Un invito ad un esame di coscienza, per chiedersi cosa è la teologia, che cosa siamo noi teologi, come fare bene teologia. A rivolgerlo è stato il Papa, durante l’omelia della messa celebrata oggi alla Commissione teologica internazionale. I veri teologi, ha affermato Benedetto XVI, sono coloro che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del loro cuore, della loro esistenza. L’esempio contrario sono gli scribi, grandi specialisti che possono dire dove nasce il Messia a Betlemme, ma non si sentono inviati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica che non tocca la loro vita. Così accade durante tutta la vita pubblica del Signore, in cui ai dotti rimane inaccettabile che Dio possa essere presente in questo uomo, mentre va rivelato ai piccoli, cominciando dalla Madonna fino ai pescatori della Galilea. Tutto ciò, per il Papa, si verifica anche nel nostro tempo: negli ultimi duecento anni, ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologici maestri della fede che sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che questo Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. Molti, invece, i piccoli che hanno conosciuto Dio, come Bernardette Soubirous, Teresa di Lisieux, suor Bakhita, madre Teresa. C’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli, ha spiegato il Papa: C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si mette sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando dalle scienze naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia va universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. Così infine anche in teologia, dove si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette solo una certa misura per questi pesci e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. E così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico, realmente una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, uno che è rimasto nel sepolcro, è corrotto, è realmente un morto. Un metodo, questo, che sa captare certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura e ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza, che assolutizza certi metodi che non sono adatti alle realtà grandi. Si tratta, per il Santo Padre, dello stesso spirito accademico degli scribi, che rispondono ai re magi: non tocca me, rimango sopra la mia esistenza, non va toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.Ma c’è un altro uso della ragione, e dunque di essere sapienti o piccoli: quello dell’uomo che riconosce chi è, riconosce la sua misura e la grandezza di Dio e si apre nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. E così, proprio accettando la sua piccolezza, facendosi piccolo come è, arriva alla verità. In questo modo, è la tesi del Pontefice, anche la ragione riceve tutte le sue possibilità, non va spenta, ma va più larga, più grande, in quanto non esclude il mistero ma è proprio comunione con il Signore, sul quale riposano sapienza e saggezza e la loro verità. E’ questa la vera umiltà richiesta ai teologi, che spiega come nel cristianesimo c’è una specie di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa il teologo, perché lui è realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo. Anche dopo la sua risurrezione il Signore, ha ricordato il Papa, sulla strada verso Damasco tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Ma il risorto lo tocca. Diventa cieco e diventa realmente vedente. Comincia a vedere. E il dotto grande diviene un piccolo e proprio così vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.Sir