Sacerdoti, religiosi e religiose non vivono senza connessioni interpersonali. Castità, al contrario, significa – e da ciò volevo partire – un’intensa relazione; è positivamente una relazione col Cristo vivente e a partire da ciò col Padre. Perciò con il voto di castità nel celibato non ci consacriamo all’individualismo o ad una vita isolata, ma promettiamo solennemente di porre totalmente e senza riserve al servizio del Regno di Dio – e così a servizio degli uomini – gli intensi rapporti di cui siamo capaci e che riceviamo come un dono. In questo modo i sacerdoti, le religiose e i religiosi stessi diventano uomini e donne della speranza: contando totalmente su Dio e dimostrando in questo modo che Dio per loro è una realtà, creano spazio alla sua presenza – alla presenza del Regno di Dio – nel mondo. Voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, offrite un contributo importante: in mezzo a tutta la cupidigia, a tutto l’egoismo del non saper aspettare, alla brama di consumo, in mezzo al culto dell’individualismo noi cerchiamo di vivere un amore disinteressato per gli uomini. Viviamo una speranza che lascia a Dio il compito della realizzazione, perché crediamo che Egli la compirà. Che cosa sarebbe successo se nella storia del cristianesimo non ci fossero state queste figure indicatrici per il popolo? Che cosa sarebbe del nostro mondo, se non ci fossero sacerdoti, se non ci fossero donne e uomini negli Ordini religiosi e nelle Comunità di vita consacrata – persone che con la loro vita testimoniano la speranza di un appagamento più grande dei desideri umani e l’esperienza dell’amore di Dio che supera ogni amore umano? Il mondo ha bisogno della nostra testimonianza proprio oggi.

Veniamo all’obbedienza. Gesù ha vissuto tutta la sua vita, dagli anni nascosti a Nazaret fino al momento della morte in croce, nell’ascolto del Padre, nell’obbedienza verso il Padre. Vediamo, ad esempio, la notte sul Monte degli ulivi. “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Mediante questa preghiera Gesù assume nella sua volontà di Figlio la caparbia resistenza di tutti noi, trasforma la nostra ribellione nella sua obbedienza. Gesù era un orante. In ciò era però anche uno che sapeva ascoltare e obbedire: fatto “obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8). I cristiani hanno sempre sperimentato che, abbandonandosi alla volontà del Padre, non si perdono, ma trovano in questo modo la via verso una profonda identità e libertà interiore. In Gesù hanno scoperto che trova se stesso colui che si dona, diventa libero chi si lega in un’obbedienza fondata in Dio e animata dalla ricerca di Dio. Ascoltare Dio ed obbedirgli non ha niente a che fare con costrizione dall’esterno e perdita di se stesso. Solo entrando nella volontà di Dio raggiungiamo la nostra vera identità. La testimonianza di questa esperienza è oggi necessaria al mondo proprio in rapporto al suo desiderio di “autorealizzazione” e “autodeterminazione”.

Romano Guardini racconta nella sua autobiografia come, in un momento critico del suo cammino, quando la fede della sua infanzia gli era diventata insicura, gli fu donata la decisione portante di tutta la sua vita – la conversione – nell’incontro con la parola di Gesù secondo cui trova se stesso solo colui che si perde (cfr Mc 8, 34s; Gv 12, 25); senza l’abbandono, senza il perdersi non può esserci un ritrovamento di sé, un’autorealizzazione. Ma poi gli viene la domanda: in quale direzione è lecito perdermi? A chi posso donarmi? Gli si rese evidente che possiamo donarci completamente solo se nel farlo cadiamo nelle mani di Dio. Solo in Lui possiamo alla fine perderci e solo in Lui possiamo trovare noi stessi. Successivamente, però gli si presentò la domanda: Chi è Dio? Dov’è Dio? E allora comprese che il Dio al quale possiamo abbandonarci è solo il Dio resosi concreto e vicino in Gesù Cristo. Ma di nuovo gli si pose la domanda: Dove trovo Gesù Cristo? Come posso veramente donarmi a Lui? La risposta trovata da Guardini nella sua ricerca faticosa suona: Gesù è presente a noi in modo concreto solo nel suo corpo, la Chiesa. Per questo l’obbedienza alla volontà di Dio, l’obbedienza a Gesù Cristo, nella prassi deve essere molto concretamente un’umile obbedienza alla Chiesa. Penso, che anche su questo dovremmo sempre di nuovo fare un profondo esame di coscienza. Tutto ciò si trova riassunto nella preghiera di sant’Ignazio di Loyola – una preghiera che sempre mi appare troppo grande, al punto che quasi non oso dirla e che, tuttavia, dovremmo sempre di nuovo, pur con fatica, riproporci: “Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; tu me l’hai dato, a te, Signore, lo ridono; tutto è tuo, di tutto disponi secondo ogni tua volontà; dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia, e sono ricco abbastanza, né chiedo alcunché d’altro” (Eb 234).

Cari fratelli e sorelle! Ora voi tornate nel vostro ambiente di vita, nei luoghi del vostro impegno ecclesiale, pastorale, spirituale e umano. La nostra grande Avvocata e Madre Maria stenda la sua mano protettrice su di voi e sul vostro operare. Interceda per voi presso il suo Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo. Al ringraziamento per la vostra preghiera e il vostro lavoro nella vigna del Signore unisco la mia supplica a Dio, affinché doni protezione e benessere a tutti voi, alla gente, in particolare ai giovani, qui in Austria e nei vari Paesi dai quali non pochi di voi provengono. Di cuore accompagno tutti con la mia Benedizione.

MESSA NEL DUOMO DI S. STEFANO A WIEN (9 settembre 2007)

Alle ore 10 di domenica 9 settembre Benedetto XVI ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nel Duomo di Santo Stefano a Wien. Ecco il testo italiano dell’omelia pronunciata in tedesco:

Cari fratelli e sorelle!

