Benedetto XVI
Benedetto XVI, i discorsi a Parigi e a Lourdes
Intervista concessa da Benedetto XVI durante il volo verso la Francia (12 settembre)
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervista concessa da Benedetto XVI ai giornalisti del Volo Papale, nel corso del viaggio aereo da Roma a Parigi, il 12 settembre, così come diffusa dalla Sala Stampa Vaticana. Le domande sono state rivolte al Papa da p. Federico Lombardi s.j., Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, in francese, a nome dei giornalisti presenti sul volo papale.
DOMANDA: “Francia, sei fedele alle promesse del tuo battesimo?” aveva chiesto nel 1980 Giovanni Paolo II durante il suo primo viaggio. Oggi quale sarà il Suo messaggio ai Francesi? Pensa che a causa della laicità la Francia stia perdendo la sua identità cristiana?
BENEDETTO XVI: Mi sembra evidente oggi che la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall’inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato. Per i cristiani è sempre stato chiaro che la religione e la fede non sono politiche, ma un’altra sfera della vita umana… La politica, lo Stato non è una religione ma una realtà profana con una missione specifica… e devono essere aperte l’una a l’altra. In tal senso direi oggi, per i Francesi, e non solo per i Francesi, per noi cristiani in questo mondo secolarizzato di oggi, è importante vivere con gioia la libertà della nostra fede, vivere la bellezza della fede e rendere visibile nel mondo di oggi che è bello conoscere Dio, Dio con un volto umano in Gesù Cristo… Mostrare dunque la possibilità dell’essere credente oggi, e la necessità che nella società di oggi vi siano uomini che conoscono Dio e possono dunque vivere secondo i valori che ci ha dato e contribuire alla presenza dei valori che sono fondamentali per l’edificazione e per la sopravvivenza dei nostri Stati e delle nostre società.
DOMANDA: Lei ama e conosce la Francia… che cosa La lega più particolarmente a questo paese, quali sono gli autori francesi, laici o cristiani, che L’hanno maggiormente colpito o i ricordi più commoventi che serba della Francia?
BENEDETTO XVI: Non oserei dire che conosco bene la Francia. La conosco poco, ma amo la Francia, la grande cultura francese, soprattutto, naturalmente, le grandi cattedrali, e anche la grande arte francese… la grande teologia che inizia con Sant’Ireneo di Lione fino al XIII secolo e ho studiato l’università di Parigi nel XIII secolo: San Bonaventura, San Tommaso d’Aquino. Questa teologia è stata decisiva per lo sviluppo della teologia in Occidente… E naturalmente la teologia del secolo del Concilio Vaticano II. Ho avuto il grande onore e la gioia di essere amico del padre de Lubac, una delle più grandi figure del secolo scorso, ma ho avuto anche buoni contatti di lavoro con il padre Congar, Jean Daniélou e altri.
Ho avuto ottime relazioni personali con Etienne Gilson, Henri-Irénée Maroux. Ho dunque avuto davvero un contatto molto profondo, molto personale e arricchente con la grande cultura teologica e filosofica della Francia. È stato davvero determinante per lo sviluppo del mio pensiero. Ma anche la riscoperta del gregoriano originale con Solesmes, la grande cultura monastica… e naturalmente la grande poesia. Essendo un uomo del barocco, mi piace molto Paul Claudel, con la sua gioia di vivere, e anche Bernanos e i grandi poeti di Francia del secolo scorso. È dunque una cultura che ha realmente determinato il mio sviluppo personale, teologico, filosofico e umano.
DOMANDA: Che cosa dice a coloro che in Francia temono che il Motu proprio “Summorum pontificum” segni un ritorno indietro rispetto alle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II? In che modo può rassicurarli?
BENEDETTO XVI: È una paura infondata perché questo Motu proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l’amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un’esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c’è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia.
Ogni giorno (del Concilio, n.d.r.) i padri conciliari hanno celebrato la messa secondo l’antico rito e, al contempo, hanno concepito uno sviluppo naturale per la liturgia in tutto questo secolo, poiché la liturgia è una realtà viva che si sviluppa e conserva nel suo sviluppo, nella sua identità. Ci sono dunque sicuramente accenti diversi, ma comunque un’identità fondamentale che esclude una contraddizione, un’opposizione tra la liturgia rinnovata e la liturgia precedente. Credo in ognicaso che vi sia una possibilità di arricchimento da ambedue le parti. Da un lato gli amici dell’antica liturgia possono e devono conoscere i nuovi santi, le nuove prefazioni della liturgia, ecc…. dall’altra, la liturgia nuova sottolinea maggiormente la partecipazione comune ma sempre… non è semplicemente un’assemblea di una certa comunità, ma sempre un atto della Chiesa universale, in comunione con tutti i credenti di tutti i tempi, e un atto di adorazione. In tal senso mi sembra che vi sia un mutuo arricchimento, ed è chiaro che la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del notro tempo.
DOMANDA: Con che spirito inizia il Suo pellegrinaggio a Lourdes, e ci è già stato?
BENEDETTO XVI: Sono stato a Lourdes per il Congresso eucaristico internazionale nel 1981, dopo l’attentato contro il Santo Padre (Giovanni Paolo II, n.d.r). E il cardinale Gantin era il delegato del Santo Padre. Per me è un bellissimo ricordo.
Il giorno della festa di Santa Bernadette è anche il giorno della mia nascita. Ed è questo già un motivo per cui mi sento molto vicino alla piccola santa, a quella ragazzina giovane, pura, umile, con la quale la Madonna ha parlato.
Incontrare questa realtà, questa presenza della Madonna nel nostro tempo, vedere le tracce di quella ragazzina che era amica della Madonna e, d’altro canto, incontare la Madonna, sua Madre, è per me un evento importante. Naturalmente non ci andiamo a trovare miracoli.
