Il racconto della lotta del patriarca Giacobbe con Dio al guado dello Yabboq è stata al centro della catechesi di oggi dell’Udienza generale di Benedetto XVI. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera, ha spiegato. L’episodio si svolge, ha ricordato il Pontefice, nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Alla fine della lotta, Giacobbe, che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini. Il rivale, invece di piegarsi alla richiesta, gli chiede il nome: Come ti chiami?. E il patriarca risponde: Giacobbe. Qui ha chiarito il Santo Padre – la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro.Anche Giacobbe risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto’, ha aggiunto Benedetto XVI. Il nome Giacobbe richiama il verbo ingannare, soppiantare. Nella lotta, il patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è Dio è forte, Dio vince’. Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto – è l’avversario stesso ad affermarlo – ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. E, ha precisato il Papa, non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso.Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici, ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie, ha chiarito Benedetto XVI. L’episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo, ha aggiunto. Per questo, la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza. Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono. La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio avversario e nemico, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Perciò, l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio. Tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera ha chiarito il Papa -, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. Quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. Non solo: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato, lo rinomina Penuel, che significa Volto di Dio’. Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore. Colui che si lascia benedire da Dio ha concluso -, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione.Sir