“Sine dominico non possumus!” Senza il dono del Signore, senza il Giorno del Signore non possiamo vivere: così risposero nell’anno 304 alcuni cristiani di Abitene nell’attuale Tunisia quando, sorpresi nella Celebrazione eucaristica domenicale, che era proibita, furono portati davanti al giudice e fu loro chiesto perché avevano tenuto di Domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che questo era punito con la morte. “Sine dominico non possumus”. Nella parola dominicum/dominico sono indissolubilmente intrecciati due significati, la cui unità dobbiamo nuovamente imparare a percepire. C’è innanzitutto il dono del Signore – questo dono è Lui stesso: il Risorto, del cui contatto e vicinanza i cristiani hanno bisogno per essere se stessi. Questo, però, non è solo un contatto spirituale, interno, soggettivo: l’incontro col Signore si iscrive nel tempo attraverso un giorno preciso. E in questo modo si iscrive nella nostra esistenza concreta, corporea e comunitaria, che è temporalità. Dà al nostro tempo, e quindi alla nostra vita nel suo insieme, un centro, un ordine interiore. Per quei cristiani la Celebrazione eucaristica domenicale non era un precetto, ma una necessità interiore. Senza Colui che sostiene la nostra vita, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza.

Ha rilevanza questo atteggiamento dei cristiani di allora anche per noi cristiani di oggi? Sì, vale anche per noi, che abbiamo bisogno di una relazione che ci sorregga e dia orientamento e contenuto alla nostra vita. Anche noi abbiamo bisogno del contatto con il Risorto, che ci sorregge fin oltre la morte. Abbiamo bisogno di questo incontro che ci riunisce, che ci dona uno spazio di libertà, che ci fa guardare oltre l’attivismo della vita quotidiana verso l’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.

Se, tuttavia, prestiamo ora ascolto all’odierno brano evangelico, al Signore che in esso ci parla, ci spaventiamo. “Chi non rinuncia ad ogni sua proprietà e non lascia anche tutti i legami familiari, non può essere mio discepolo.” Vorremmo obiettare: ma cosa stai dicendo, Signore? Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? E non occorrono forse anche persone che investano nei beni di questo mondo ed edifichino la terra che ci è stata data, cosicché tutti possano aver parte dei suoi doni? Non ci è stato affidato forse anche il compito di provvedere allo sviluppo della terra e dei suoi beni? Se ascoltiamo meglio il Signore e soprattutto lo ascoltiamo nell’insieme di tutto ciò che Egli ci dice, allora comprendiamo che Gesù non esige da tutti la stessa cosa. Ognuno ha il suo compito personale e il tipo di sequela progettato per lui. Nel Vangelo di oggi Gesù parla direttamente di ciò che non è compito dei molti che gli si erano associati nel pellegrinaggio verso Gerusalemme, ma che è chiamata particolare dei Dodici. Questi devono innanzitutto superare lo scandalo della Croce e devono poi essere pronti a lasciare veramente tutto ed accettare la missione apparentemente assurda di andare sino ai confini della terra e, con la loro scarsa cultura, annunciare ad un mondo pieno di presunta erudizione e di formazione fittizia o vera – come certamente in particolare anche ai poveri e ai semplici – il Vangelo di Gesù Cristo. Devono essere pronti, sul loro cammino nella vastità del mondo, a subire in prima persona il martirio, per testimoniare così il Vangelo del Signore crocifisso e risorto. Se la parola di Gesù in questo pellegrinaggio verso Gerusalemme, in cui una gran folla lo accompagna, è rivolta anzitutto ai Dodici, la sua chiamata naturalmente raggiunge, al di là del momento storico, tutti i secoli. In tutti i tempi Egli chiama delle persone a contare esclusivamente su di Lui, a lasciare tutto il resto e ad essere totalmente a sua disposizione e così a disposizione degli altri: a creare delle oasi di amore disinteressato in un mondo, in cui tanto spesso sembrano contare solo il potere ed il denaro. Ringraziamo il Signore, perché in tutti i secoli ci ha donato uomini e donne che per amor suo hanno lasciato tutto il resto, rendendosi segni luminosi del suo amore! Basti pensare a persone come Benedetto e Scolastica, come Francesco e Chiara di Assisi, Elisabetta di Turingia e Edvige di Slesia, come Ignazio di Loyola, Teresa di Avila fino a Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio! Queste persone, con l’intera loro vita, sono diventate un’interpretazione della parola di Gesù, che in loro si rende vicina e comprensiva per noi. E preghiamo il Signore, affinché anche nel nostro tempo doni a tante persone il coraggio di lasciare tutto, per essere così a disposizione di tutti.

Se, però, ci dedichiamo ora di nuovo al Vangelo, possiamo accorgerci che il Signore non vi parla solo di alcuni pochi e del loro compito particolare; il nocciolo di ciò che Egli intende vale per tutti. Di che cosa si tratti in ultima istanza, lo esprime un’altra volta così: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 24s). Chi vuol soltanto possedere la propria vita, prenderla solo per se stesso, la perderà. Solo chi si dona riceve la sua vita. Con altre parole: solo colui che ama trova la vita. E l’amore richiede sempre l’uscire da se stessi, richiede sempre di lasciare se stessi. Chi si volge indietro per cercare se stesso e vuol avere l’altro solo per sé, perde proprio in questo modo se stesso e l’altro. Senza questo più profondo perdere se stesso non c’è vita. L’irrequieta brama di vita che oggi non dà pace agli uomini finisce nel vuoto della vita persa. “Chi perderà la propria vita per me…”, dice il Signore: un lasciare se stessi in modo più radicale è possibile solo se con ciò alla fine non cadiamo nel vuoto, ma nelle mani dell’Amore eterno. Solo l’amore di Dio, che ha perso se stesso per noi consegnandosi a noi, rende possibile anche a noi di diventare liberi, di lasciar perdere e così trovare veramente la vita. Questo è il centro di ciò che il Signore vuole comunicarci nel brano evangelico apparentemente così duro di questa Domenica. Con la sua parola Egli ci dona la certezza che possiamo contare sul suo amore, sull’amore del Dio fatto uomo. Riconoscere questo è la saggezza di cui ci ha parlato la prima lettura. Vale, infatti, anche qui che tutto il sapere del mondo non ci giova a nulla, se non impariamo a vivere, se non apprendiamo che cosa conta veramente nella vita.