Vi troverò l’amore della Madre che è la vera guarigione per tutte le malattie, tutti i dolori… ed essere solidale con tutti coloro che soffrono, nell’amore della Madre. Mi sembra questo un segno molto importante per la nostra epoca.
Il mio pellegrinaggio a Lourdes doveva prevedere una sosta a Parigi. La vostra capitale mi è familiare e la conosco bene. In essa ho sovente sostato e, nel corso degli anni, in ragione dei miei studi e delle mie precedenti mansioni, vi ho intrecciato buone amicizie umane e intellettuali. Vi ritorno quindi con gioia, lieto dell’occasione che mi è così offerta di rendere omaggio all’imponente patrimonio di cultura e di fede che ha plasmato il vostro Paese in modo splendido durante secoli e che ha offerto al mondo grandi figure di servitori della Nazione e della Chiesa, il cui insegnamento ed esempio hanno naturalmente oltrepassato i confini geografici e nazionali per contrassegnare il divenire del mondo. In occasione della Sua visita a Roma, Signor Presidente, Ella ha ricordato che le radici della Francia – come quelle dell’Europa sono cristiane. Basta la storia a dimostrarlo: fin dalle origini il Suo Paese ha ricevuto il messaggio del Vangelo. Se i documenti fanno a volte difetto, resta comunque il fatto che l’esistenza di comunità cristiane nella Gallia è attestata in data molto antica: non si può ricordare senza emozione che la città di Lione aveva un Vescovo già nella metà del II secolo e che sant’Ireneo, l’autore dell’Adversus haereses, vi rese una testimonianza eloquente del vigore del pensiero cristiano. Ora, sant’Ireneo era venuto da Smirne per predicare la fede nel Cristo risorto. Lione aveva dunque un Vescovo la cui lingua materna era il greco: vi può essere un segno più bello della natura e della destinazione universale del messaggio cristiano? La Chiesa, impiantata in epoca antica nel Suo Paese, vi ha svolto un ruolo civilizzatore al quale mi piace rendere omaggio in questo luogo. Ella stessa vi ha fatto allusione nel Suo discorso al Palazzo del Laterano nel dicembre scorso. Trasmissione della cultura antica attraverso monaci, professori e copisti, formazione dei cuori e degli spiriti all’amore del povero, aiuto ai più sprovveduti mediante la fondazione di numerose Congregazioni religiose, il contributo dei cristiani al consolidarsi delle istituzioni della Gallia, poi della Francia, è troppo conosciuto perché mi ci dilunghi. Le migliaia di cappelle, di chiese, di abbazie, e di cattedrali che adornano il cuore delle città o la solitudine delle campagne dicono abbastanza su come gli antichi padri nella fede hanno voluto onorare Colui che aveva loro donato la vita e che ci conserva nell’esistenza.
Numerose persone, anche qui in Francia, si sono soffermate a riflettere sui rapporti tra Chiesa e Stato. In verità, sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). La Chiesa in Francia gode attualmente di un regime di libertà. La diffidenza del passato si è trasformata poco a poco in un dialogo sereno e positivo, che si consolida sempre di più. Un nuovo strumento di dialogo esiste dal 2002 ed io ho grande fiducia nel suo lavoro, perché la buona volontà è reciproca. Sappiamo che restano ancora aperti certi territori di dialogo che dovremo percorrere e bonificare poco a poco con determinazione e pazienza. Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, l’espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. E’ fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società.
Il Papa, testimone di un Dio che ama e che salva, si sforza di essere un seminatore di carità e di speranza. Ogni umana società ha bisogno di speranza e questa necessità è ancora più forte nel mondo d’oggi che offre poche aspirazioni spirituali e poche certezze materiali. I giovani sono la mia preoccupazione più grande. Alcuni di loro faticano a trovare un orientamento che loro convenga o soffrono di una perdita di riferimenti nella loro vita familiare. Altri ancora sperimentano i limiti di un comunitarismo religioso condizionante. Messi a volte ai margini e spesso abbandonati a se stessi, sono fragili e devono affrontare da soli una realtà che li supera. E’ dunque necessario offrire loro un solido quadro educativo e incoraggiarli a rispettare e ad aiutare gli altri, così che arrivino serenamente all’età matura. La Chiesa, in questo campo, può recare il suo contributo specifico. Anche la situazione sociale del mondo occidentale, segnata purtroppo da una tacita progressione della distanza tra ricchi e poveri, mi preoccupa. Sono certo che è possibile trovare soluzioni giuste che, andando oltre l’aiuto immediato necessario, giungano al cuore dei problemi nell’intento di proteggere i deboli e di promuovere la loro dignità. Attraverso le sue numerose istituzioni e iniziative la Chiesa, come del resto numerose associazioni nel Suo Paese, cerca spesso di provvedere alle necessità immediate, ma è allo Stato che spetta di legiferare per sradicare le ingiustizie. In una cornice molto più larga, Signor Presidente, mi dà pensiero anche lo stato del nostro pianeta. Con grande generosità Dio ci ha affidato il mondo da Lui creato. E’ urgente imparare a rispettarlo e a proteggerlo meglio. Mi sembra che sia venuto il momento di fare delle proposte più costruttive per garantire il benessere delle generazioni future.
L’esercizio della Presidenza dell’Unione Europea costituisce per il Suo Paese l’occasione di testimoniare l’attaccamento della Francia, secondo la sua nobile tradizione, ai diritti dell’uomo e alla loro promozione per il bene dell’individuo e della società. Quando il cittadino europeo vedrà e sperimenterà personalmente che i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi, quando dunque il cittadino europeo si renderà conto che questi diritti, che costituiscono un tutto indissociabile, sono promossi e rispettati, allora comprenderà pienamente la grandezza dell’edificio dell’Unione e ne diverrà un attivo artefice. Il compito che Le incombe, Signor Presidente, non è facile. I tempi sono incerti ed è una impresa ardua trovare la strada buona in mezzo ai meandri del quotidiano sociale ed economico, nazionale e internazionale. In particolare, di fronte al pericolo del riemergere di vecchie diffidenze, tensioni e contrapposizioni tra Nazioni, di cui oggi siamo preoccupati testimoni, la Francia, storicamente sensibile alla riconciliazione tra i popoli, è chiamata ad aiutare l’Europa a costruire la pace dentro i suoi confini e nel mondo intero. E’ importante, a tale riguardo, promuovere un’unità che non può e non vuole divenire uniformità, ma che è capace di garantire il rispetto delle differenze nazionali e delle diverse tradizioni culturali, che costituiscono una ricchezza nella sinfonia europea, rammentando, d’altra parte, che “la stessa identità nazionale non si realizza se non nell’apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi” (Esort. Ap. Ecclesia in Europa, n.112). Esprimo la mia fiducia che il Suo Paese contribuirà sempre di più a far progredire questo secolo verso la serenità, l’armonia e la pace.
Signor Presidente, cari amici, desidero ancora una volta esprimervi la mia gratitudine per questo incontro. Vi assicuro che non mancherò di pregare intensamente per la vostra bella Nazione, affinché Dio le conceda pace e prosperità, libertà e unità, uguaglianza e fraternità. Affido questi voti all’intercessione materna della Vergine Maria, Patrona principale della Francia. Che Dio benedica la Francia e tutti i Francesi!
La traduzione italiana del discorso pronunciato da Benedetto XVI inell’incontro con i rappresentanti della comunità ebraica presso la nunziatura apostolica di Parigi.
È con piacere, cari amici, che vi ricevo stasera. È circostanza felice che il nostro incontro si collochi alla vigilia della celebrazione settimanale dello shabbat, il giorno che da tempi immemorabili occupa un posto così rilevante nella vita religiosa e culturale del popolo d’Israele. Ogni pio ebreo santifica lo shabbat leggendo le Scritture e recitando i Salmi. Cari amici, voi lo sapete, anche la preghiera di Gesù era nutrita di Salmi. Egli si recava regolarmente al Tempio e alla sinagoga. Vi prese anche la parola in giorno di sabato. Volle lì sottolineare con quale bontà l’eterno Dio si prenda cura dell’uomo, anche nell’organizzazione del tempo. Il Talmud Yoma (85b) non dice forse: Il sabato è donato a voi, ma voi non siete donati al sabato? Cristo ha chiesto al popolo dell’Alleanza di riconoscere sempre l’inaudita grandezza e l’amore del Creatore di tutti gli uomini. Cari amici, a motivo di ciò che ci unisce e a motivo di ciò che ci separa, abbiamo una fratellanza da fortificare e da vivere. E sappiamo che i legami di fratellanza costituiscono un continuo invito a conoscersi meglio e a rispettarsi.
Per sua stessa natura la Chiesa cattolica si sente impegnata a rispettare l’Alleanza conclusa dal Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Essa pure infatti si situa nell’Allenza eterna dell’Onnipotente, i cui disegni sono senza pentimento, e rispetta i figli della Promessa, i figli dell’Alleanza, come suoi amati fratelli nella fede. Essa ripete con forza, attraverso la mia voce, le parole del grande Papa Pio XI, mio venerato predecessore: Spiritualmente, noi siamo semiti (Allocuzione a dei pellegrini del Belgio, 6. 09. 1938). La Chiesa perciò si oppone ad ogni forma di antisemitismo, di cui non v’è alcuna giustificazione teologica accettabile. Il teologo Henri de Lubac, in un’ora di tenebre, come diceva Pio XII (Summi Pontificatus, 20. 10. 1939), comprese che essere antisemiti significava anche essere anticristiani (cfr Un nuovo fronte religioso, pubblicato nel 1942 in: Israele e la Fede cristiana, p.136). Una volta ancora sento il dovere di rendere un commosso omaggio a coloro che sono morti ingiustamente e a coloro che si sono adoperati perché i nomi delle vittime restassero presenti nel ricordo. Dio non dimentica!
Non posso tralasciare, in un’occasione come questa, di richiamare il ruolo eminente svolto dagli Ebrei di Francia per l’edificazione dell’intera Nazione e il loro prestigioso apporto al suo patrimonio spirituale. Essi hanno donato e continuano a donare grandi figure al mondo della politica, della cultura, dell’arte. Formo voti rispettosi e pieni d’affetto all’indirizzo di ciascuno di loro e invoco con fervore su tutte le vostre famiglie e su tutte le vostre comunità una particolare Benedizione del Signore dei tempi e della storia. Shabbat shalom !
Il discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi alla presenza di settecento esponenti del pensiero, della scienza e delle arti di questo paese, così come i rappresentanti dell’Unesco e dell’Unione europea.
Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come i Signori Giscard d’Estaing e Chirac.
Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.
Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura.
Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo escatologico. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.
Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola.
Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.
I monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una creatività privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli orecchi del cuore le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi.
Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come la Scrittura, ma come le Scritture che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: Littera gesta docet quid credas allegoria (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: La lettera uccide, lo Spirito dà vita (2 Cor 3,6). E ancora: Dove c’è lo Spirito c’è libertà (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale.
Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione. Nella considerazione sulla scuola del servizio divino come Benedetto chiamava il monachesimo abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ ora. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col labora. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo.
Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento come abbiamo visto in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: Il Padre mio opera sempre e anch’io opero (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il costruire il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. Il Padre mio opera sempre e anch’io opero. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo.
Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione. Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare.
Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi (3, 15) (Logos, la Ragione della Speranza deve diventare apo-logia, la Parola deve diventare risposta).
Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti. Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano verso l’esterno agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: Sembra essere un annunziatore di divinità straniere (At 17, 18). A ciò Paolo replica: Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve eserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio. La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
La traduzione italiana del discorso pronunciato in francese da Benedetto XVI durante la celebrazione dei Vespri con i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i seminaristi e i diaconi nella Cattedrale di Notre-Dame di Parigi.
Sia benedetto Dio che ci permette di ritrovarci in un luogo così caro al cuore dei Parigini, ma anche di tutti i Francesi! Benedetto sia Dio, che ci dà la grazia di offrirGli l’omaggio della nostra preghiera vespertina, per elevarGli la lode che Egli merita con le parole che la liturgia della Chiesa ha ereditato dalla liturgia sinagogale, praticata da Cristo e dai suoi primi discepoli! Sì, sia benedetto Dio che viene in nostro aiuto in adiutorium nostrum per aiutarci a far salire verso di Lui l’offerta del sacrificio delle nostre labbra! Eccoci nella chiesa-madre della diocesi di Parigi, la cattedrale di Notre-Dame, che s’innalza nel cuore della città come segno vivo della presenza di Dio in mezzo agli uomini. Il mio Predecessore Alessandro III ne pose la prima pietra, i Papi Pio VII e Giovanni Paolo II l’onorarono della loro visita, ed io stesso sono lieto di mettermi al loro seguito, dopo esservi venuto un quarto di secolo fa per pronunciarvi una conferenza sulla catechesi. È difficile non rendere grazie a Colui che ha creato la materia come anche lo spirito, per la bellezza dell’edificio che ci riunisce. I cristiani di Lutezia avevano già costruito una cattedrale dedicata a santo Stefano, primo martire, ma essa divenne poi troppo piccola e fu progressivamente sostituita, tra il XII e il XIV secolo, con quella che ammiriamo ai nostri giorni.
La fede del Medio Evo ha edificato le cattedrali, e i vostri antenati sono venuti qui per lodare Dio, affidarGli le proprie speranze e dirGli il loro amore. Grandi eventi religiosi e civili si sono svolti in questo santuario, dove gli architetti, i pittori, gli scultori e i musicisti hanno dato il meglio di se stessi. Basti ricordare, fra molti altri, i nomi dell’architetto Jean de Chelles, del pittore Charles Le Brun, dello scultore Nicolas Coustou e degli organisti Louis Vierne e Pierre Cochereau. L’arte, cammino verso Dio, e la preghiera corale, lode della Chiesa al Creatore, hanno aiutato Paul Claudel, qui giunto per assistere ai Vespri del giorno di Natale 1886, a trovare il cammino verso un’esperienza personale di Dio. È significativo che Dio abbia illuminato la sua anima precisamente durante il canto del Magnificat, nel quale la Chiesa ascolta il canto della Vergine Maria, santa Patrona di questi luoghi, che ricorda al mondo che l’Onnipotente ha esaltato gli umili (cfr Lc 1,52). Teatro di conversioni meno conosciute, ma tuttavia non meno reali, pulpito dove predicatori del Vangelo, come i Padri Lacordaire, Monsabré e Samson, hanno saputo trasmettere la fiamma della propria passione alle più svariate assemblee di ascoltatori, la Cattedrale di Notre-Dame resta a giusto titolo uno dei monumenti più celebri del patrimonio del vostro Paese. Le reliquie della Vera Croce e della Corona di spine, che ho appena venerato come è consuetudine da san Luigi in poi, vi hanno oggi trovato un degno scrigno, che costituisce l’offerta dello spirito degli uomini all’Amore creatore.
Sotto le volte di questa storica Cattedrale, testimone dell’incessante scambio che Dio ha voluto stabilire fra gli uomini e se stesso, la Parola è appena risuonata per essere la materia del nostro sacrificio della sera, sottolineato dall’offerta dell’incenso che rende visibile la nostra lode a Dio. Provvidenzialmente, le parole del Salmista descrivono l’emozione della nostra anima con una precisione che non avremmo osato immaginare: Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!’ (Sal 121, 1). Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi: la gioia del Salmista, racchiusa nelle parole stesse del Salmo, si diffonde nei nostri cuori e vi suscita un’eco profonda. La nostra gioia è di recarci alla casa del Signore perché, come ci hanno insegnato i Padri, questa casa non è altro che il simbolo concreto della Gerusalemme dall’alto, quella che discende verso di noi (cfr Ap 21,2) per offrirci la più bella delle dimore. Se vi soggiorniamo scrive sant’Ilario di Poitier siamo concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, poiché è la casa di Dio (Tract. in Psal. 121,2). E sant’Agostino rincara: Questo Salmo aspira alla Gerusalemme celeste È un cantico dei gradini, che non sono fatti per gente che discende, ma che sale Nel nostro esilio sospiriamo,nella patria godremo; ma intanto durante l’esilio incontriamo dei compagni che hanno già visto la città santa e ci invitano a correre verso di essa (Enarr. in Psal. 121, 2).