“Sine dominico non possumus!”. Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La Domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea. Il tempo libero necessita di un centro – l’incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di München und Freising, il Cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: “Dà all’anima la sua Domenica, dà alla Domenica la sua anima”.

Proprio perché nella Domenica si tratta in profondità dell’incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come Giorno del Signore, perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: “Sia la luce!” (Gn 1,3). Per questo la Domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione – la festa della gratitudine e della gioia per la creazione di Dio. In un’epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della Domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l’eredità del settimo giorno, dello šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell’uguaglianza di tutte le creature di Dio.

Nell’orazione di questa Domenica ricordiamo innanzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della Domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottato come figli, ci ha accolto veramente nella comunione con se stesso. Essere figlio significa – lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva – essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa’ che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell’anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.

RECITA DELL’ANGELUS (9 settembre 2007)

Al termine della Celebrazione Eucaristica nel Duomo di Santo Stefano a Wien, Benedetto XVI ha guidato la recita dell’Angelus, nel piazzale antistante il Duomo. Questa latraduzione italiana delle parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

Cari fratelli e sorelle!

È stata per me, questa mattina, un’esperienza particolarmente bella poter celebrare con tutti voi il Giorno del Signore in modo così degno nel magnifico Duomo di Santo Stefano. Il Rito eucaristico realizzato col dovuto decoro ci aiuta a prendere coscienza dell’immensa grandezza del dono che Dio ci fa nella Santa Messa. Proprio così ci avviciniamo anche a vicenda e sperimentiamo la gioia di Dio. Sono grato pertanto a quanti, mediante il loro contributo attivo alla preparazione ed allo svolgimento della Liturgia o anche mediante la loro partecipazione raccolta ai santi Misteri, hanno creato un’atmosfera in cui la presenza di Dio era veramente percepibile. Grazie di cuore e un “Vergelt’s Gott” a tutti!

Nell’omelia ho cercato di dire qualcosa sul senso della Domenica e sul brano evangelico di oggi, e penso che questo ci abbia portati a scoprire che l’amore di Dio, che ha “perso se stesso” per noi consegnandosi a noi, ci dona la libertà interiore di “perdere” la nostra vita, per trovare in questo modo la vita vera. La partecipazione a questo amore ha dato a Maria la forza per il suo “sì” senza riserva. Di fronte all’amore rispettoso e delicato di Dio, che per la realizzazione del suo progetto di salvezza attende la libera collaborazione della sua creatura, la Vergine ha potuto lasciar cadere ogni esitazione e, in vista di questo progetto grande ed inaudito, consegnare fiduciosamente se stessa nelle sue mani. Pienamente disponibile, totalmente aperta nel suo intimo e libera da sé, ha dato a Dio la possibilità di colmarla con il suo Amore, con lo Spirito Santo. E così Maria, la donna semplice, ha potuto ricevere in se stessa il Figlio di Dio e donare al mondo il Salvatore che si era donato a Lei.

Anche a noi, nella Celebrazione eucaristica, è stato donato oggi il Figlio di Dio. Chi ha fatto la Comunione porta adesso in sé in modo particolare il Signore risorto. Come Maria lo portò nel suo grembo – un inerme piccolo essere umano, totalmente dipendente dall’amore della madre – così Gesù Cristo, sotto la specie del pane, si è affidato a noi, cari fratelli e sorelle. Amiamo questo Gesù che si dona così totalmente nelle nostre mani! AmiamoLo come Lo ha amato Maria! E portiamoLo agli uomini come Maria Lo ha portato ad Elisabetta, suscitando giubilo e gioia! La Vergine ha donato al Verbo di Dio un corpo umano, perché potesse entrare nel mondo. Doniamo anche noi il nostro corpo al Signore, rendiamo il nostro corpo sempre di più uno strumento dell’amore di Dio, un tempio dello Spirito Santo! Portiamo la Domenica col suo Dono immenso nel mondo!

Chiediamo a Maria di insegnarci a diventare, come Lei, liberi da noi stessi, per trovare nella disponibilità per Dio la nostra vera libertà, la vera vita, la gioia autentica e duratura.

Vorrei ora pronunciare la preghiera alla Madre di Dio, che, in realtà, avevo voluto pronunciare alla Mariensäule. Lì si è avuto poi, come sappiamo, il black-out così da rendere ciò impossibile. Per questo vorrei ora ricuperare tale preghiera alla Madonna:

Santa Maria, Madre Immacolata del nostro Signore Gesù Cristo, in te Dio ci ha donato il prototipo della Chiesa e del retto modo di attuare la nostra umanità. A te affido il Paese dell’Austria e i suoi abitanti: aiuta tutti noi a seguire il tuo esempio e ad orientare la nostra vita totalmente verso Dio! Fa che, guardando a Cristo, diventiamo sempre più simili a Lui: veri figli di Dio! Allora anche noi, pieni di ogni benedizione spirituale, potremo corrispondere sempre meglio alla sua volontà e diventare così strumenti di pace per l’Austria, per l’Europa e per il mondo. Amen

Cari amici, cantiamo adesso tutti insieme “l’Angelo del Signore” nel modo austriaco:

VISITA ALL’ABBAZIA DI HEILIGENKREUZ (9 settembre 2007)

Domenica pomeriggio Benedetto XVI ha visitato l’Abbazia cistercense di Heiligenkreuz e all’interno della basilica ha incontrato i monaci della Comunità, i docenti e gli studenti della Facoltà Teologica, Autorità locali, alcuni Vescovi austriaci ed una rappresentanza di parrocchiani. Introdotto dal saluto dell’Abate di Heiligenkreuz, P. Gregor Henckel Donnersmarck, il Papa ha pronunciato in tedesco il discorso che riportiamo nella traduzione italiana:

Reverendissimo Padre Abate, Venerati Confratelli nell’Episcopato, Cari monaci cistercensi di Heiligenkreuz, Cari fratelli e sorelle di vita consacrata, Illustri ospiti ed amici del Monastero e dell’Accademia, Signore e Signori!