Cari amici, durante questi Vespri noi ci uniamo col pensiero e nella preghiera alle innumerevoli voci di quanti, uomini e donne, hanno cantato questo Salmo proprio qui, prima di noi, nel corso di secoli e secoli. Ci uniamo a questi pellegrini che salivano verso la Gerusalemme e i gradini del suo Tempio, ci uniamo alle migliaia di uomini e donne che hanno capito che il loro pellegrinaggio sulla terra avrebbe trovato il suo traguardo nel cielo, nella Gerusalemme eterna, e che si sono fidati di Cristo per riuscire ad arrivarvi. Quale gioia, in realtà, il saperci attorniati in maniera invisibile da una tale folla di testimoni! Il nostro cammino verso la Città santa non sarebbe possibile, se non lo si facesse nella Chiesa, germe e prefigurazione della Gerusalemme dall’alto. Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori (Sal 126,1). Chi altri è questo Signore, se non il Signore nostro Gesù Cristo? È Lui che ha fondato la Chiesa, che l’ha costruita sulla roccia, sulla fede dell’apostolo Pietro. Come dice ancora sant’Agostino, è Gesù Cristo stesso, Signore nostro, ad edificare la sua casa. Molti si affaticano a costruire, ma se non interviene Lui a costruire, invano faticano i costruttori (Enarr. in Psal. 126,2). Ora, cari amici, Agostino si pone la domanda su quali siano questi lavoratori; e lui stesso si dà la risposta: Coloro che nella Chiesa predicano la Parola di Dio, tutti i ministri dei divini Sacramenti. Tutti corriamo, tutti lavoriamo, tutti edifichiamo; ma è Dio soltanto che, in noi, edifica, che esorta e incute timore, che apre l’intelletto e volge alla fede il vostro sentire(ibid.). Quale meraviglia riveste la nostra azione al servizio della Parola divina! Siamo gli strumenti dello Spirito; Dio ha l’umiltà di passare attraverso di noi per diffondere la sua Parola. Diveniamo la sua voce, dopo aver teso l’orecchio verso la sua bocca. Poniamo la sua Parola sulle nostre labbra per darla al mondo. L’offerta della nostra preghiera è da Lui gradita e serve a Lui per comunicarsi a quanti incontriamo. In verità, come dice Paolo agli Efesini: Ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo (1,3), poiché ci ha scelti per essere suoi testimoni fino all’estremità della terra e ci ha eletti prima ancora del nostro concepimento attraverso un dono misterioso della sua grazia.
La sua Parola, il Verbo, che da sempre era presso di Lui (cfr Gv 1,1), è nato da una Donna, è nato sotto alla Legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli (Gal 4,4-5). Il Figlio di Dio ha preso carne nel seno di una Donna, di una Vergine. La vostra cattedrale è un inno vivente di pietra e di luce a lode di questo atto unico della storia dell’umanità: la Parola eterna di Dio che entra nella storia degli uomini nella pienezza dei tempi per riscattarli mediante l’offerta di se stesso nel sacrificio della Croce. Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!
Sin d’ora, la Parola di Dio ci è donata per essere l’anima del nostro apostolato, l’anima della nostra vita di sacerdoti. Ogni mattina la Parola ci risveglia. Ogni mattina il Signore stesso ci apre l’orecchio (Is 50,5) con i salmi dell’Ufficio delle letture e delle Lodi. Lungo l’intero arco della giornata, la Parola di Dio diviene materia della preghiera di tutta la Chiesa, la quale vuol così testimoniare la propria fedeltà a Cristo. Secondo la celebre formula di san Girolamo, che sarà ripresa nel corso della XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel prossimo mese di ottobre: Ignorare le Scritture è ignorare Cristo (Prologo del Commento a Isaia). Cari fratelli sacerdoti, non abbiate paura di consacrare una parte considerevole del vostro tempo alla lettura, alla meditazione della Scrittura e alla preghiera dell’Ufficio Divino! Quasi a vostra insaputa la Parola letta e meditata nella Chiesa agisce in voi e vi trasforma. Come manifestazione della Sapienza di Dio, se essa diviene la compagna della vostra vita, essa sarà vostra consigliera di buone azioni, vostro conforto nelle preoccupazioni e nel dolore (Sap 8,9).
La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, come scrive l’autore della Lettera agli Ebrei (4,12). A voi, cari seminaristi, che vi preparate a ricevere il sacramento dell’Ordine, al fine di partecipare al triplice compito di insegnare, reggere e santificare, questa Parola viene consegnata come un bene prezioso. Grazie ad essa, che voi meditate quotidianamente, entrate nella vita stessa di Cristo che sarete chiamati a diffondere attorno a voi. Attraverso la sua parola, il Signore Gesù ha istituito il santo Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue; con la sua parola, ha guarito i malati, cacciato i demoni, perdonato i peccati; mediante la sua parola ha rivelato agli uomini i misteri nascosti del Regno. Voi siete destinati a diventare depositari di questa Parola efficace, che compie ciò che dice. Trattenete sempre in voi il gusto della Parola di Dio! Imparate, grazie ad essa, ad amare tutti coloro che si troveranno lungo la vostra strada. Nessuno è di troppo nella Chiesa, nessuno! Tutti possono e devono trovarvi il proprio posto. E voi, cari diaconi, che siete collaboratori efficaci dei Vescovi e dei sacerdoti, continuate ad amare la Parola di Dio: voi proclamate il Vangelo nel cuore della celebrazione eucaristica; lo commentate nella catechesi rivolte ai vostri fratelli e alle vostre sorelle: ponetelo al centro della vostra vita, del servizio al prossimo, della vostra intera diaconia. Senza cercare di prendere il posto dei sacerdoti, ma aiutandoli con amicizia ed efficienza, sappiate essere testimoni vivi della infinita potenza della Parola divina!