Con piacere, nel mio pellegrinaggio alla Magna Mater Austriae, sono venuto anche nell’Abbazia di Heiligenkreuz, che non è solo una tappa importante sulla Via Sacra verso Mariazell, ma il più antico monastero cistercense del mondo restato attivo senza interruzione. Ho voluto venire a questo luogo ricco di storia, per attirare l’attenzione alla direttiva fondamentale di san Benedetto, secondo la cui Regula vivono anche i cistercensi. Benedetto dispone concisamente di “non anteporre nulla al divino Officio”.1

Per questo in un monastero di impostazione benedettina, le lodi di Dio, che i monaci celebrano come solenne preghiera corale, hanno sempre la priorità. Certo – e grazie a Dio! –, non sono solo i monaci che pregano; anche altre persone pregano: bambini, giovani e anziani, uomini e donne, persone sposate e nubili – ogni cristiano prega, o almeno dovrebbe farlo!

Nella vita dei monaci, tuttavia, la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! – Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1). Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium“. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.

Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.2

La nostra luce, la nostra verità, la nostra meta, il nostro appagamento, la nostra vita – tutto ciò non è una dottrina religiosa, ma una Persona: Gesù Cristo. Molto al di là delle nostre capacità di cercare e di desiderare Dio, siamo già prima stati cercati e desiderati, anzi, trovati e redenti da Lui! Lo sguardo degli uomini di ogni tempo e popolo, di tutte le filosofie, le religioni e le culture incontra infine gli occhi spalancati del Figlio di Dio crocifisso e risorto; il suo cuore aperto è la pienezza dell’amore. Gli occhi di Cristo sono lo sguardo del Dio che ama. L’immagine del Crocifisso sopra l’altare, il cui originale romano si trova nel Duomo di Sarzano, mostra che questo sguardo si volge ad ogni uomo. Il Signore, infatti, guarda nel cuore di ciascuno di noi.

Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione – il vivere alla maniera degli angeli. Essendo, tuttavia, i monaci uomini con carne e sangue su questa terra, san Benedetto all’imperativo centrale dell'”ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora“. Secondo il concetto di san Benedetto come anche di san Bernardo, una parte della vita monastica, insieme alla preghiera, è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui, diventano buoni.

Non solo i monaci dicono l’officium, ma la Chiesa dalla tradizione monastica ha derivato per tutti i religiosi, ed anche per sacerdoti e diaconi la recita del Breviario. Vale anche qui che le religiose e i religiosi, i sacerdoti e i diaconi – e naturalmente anche i Vescovi – nella quotidiana preghiera “ufficiale” si presentano davanti a Dio con inni e salmi, con ringraziamenti e domande senza scopi specifici.

Cari confratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari fratelli e sorelle nella vita consacrata! Io so che ci vuole disciplina, anzi, a volte anche superamento di sé per recitare fedelmente il Breviario; ma mediante questo officium riceviamo allo stesso tempo molte ricchezze: quante volte nel fare ciò stanchezza e abbattimento si dileguano! E là dove Dio viene lodato ed adorato con fedeltà, la sua benedizione non manca. Con ragione si dice in Austria: “Tutto dipende dalla benedizione di Dio!”

Il vostro servizio primario per questo mondo deve quindi essere la vostra preghiera e la celebrazione del divino Officio. La disposizione interiore di ogni sacerdote, di ogni persona consacrata deve essere quella di “non anteporre nulla al divino Officio”. La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (cfr 1 Cor 2, 9). In ogni forma di impegno per la liturgia criterio determinante deve essere sempre lo sguardo verso Dio. Noi stiamo davanti a Dio – Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei con Dio come specifico soggetto o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!

L’anima della preghiera, infine, è lo Spirito Santo. Sempre, quando preghiamo, è in verità Lui che “viene in aiuto alla nostra debolezza, intercedendo con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (cfr Rm 8, 26). Confidando in questa parola dell’apostolo Paolo vi assicuro, cari fratelli e sorelle, che la preghiera susciterà in voi quell’effetto che una volta si esprimeva chiamando sacerdoti e persone consacrate semplicemente “Geistliche” (cioè persone spirituali). Il Vescovo Sailer di Ratisbona disse una volta che i sacerdoti dovrebbero essere prima di tutto persone spirituali. Mi piacerebbe se l’espressione “Geistliche” ritornasse nuovamente più in uso. È però soprattutto importante che si realizzi in noi quella realtà che la parola descrive: che nella sequela del Signore, in virtù della forza dello Spirito, diventiamo persone “spirituali”.

L’Austria è, come si dice in doppio senso, veramente “Klösterreich“: regno di monasteri e ricca di monasteri. Le vostre antichissime abbazie con origini e tradizioni che risalgono a secoli fa sono luoghi della “preferenza per Dio”. Cari confratelli, rendete molto evidente per gli uomini questa priorità di Dio! Come oasi spirituale un monastero indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi, alla fine l’unica cosa decisiva: esiste un’ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile.

E chiedo a voi, cari fedeli, considerate le vostre abbazie e i vostri monasteri quello che sono e sempre vogliono essere: non soltanto luoghi di cultura e di tradizione o addirittura semplici aziende economiche. Struttura, organizzazione ed economia sono necessarie anche nella Chiesa, ma non sono la cosa essenziale. Un monastero è soprattutto questo: un luogo di forza spirituale. Arrivando in uno dei vostri monasteri qui in Austria si ha la stessa impressione di quando, dopo una camminata sulle Alpi che è costata sudore, finalmente ci si può rinfrescare ad un ruscello di acqua sorgiva… Approfittate dunque di queste sorgenti della vicinanza di Dio nel vostro Paese, stimate le comunità religiose, i monasteri e le abbazie e ricorrete al servizio spirituale che i consacrati sono disposti ad offrirvi!

La mia visita, infine, è rivolta all’Accademia ormai Pontificia che si trova nel 205o anniversario della sua fondazione e che, nel suo stato nuovo, dall’Abate ha ricevuto il nome aggiuntivo dell’attuale successore di Pietro. Per quanto sia importante l’integrazione della disciplina teologica nell’universitas del sapere mediante le facoltà teologiche cattoliche nelle università statali, è tuttavia altrettanto importante che ci siano luoghi di studi così profilati come il vostro, dove è possibile un legame approfondito tra teologia scientifica e spiritualità vissuta. Dio, infatti, non è mai semplicemente l’Oggetto della teologia, è sempre allo stesso tempo anche il suo Soggetto vivente. La teologia cristiana, del resto, non è mai un discorso solamente umano su Dio, ma è sempre al contempo il Logos e la logica in cui Dio si rivela. Per questo intellettualità scientifica e devozione vissuta sono due elementi dello studio che, in una complementarietà irrinunciabile, dipendono l’una dall’altra.

Il padre dell’Ordine cistercense, san Bernardo, a suo tempo ha lottato contro il distacco di una razionalità oggettivante dalla corrente della spiritualità ecclesiale. La nostra situazione oggi, pur diversa, ha però anche notevoli somiglianze. Nell’ansia di ottenere il riconoscimento di rigorosa scientificità nel senso moderno, la teologia può perdere il respiro della fede. Ma come una liturgia che dimentica lo sguardo a Dio è, come tale, al lumicino, così anche una teologia che non respira più nello spazio della fede, cessa di essere teologia; finisce per ridursi ad una serie di discipline più o meno collegate tra di loro. Dove invece si pratica una “teologia in ginocchio”, come richiedeva Hans Urs von Balthasar,3 non mancherà la fecondità per la Chiesa in Austria ed anche oltre.

Questa fecondità si mostra nel sostegno e nella formazione di persone che portano in sé una chiamata spirituale. Perché oggi una chiamata al sacerdozio o allo stato religioso possa essere sostenuta fedelmente lungo tutta la vita, occorre una formazione che integri fede e ragione, cuore e mente, vita e pensiero. Una vita al seguito di Cristo ha bisogno dell’integrazione dell’intera personalità. Dove si trascura la dimensione intellettuale, nasce troppo facilmente una forma di pia infatuazione che vive quasi esclusivamente di emozioni e di stati d’animo che non possono essere sostenuti per tutta la vita. E dove si trascura la dimensione spirituale, si crea un razionalismo rarefatto che sulla base della sua freddezza e del suo distacco non può mai sfociare in una donazione entusiasta di sé a Dio. Non si può fondare una vita al seguito di Cristo su tali unilateralità; con le mezze misure si resterebbe personalmente insoddisfatti e, di conseguenza, forse anche spiritualmente sterili. Ogni chiamata alla vita religiosa o al sacerdozio è un tesoro così prezioso che i responsabili devono fare tutto il possibile per trovare le vie di formazione adatte per promuovere insieme fides et ratio – la fede e la ragione, il cuore e la mente.

San Leopoldo d’Austria – l’abbiamo sentito poc’anzi – su consiglio del figlio, il beato Vescovo Otto di Frisinga che fu mio predecessore sulla sede vescovile di Frisinga (in Frisinga si celebra oggi la sua festa), fondò nel 1133 la vostra abbazia, dandole il nome di “Unsere Liebe Frau zum Heiligen Kreuz” – Nostra Signora della Santa Croce. Questo monastero non è dedicato alla Madonna solo tradizionalmente – come tutti i monasteri cistercensi –, ma qui arde il fuoco mariano di un san Bernardo di Chiaravalle. Bernardo che, insieme a 30 compagni entrò nel monastero, è una specie di Patrono delle chiamate spirituali. Forse aveva un ascendente così entusiasmante ed incoraggiante su molti giovani del suo tempo chiamati da Dio, perché era animato da una particolare devozione mariana. Dove c’è Maria, là c’è l’immagine primigenia della donazione totale e della sequela di Cristo. Dove c’è Maria, là c’è il soffio pentecostale dello Spirito Santo, là c’è l’avvio e un rinnovamento autentico.

Da questo luogo mariano sulla Via Sacra auguro a tutti i luoghi spirituali in Austria fecondità e capacità di irraggiamento. Qui vorrei prima della mia partenza, come già a Mariazell, chiedere alla Madre di Dio ancora una volta di intercedere per tutta l’Austria. Con le parole di san Bernardo invito ciascuno a farsi davanti a Maria fiduciosamente “bambino”, come lo ha fatto il Figlio stesso di Dio. San Bernardo dice, e noi diciamo con lui: “Guarda la stella, invoca Maria … Nei pericoli, nella angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani il suo nome dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore … Seguendo lei non ti smarrisci, pregando lei non ti disperi, pensando a lei non sbagli. Se lei ti tiene, non cadi; se lei ti protegge, non temi; se lei ti guida, non ti stanchi, se lei ti concede il suo favore, tu arrivi al tuo fine”.4

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1 Regula Benedicti 43,3. 2 Cfr CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 22. 3 Cfr HANS URS VON BALTHASAR, Theologie und Heiligkeit, Aufsatz von 1948 in: Verbum Caro. Schriften zur Theologie I, Einsiedeln 1960, 195-224. 4 BERNARDO DI CHIARAVALLE, In laudibus Virginis Matris, Homilia 2, 17.