A titolo particolare, i religiosi, le religiose e tutte le persone consacrate vivono della Sapienza di Dio, espressa mediante la sua Parola. La professione dei consigli evangelici vi ha configurato, cari consacrati, a Colui che, per noi, si è fatto povero, obbediente e casto. La vostra unica ricchezza la sola, a dire il vero, che supererà i secoli e il velo della morte è proprio la Parola del Signore. Lui stesso ha detto: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (Mt 24,35). La vostra obbedienza è, etimologicamente, un ascolto, dato che la parola obbedire viene dal latino ob-audire, che significa tendere l’orecchio verso qualcosa o qualcuno. Obbedendo, voi volgete l’anima verso Colui che è la Via, la Verità e la Vita (cfr Gv 14,6) e che vi dice, come Benedetto insegnava ai suoi monaci: Ascolta, figlio, le istruzioni del maestro e presta l’orecchio del tuo cuore (Prologo della Regola). Infine, lasciatevi purificare ogni giorno da Colui che ci ha detto: Ogni tralcio che porta frutto, [il Padre] lo pota perché porti più frutto (Gv 15,2). La purezza della Parola di Dio è il modello della vostra stessa castità; ne garantisce la fecondità spirituale. Con fiducia indefettibile nella potenza di Dio che ci ha redenti nella speranza (cfr Rm 8,24) e che vuol fare di noi un solo gregge sotto la guida di un solo pastore, Cristo Gesù, prego per l’unità della Chiesa. Saluto nuovamente con rispetto ed affetto i rappresentanti delle Chiese cristiane e delle Comunità ecclesiali, venuti a pregare fraternamente i Vespri con noi in questa cattedrale. La potenza della Parola di Dio è tale che possiamo tutti essere affidati ad essa, come a suo tempo fece san Paolo, nostro intercessore privilegiato in quest’anno. Prendendo congedo a Mileto dagli anziani della città di Efeso, non esitava ad affidarli a Dio ed al suo messaggio di grazia (At 20,32), mettendoli in guardia contro ogni forma di divisione. È il senso di questa unità della Parola di Dio, segno, pegno e garanzia dell’unità della Chiesa, che chiedo ardentemente al Signore di far crescere in noi: non vi è amore nella Chiesa senza amore alla Parola, non vi è Chiesa senza unità attorno a Cristo Redentore, non vi sono frutti di redenzione senza amore a Dio e al prossimo, secondo i due comandamenti che riassumono tutta la Sacra Scrittura!
Cari fratelli e sorelle, in Maria Santissima noi abbiamo il più bell’esempio di fedeltà alla Parola divina. Questa fedeltà fu tale da compiersi in Incarnazione: Ecco la serva del Signore; avvenga in me secondo la tua parola! (Lc 1,38), disse Ella con fiducia assoluta. La nostra preghiera della sera riprende il Magnificat di Colei che tutte le generazioni diranno beata, poiché ha creduto nel compimento delle parole che le erano state dette da parte del Signore (cfr Lc 1,45); ella ha sperato contro ogni speranza nella risurrezione del Figlio suo; ha amato l’umanità al punto di essere data ad essa quale Madre (cfr Gv 19,27). Maria nella Parola di Dio è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio (Enc. Deus caritas est, 41). Possiamo dirle con serenità: Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! (Enc. Spe salvi, 50). Amen.
Il discorso pronunciato da Benedetto XVI in occasione della veglia di preghiera dei giovani sul sagrato della Cattedrale di Notre-Dame di Parigi (originale in francese).
Sydney ha fatto riscoprire a molti giovani l’importanza dello Spirito Santo, nella nostra vita, nella vita del cristiano. Lo Spirito ci mette intimamente in rapporto con Dio, presso il quale si trova la sorgente d’ogni ricchezza umana autentica. Tutti voi cercate di amare e di essere amati! È verso Dio che voi dovete volgervi per imparare ad amare e per avere la forza di amare. Lo Spirito, che è Amore, può aprire i vostri cuori per ricevere il dono dell’amore autentico. Tutti voi cercate la verità e volete viverne, viverne realmente! Questa verità è Cristo. Egli è la sola Via, l’unica Verità e la vera Vita. Seguire Cristo significa veramente prendere il largo, come dicono diverse volte i Salmi. La strada della Verità è una e nello stesso tempo molteplice, secondo i diversi carismi, come la Verità è una e nello stesso tempo di una ricchezza inesauribile. Affidatevi allo Spirito Santo per scoprire Cristo. Lo Spirito è la guida necessaria per la preghiera, l’anima della nostra speranza e la sorgente della vera gioia.
Per approfondire queste verità di fede, vi incoraggio a meditare la grandezza del Sacramento della Confermazione che avete ricevuto e che vi introduce in una vita di fede adulta. È urgente comprendere sempre meglio questo sacramento per verificare la qualità e la profondità della vostra fede e per rafforzarla. Lo Spirito Santo vi fa avvicinare al Mistero di Dio e vi fa comprendere chi è Dio. Egli vi invita a vedere nel vostro prossimo il fratello che Dio vi ha donato per vivere in comunione con lui, umanamente e spiritualmente, per vivere nella Chiesa dunque. Nel rivelarvi chi è il Cristo morto e risuscitato per noi, Egli vi spinge a testimoniare. Voi siete nell’età della generosità. È urgente parlare di Cristo attorno a voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici, nei vostri luoghi di studio, di lavoro o di divertimento.
Non abbiate paura! Abbiate il coraggio di vivere il Vangelo e l’audacia di proclamarlo (Messaggio ai giovani del mondo, 20 luglio 2007). Per questo io vi incoraggio a trovare le parole adatte per annunciare Dio intorno a voi, poggiando la vostra testimonianza sulla forza dello Spirito implorata nella preghiera. Portate la Buona Novella ai giovani della vostra età e anche agli altri. Essi conoscono le turbolenze degli affetti, la preoccupazione e l’incertezza di fronte al lavoro ed agli studi. Affrontano sofferenze e fanno l’esperienza di gioie uniche.
Rendete testimonianza di Dio, perché, in quanto giovani, voi fate pienamente parte della comunità cattolica in virtù del vostro battesimo e in ragione della comune professione di fede (cfr. Ef 4, 5). La Chiesa conta su di voi, ci tengo a dirvelo! In questo anno dedicato a san Paolo, vorrei affidarvi un secondo tesoro, che era al centro della vita di questo Apostolo affascinante: si tratta del mistero della Croce. Domenica, a Lourdes, celebrerò la festa della Croce Gloriosa unendomi ad innumerevoli pellegrini. Molti di voi portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo. San Paolo parla chiaramente della Croce all’inizio della sua Prima Lettera ai Corinzi. A Corinto, viveva una comunità agitata e turbolenta che era esposta ai pericoli della corruzione presente nell’ambiente. Questi pericoli sono simili a quelli che conosciamo oggigiorno. Non citerò che i seguenti: le discussioni e le contese all’interno della comunità dei credenti, la seduzione esercitata dalle pseudo-sapienze religiose o filosofiche, la superficialità della fede e la morale dissoluta. San Paolo inizia la sua lettera scrivendo: La parola della Croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio (1 Cor 1, 18). Poi l’Apostolo mostra l’opposizione singolare che esiste fra la sapienza e la follia, secondo Dio e secondo gli uomini.