INCONTRO CON IL MONDO DEL VOLONTARIATO (9 settembre 2007)

Alle 17.30 di domenica 9 settembre, al Wiener Konzerthaus di Wien, Benedetto XVI ha incontrato le organizzazioni di volontariato della Chiesa e della società civile che operano in Austria Dopo una breve introduzione musicale e gli indirizzi di saluto di due giovani volontari, dell’Arcivescovo di Salzburg, mons. Alois Kothgasser, e del Presidente della Repubblica, Heinz Fischer, il Papa ha pronunciato in tedesco il discorso che riportiamo nella traduzione italiana:

Onorevole Signor Presidente Federale, Reverendissimo Mons. Arcivescovo Kothgasser, cari collaboratori e collaboratrici volontari e onorari dei vari Organismi assistenziali in Austria, Illustri Signore e Signori e soprattutto: cari giovani amici!

Ho atteso con gioia particolare questo incontro con voi che si realizza verso la fine della mia visita in Austria. E naturalmente si aggiunge ancora la gioia di aver potuto sentire non solo una meravigliosa interpretazione di Mozart, ma inaspettatamente anche i “Wiener Sängerknaben”. Ringrazio di tutto cuore! È bello incontrare persone che nella nostra società cercano di dare al messaggio del Vangelo un volto; vedere persone anziane e giovani, che rendono concretamente sperimentabile nella Chiesa e nella società quell’amore dal quale noi, come cristiani, dobbiamo essere conquistati: è l’amore di Dio che ci fa riconoscere nell’altro il prossimo, il fratello o la sorella! Sono pieno di gratitudine e di ammirazione per il generoso impegno nel volontariato di tante persone di diversa età in questo Paese; a voi tutti e a coloro che rivestono un incarico a titolo gratuito in Austria vorrei oggi esprimere la mia particolare considerazione. Ringrazio di cuore Lei, stimato Signor Presidente, e Lei, caro Arcivescovo di Salisburgo, come soprattutto voi, giovani rappresentanti dei volontari in Austria, per le parole belle e profonde che mi sono state rivolte.

Grazie a Dio è per molti una questione d’onore impegnarsi volontariamente per gli altri, per un’associazione, per un’unione o per determinate situazioni di bene comune. Un tale impegno significa anzitutto un’occasione per formare la propria personalità e per inserirsi con un contributo attivo e responsabile nella vita sociale. La disponibilità ad un’attività volontaristica, tuttavia, si basa a volte su molteplici e fra loro diverse motivazioni. Spesso c’è all’origine semplicemente il desiderio di fare qualcosa che abbia senso e sia utile e di aprire nuovi campi di esperienza. I giovani cercano in ciò naturalmente e con buona ragione anche gioia ed eventi belli, un’esperienza di autentico cameratismo in una comune attività ricca di senso. Spesso le idee e le iniziative personali si collegano con un fattivo amore del prossimo; così il singolo viene integrato in una comunità che lo sostiene. Vorrei a questo punto esprimere il mio ringraziamento molto sentito per la marcata “cultura del volontariato” in Austria. Vorrei ringraziare ogni donna, ogni uomo, tutti i giovani e tutti i bambini – l’impegno volontaristico dei bambini, infatti, non di rado è imponente; si pensi solo all’azione dei “Sternsinger” nel tempo natalizio; Lei, caro Arcivescovo, l’ha ha già menzionato. Soprattutto vorrei ringraziare anche per quei piccoli e grandi servizi e fatiche che non sempre danno nell’occhio. Grazie e “Vergelt’s Gott” per il vostro contributo all’edificazione di una “civiltà dell’amore”, che si pone al servizio di tutti e crea Patria! L’amore del prossimo non si può delegare; lo Stato e la politica, con le pur necessarie premure per lo Stato sociale, – Lei, Signor Presidente, l’ha affermato – non possono sostituirlo. L’amore del prossimo richiede sempre l’impegno personale e volontario, per il quale certamente lo Stato può e deve creare condizioni generali favorevoli. Grazie a questo impegno, l’aiuto mantiene la sua dimensione umana e non viene spersonalizzato. E proprio per questo voi volontari non siete “tappabuchi” nella rete sociale, ma persone che veramente contribuiscono al volto umano e cristiano della nostra società.

Proprio i giovani desiderano che le loro capacità e i loro talenti vengano “suscitati e scoperti”. I volontari vogliono essere chiamati in causa personalmente. “Ho bisogno di te!”, “Tu ne sei capace!”: quanto ci fa bene una tale richiesta! Proprio nella sua semplicità umana, essa ci rimanda in modo indiretto a quel Dio che ha voluto ciascuno di noi e che a ciascuno di noi ha dato il suo compito personale, anzi, che ha bisogno di ciascuno di noi e aspetta il nostro impegno. Così Gesù ha chiamato gli uomini e ha dato loro il coraggio per la cosa grande che essi da sé non si sarebbero sentiti capaci di fare. Lasciarsi chiamare, decidersi e poi intraprendere un cammino senza la solita domanda circa l’utilità e il profitto – questo atteggiamento lascerà tracce risanatrici. I santi hanno indicato questa via con la loro vita. È un cammino interessante ed appassionante, un cammino generoso e, proprio oggi, attuale. Il “sì” a un impegno volontaristico e solidale è una decisione che rende liberi e aperti alle necessità dell’altro; alle esigenze della giustizia, della difesa della vita e della salvaguardia del creato. Negli impegni di volontariato entra in gioco la dimensione-chiave dell’immagine cristiana di Dio e dell’uomo: l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Cari volontari, signore e signori! L’impegnarsi a titolo volontaristico costituisce un’eco della gratitudine ed è la trasmissione dell’amore ricevuto. “Deus vult condiligentes – Dio vuole persone che amino con Lui”, affermava il teologo Duns Scoto nel XIV secolo.1 Visto così, l’impegno a titolo gratuito ha molto a che fare con la Grazia. Una cultura che vuole conteggiare tutto e tutto pagare, che colloca il rapporto tra gli uomini in una sorta di busto costrittivo di diritti e di doveri, sperimenta grazie alle innumerevoli persone impegnate a titolo gratuito che la vita stessa è un dono immeritato. Per quanto diverse, molteplici o anche contraddittorie possano essere le motivazioni e anche le vie dell’impegno volontaristico, alla base di tutte sta in fin dei conti quella profonda comunanza che scaturisce dalla “gratuità”. È gratuitamente che abbiamo ricevuto la vita dal nostro Creatore, gratuitamente siamo stati liberati dalla via cieca del peccato e del male, gratuitamente ci è stato dato lo Spirito con i suoi molteplici doni. Nella mia Enciclica ho scritto: “L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi”2. “Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia”3. Gratuitamente trasmettiamo ciò che abbiamo ricevuto, mediante il nostro impegno, la nostra carica volontaristica. Questa logica della gratuità è collocata al di là del semplice dovere e potere morale.