Lo Spirito apre all’intelligenza umana nuovi orizzonti che la superano e le fa capire che l’unica vera sapienza risiede nella grandezza di Cristo. Per i cristiani la Croce è simbolo della sapienza di Dio e del suo amore infinito rivelatosi nel dono salvifico di Cristo morto e risorto per la vita del mondo, per la vita di ciascuno e di ciascuna di voi in particolare. Possa questa scoperta sconvolgente di Dio che si è fatto uomo per amore invitarvi a rispettare e a venerare la Croce! Essa è non soltanto il segno della vostra vita in Dio e della vostra salvezza, ma è anche voi lo comprendete la testimone muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo l’espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze. Cari giovani, io so che venerare la Croce attira a volte la derisione e anche la persecuzione.
La Croce mette in questione in qualche modo la sicurezza umana, ma rende sicura, anche e soprattutto, la grazia di Dio e conferma la nostra salvezza. Questa sera, io vi affido la Croce di Cristo. Lo Spirito Santo ve ne farà comprendere i misteri d’amore e voi esclamerete allora con san Paolo: Quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce del nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo (Gal 6, 14). Paolo aveva capito la parola di Gesù apparentemente paradossale – secondo cui solo donando (perdendo) la propria vita la si può trovare (cfr Mc 8,35; Gv 12,24) e ne aveva concluso che la Croce esprime la legge fondamentale dell’amore, la formula perfetta della vera vita. Possa l’approfondimento del mistero della Croce far scoprire ad alcuni fra voi la chiamata a servire Cristo in maniera più totale nella vita sacerdotale o religiosa!
È tempo ora di cominciare la veglia di preghiera, per la quale vi siete raccolti stasera. Non dimenticate i due tesori che il Papa vi ha presentato stasera: lo Spirito Santo e la Croce! Vorrei, per concludere, dirvi ancora una volta che io conto su di voi, cari giovani, e desidererei che voi faceste esperienza oggi e domani della stima e dell’affetto della Chiesa, e il mondo vedrà così la Chiesa vivente! Che Dio vi accompagni ogni giorno e benedica voi insieme con le vostre famiglie e i vostri amici. Ben volentieri imparto a voi la Benedizione Apostolica, così come a tutti i giovani della Francia.
* * *
Dopo cena, Benedetto XVI si è affaccia dal balcone della Nunziatura Apostolica per un breve saluto ai fedeli radunati davanti alla residenza pontificia. Ecco di seguito la traduzione italiana delle parole di saluto del Papa:
Cari giovani,
la vostra accoglienza così calorosa commuove il Papa! Grazie di aver voluto attendermi qui malgrado l’ora tarda e in modo così entusiastico!
Le prossime giornate a Parigi e a Lourdes mi procurano già molta gioia. Rendo grazie al Signore che mi ha concesso di realizzare questo primo viaggio pastorale in Francia come Successore di Pietro e di trovare presso i fedeli una risposta così incoraggiante.
Sono felice di unirmi domani alla folla dei pellegrini di Lourdes per celebrare il Giubileo delle Apparizioni della Vergine. I cattolici in Francia hanno più che mai bisogno di rinnovare la loro fiducia in Maria, riconoscendo in Lei il modello del loro impegno a servizio del Vangelo. Ma prima della mia partenza per Lourdes, vi attendo tutti domani mattina per la celebrazione della Eucaristia su l’ Esplanade des Invalides.
Conto su di voi e sulle vostre preghiere, perché questo viaggio porti frutti. Che la Vergine Maria vi protegga! Con grande affetto vi imparto la Benedizione Apostolica.
Buona notte, e a domani!
La traduzione italiana del saluto di Benedetto XVI durante la visita all’Institut de France di Parigi, istituzione che riunisce eminenti rappresentanti di tutti gli ambiti del sapere e che comprende cinque Accademie: Académie française, Académie des inscriptions et belles lettres, Académie des sciences, Académie des beaux-arts e Académie des sciences morales et politiques. Nel corso della visita il Papa ha apposto la Sua firma sul Libro d’oro, con la dedica: «
Signor Cancelliere,
Signora e Signori Segretari perpetui delle Cinque Accademie,
Signori Cardinali,
cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Amici Accademici, Signore e Signori!
È per me un grande onore essere ricevuto stamane sotto la Cupola. Vi ringrazio per le espressioni piene di gentilezza con cui mi avete accolto e per la medaglia che avete voluto offrirmi. Non potevo venire a Parigi senza salutarvi personalmente. È un piacere per me profittare di questa felice occasione per sottolineare i vincoli profondi che mi legano alla cultura francese, per la quale provo una grande ammirazione. Nel mio percorso intellettuale il contatto con la cultura francese ha avuto una particolare importanza. Colgo quindi volentieri l’occasione per esprimere la mia gratitudine verso di essa, sia a titolo personale che come Successore di Pietro. La targa che abbiamo appena scoperta conserverà il ricordo del nostro incontro.