Senza impegno volontaristico il bene comune e la società non potevano, non possono e non potranno perdurare. La spontanea disponibilità vive e si dimostra al di là del calcolo e del contraccambio atteso; essa rompe le regole dell’economia di mercato. L’uomo, infatti, è molto più di un semplice fattore economico da valutare secondo criteri economici. Il progresso e la dignità di una società dipendono sempre di nuovo proprio da quelle persone che fanno più del loro stretto dovere.

Signore e signori! L’impegno volontaristico è un servizio alla dignità dell’uomo fondata nel suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Ireneo di Lione, nel II secolo, ha detto: “La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio”4. E Nicola Cusano, nella sua opera sulla visione di Dio ha sviluppato questo pensiero così: “Poiché l’occhio è là dove si trova l’amore, sento che Tu mi ami… Il Tuo guardare, Signore, è amare… Guardandomi, Tu, Dio recondito, ti fai scorgere da me… Il Tuo guardare è vivificare… Il Tuo guardare significa operare”5. Lo sguardo di Dio – lo sguardo di Gesù ci contagia con l’amore di Dio. Vi sono sguardi che possono andare nel vuoto o addirittura disprezzare. E sguardi che possono conferire riguardo ed esprimere amore. Le persone impegnate gratuitamente conferiscono al prossimo considerazione, ricordano la dignità dell’uomo e suscitano gioia di vita e speranza. Gli esponenti del volontariato sono custodi ed avvocati dei diritti dell’uomo e della sua dignità.

Con lo sguardo di Gesù è collegata ancora un’altra forma del guardare. “Lo vide e passò oltre”, si legge nel Vangelo del sacerdote e del levita che vedono l’uomo mezzo morto giacere al margine della strada, ma non intervengono (cfr Lc 10, 31.32). C’è chi vede e finge di non vedere, ha la necessità davanti ai suoi occhi e tuttavia rimane indifferente, questo fa parte delle correnti fredde del nostro tempo. Nello sguardo degli altri, proprio di quell’altro che ha bisogno del nostro aiuto, sperimentiamo l’esigenza concreta dell’amore cristiano. Gesù Cristo non ci insegna una mistica “degli occhi chiusi”, ma una mistica “dello sguardo aperto” e con ciò del dovere assoluto di percepire la condizione degli altri, la situazione in cui si trova quell’uomo che, secondo il Vangelo, è nostro prossimo. Lo sguardo di Gesù, la scuola degli occhi di Gesù introduce in una vicinanza umana, nella solidarietà, nella condivisione del tempo, nella condivisione delle doti e anche dei beni materiali. Perciò “quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento – importante anche questo –, ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore… Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente”6. Sì, “devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi”.7

Infine, il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (cfr Mt 22, 37-40; Lc 10, 27) ci ricorda che a Dio stesso, mediante l’amore del prossimo, noi cristiani tributiamo l’onore. È già stata citata dall’Arcivescovo Kothgasser la parola di Gesù: “Tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me!” (Mt 25, 40). Se nell’uomo concreto che incontriamo è presente Gesù, allora l’attività a titolo gratuito può diventare un’esperienza di Dio. La partecipazione alle situazioni ed alle necessità degli uomini conduce ad un “nuovo” stare insieme ed opera “producendo senso”. Così il servizio gratuito può aiutare a far uscire le persone dall’isolamento e ad integrarle nella comunità.

Alla fine vorrei ricordare la forza e l’importanza della preghiera per quanti sono impegnati nel lavoro caritativo. La preghiera a Dio è via di uscita dall’ideologia o dalla rassegnazione di fronte all’illimitatezza del bisogno. “I cristiani continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella «bontà di Dio» e nel «suo amore per gli uomini» (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi”8.

Cari collaboratori volontari e a titolo onorifico delle opere di soccorso in Austria, signore e signori! Quando uno non fa solo il suo dovere nella professione e nella famiglia – e per farlo bene ci vuole già molta forza e un grande amore –, ma s’impegna inoltre per gli altri, mettendo il suo prezioso tempo libero a servizio dell’uomo e della sua dignità, il suo cuore si dilata. I volontari non comprendono il concetto di prossimo in modo stretto; essi riconoscono anche nel “lontano” il prossimo che da Dio è accettato e che, con il nostro aiuto, deve essere raggiunto dall’opera di redenzione compiuta da Cristo. L’altro, il prossimo nel senso del Vangelo, diventa per noi come un partner privilegiato di fronte alle pressioni e costrizioni del mondo, in cui viviamo. Chi rispetta la “priorità del prossimo”, vive ed agisce secondo il Vangelo e prende parte anche alla missione della Chiesa, che sempre guarda l’uomo intero e vuol fargli sentire l’amore di Dio. Cari volontari, la Chiesa sostiene il vostro servizio pienamente. Sono convinto che dai volontari dell’Austria anche in futuro proverrà molta benedizione e vi accompagno tutti con la mia preghiera. Chiedo per tutti voi la gioia del Signore (cfr Ne 8, 10) che è la nostra forza. Il buon Dio vi sia sempre vicino e vi guidi continuamente mediante l’aiuto della sua grazia.

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1 Opus Oxoniense III d. 32 q.1 n.6. 2 Benedetto XVI, Deus caritas est, 31c. 3 Ivi, 35. 4 Adversus haereses IV, 20, 7. 5 De visione Dei / Die Gottesschau, in: Philosophisch-Theologische Schriften, hg. und eingef. von Leo Gabriel, übersetzt von Dietlind und Wilhelm Dupré, Wien 1967, Bd. III, 105-111. 6 Benedetto XVI, Deus caritas est, 31a; 31b. 7 Joseph Ratzinger / Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano 2007, pag. 234. 8 Benedetto XVI, Deus caritas est, 38.

CERIMONIA DI CONGEDO ALL’AEROPORTO DI WIEN/SCHWECHAT di Wien/Schwechat (9 settembre 2007)

Alle 19.15 di domenica 9 settembre, all’aeroporto di Wien-Schwechat ha avuto luogo la cerimonia di congedo alla presenza del Presidente della Repubblica, Heinz Fischer, e del Presidente della Conferenza Episcopale Austriaca, card. Christoph Schönborn. Dopo il saluto del Presidente della Repubblica, Benedetto XVI ha pronunciato in tedesco il discorso che riportiamo nella traduzione italiana:

Onorevole Signor Presidente Federale!

Nel momento del congedo dall’Austria, a conclusione del mio pellegrinaggio in occasione dell’850o anniversario del Santuario nazionale di Mariazell, ripercorro mentalmente con animo grato queste giornate ricche di esperienze. Sento che questo Paese così bello e la sua gente mi sono diventati ancora più familiari.

Ringrazio di cuore i miei Confratelli nell’Episcopato, il Governo, come anche tutti i responsabili della vita pubblica e, non da ultimo, i numerosi volontari che hanno contribuito alla riuscita dell’organizzazione di questa visita. Auguro a tutti una ricca partecipazione alla grazia che ci è stata donata in questi giorni. Un particolare e caloroso ringraziamento personale a Lei, Onorevole Signor Presidente Federale, per le parole di cui mi ha fatto dono in questo congedo, per il suo accompagnamento durante il pellegrinaggio e per tutta l’attenzione. Grazie!

Ho potuto nuovamente sperimentare Mariazell come particolare luogo di grazia, un luogo che in questi giorni ha attratto a sé tutti noi e ci ha interiormente rafforzati per il nostro ulteriore cammino. Il grande numero di coloro che hanno partecipato alla festa insieme con noi presso la Basilica, nella cittadina e nell’intera Austria ci deve incoraggiare a guardare con Maria a Cristo e ad affrontare pieni di fiducia il cammino verso il futuro. È stato bello che il vento e il maltempo non abbiano potuto fermarci, ma abbiano in fondo accresciuto ulteriormente la nostra gioia.

Già l’inizio con la preghiera comune sulla Piazza “am Hof” ci ha riuniti al di là dei confini nazionali e ci ha mostrato l’apertura ospitale dell’Austria, che è una delle grandi qualità di questo Paese.

La ricerca di una comprensione vicendevole e la formazione creativa di sempre nuove vie per favorire la fiducia tra gli uomini e i popoli continuino ad ispirare la politica nazionale ed internazionale di questo Paese! Vienna, nello spirito della sua esperienza storica e della sua posizione nel centro vivo dell’Europa, può recare a ciò il suo contributo, facendo valere conseguentemente la penetrazione dei valori tradizionali del Continente, permeati di fede cristiana, nelle istituzioni europee e nell’ambito della promozione delle relazioni internazionali, interculturali ed interreligiose.

Nel pellegrinaggio della nostra vita ogni tanto ci fermiamo, grati per il cammino fatto e sperando e pregando in vista della strada che abbiamo ancora davanti. Una sosta di questo genere ho fatto anch’io nell’Abbazia di Heiligenkreuz. La tradizione coltivata lì dai monaci cistercensi ci collega con le nostre radici, la cui forza e bellezza provengono in fondo da Dio stesso.

Oggi ho potuto celebrare con voi la Domenica, il Giorno del Signore – in rappresentanza di tutte le parrocchie dell’Austria – nel Duomo di Santo Stefano. Così, nell’occasione, ero collegato in modo particolare con i fedeli di tutte le parrocchie dell’Austria.

Un momento commovente, infine, è stato per me l’incontro con i volontari delle Organizzazioni assistenziali, che in Austria sono cosi numerose e multiformi. Le migliaia di volontari che ho potuto vedere rappresentano le migliaia e migliaia di colleghi che, in tutto il Paese, nella loro disponibilità all’aiuto mostrano i tratti più nobili dell’uomo e rendono riconoscibile ai credenti l’amore di Cristo.

Gratitudine e gioia colmano in questo momento il mio animo. A voi tutti che avete seguito queste giornate, che avete impegnato molta fatica e molto lavoro affinché il denso programma potesse svolgersi senza attriti, che avete partecipato al pellegrinaggio ed alle celebrazioni con tutto il cuore, giunga ancora una volta il mio ringraziamento più sentito. Congedandomi affido il presente ed il futuro di questo Paese all’intercessione della Madre della Grazia di Mariazell, la Magna Mater Austriae, e a tutti i santi e beati dell’Austria. Insieme con loro vogliamo guardare a Cristo, nostra vita e nostra speranza. Con sincero affetto dico a Voi e a tutti un cordialissimo “Vergelt’s Gott”.