Rabelais, al tempo suo, affermava molto giustamente: «Scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima!» (Pantagruel, 8). E’ stato senza dubbio per contribuire ad evitare il rischio di una simile dicotomia che, alla fine di gennaio, per la prima volta in tre secoli e mezzo, due Accademie dell’Istituto, due Accademie Pontificie e l’Institut Catholique di Parigi hanno organizzato un Colloquio inter-accademico su l’identità mutevole dell’individuo. Il Colloquio ha illustrato l’interesse che presentano larghe ricerche pluridisciplinari. Questa iniziativa potrebbe proseguire al fine di esplorare insieme gli innumerevoli sentieri delle scienze umane e sperimentali. Questo auspicio è accompagnato dalla preghiera che elevo verso il Signore per voi, per le persone che vi sono care e per tutti i membri delle Accademie, così come per tutto il personale dell’Institut de France. Che Dio vi benedica.
La traduzione italiana dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la Celebrazione Eucaristica all’Esplanade des Invalides di Parigi, per i fedeli dell’Île de France.
Signor Cardinale Vingt-Trois,
Signori Cardinali e cari Fratelli nell’Episcopato,
fratelli e sorelle in Cristo,
Gesù Cristo ci raccoglie in questo mirabile luogo, nel cuore di Parigi, in questo giorno in cui la Chiesa universale festeggia san Giovanni Crisostomo, uno dei suoi più grandi Dottori, che, con la sua testimonianza di vita e il suo insegnamento, ha mostrato efficacemente ai cristiani la via da seguire. Saluto con gioia tutte le Autorità che mi hanno accolto in questo nobile città, in modo particolare il Cardinale André Vingt-Trois, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi. Saluto anche tutti i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi che mi circondano per la celebrazione del Sacrificio di Cristo. Ringrazio tutte le Personalità, in particolare il Signor Primo Ministro, che hanno voluto essere presenti qui stamane; le assicuro della mia preghiera fervente per il compimento della loro alta missione a servizio dei loro concittadini.
La prima Lettera di san Paolo, indirizzata ai Corinzi, ci fa scoprire, in quest’anno paolino, aperto il 28 giugno scorso, quanto i consigli dati dall’Apostolo restino attuali. “Fuggite l’idolatria” (1 Cor 10, 14), scrive ad una comunità molto segnata dal paganesimo e divisa tra l’adesione alla novità del Vangelo e l’osservanza delle antiche pratiche ereditate dagli avi. Fuggire gli idoli, questo allora voleva dire cessare di onorare le divinità dell’Olimpo, cessare di offrire loro sacrifici cruenti. Fuggire gli idoli, era mettersi alla scuola dei profeti dell’Antico Testamento, che denunciavano la tendenza dello spirito umano a forgiarsi delle false rappresentazioni di Dio. Come dice il Salmo 113 a proposito delle statue degli idoli, esse non sono che “argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano” (vv. 4-5). A parte il popolo d’Israele che aveva ricevuto la rivelazione del Dio unico, il mondo antico era asservito al culto degli idoli. Molto presenti a Corinto, gli errori del paganesimo dovevano essere denunciati, perché costituivano una potente alienazione e distoglievano l’uomo dal suo vero destino. Essi gli impedivano di riconoscere che Cristo è il solo e vero Salvatore, il solo che indica all’uomo la strada verso Dio.
Questo invito a fuggire gli idoli resta valido anche oggi. Il mondo contemporaneo non si è forse creato i propri idoli? Non ha forse imitato, magari a sua insaputa, i pagani dell’antichità, distogliendo l’uomo dal suo vero fine, dalla felicità di vivere eternamente con Dio? È questa una domanda che ogni uomo, onesto con se stesso, non può non porsi. Che cosa è importante nella mia vita? Che cosa metto io al primo posto? La parola “idolo” deriva dal greco e significa “immagine“, “figura“, “rappresentazione“, ma anche “spettro“, “fantasma“, “vana apparenza“. L’idolo è un inganno, perché distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza. Ora, non è questa una tentazione propria della nostra epoca, che è la sola sulla quale noi possiamo agire efficacemente? Tentazione d’idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze; tentazione d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sole sue forze, possa realizzare la felicità eterna sulla terra! San Paolo spiega ai Colossesi che la cupidigia insaziabile è una idolatria (cfr 3, 5), e ricorda al suo discepolo Timoteo che la brama del denaro è la radice di tutti i mali. Per essercisi abbandonati, precisa, “alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori” (1 Tm 6, 10). Il denaro, la sete dell’avere, del potere e persino del sapere non hanno forse distolto l’uomo dal suo Fine vero dalla sua propria verità?
Cari fratelli e sorelle, la questione che ci pone la liturgia di questo giorno trova la risposta in questa stessa liturgia, che noi abbiamo ereditato dai nostri Padri nella fede, e in particolare da san Paolo stesso (cfr 1 Cor 11, 23). Nel suo commento a questo testo san Giovanni Crisostomo fa rilevare che san Paolo condanna severamente l’idolatria come una “colpa grave“, uno “scandalo“, una vera “peste” (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinzi, 1). Egli aggiunge immediatamente che questa condanna radicale dell’idolatria non è in alcun caso una condanna della persona dell’idolatra. Mai, nei nostri giudizi, dobbiamo confondere il peccato, che è inaccettabile, e il peccatore del quale non possiamo giudicare lo stato di coscienza e che, in ogni caso, è sempre suscettibile di conversione e di perdono. San Paolo si appella in questo alla ragione dei suoi lettori: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico” (1 Cor 10, 15). Mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione! Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede! L’unico Dio Padre, Figlio e Spirito Santo ha creato la nostra ragione e ci dona la fede, proponendo alla nostra libertà di riceverla come un dono prezioso. È il culto degli idoli che distoglie l’uomo da questa prospettiva, e la ragione stessa può forgiarsi degli idoli. Domandiamo, dunque, a Dio che ci vede e ci ascolta di aiutarci a purificarci da tutti gli idoli, per accedere alla verità del nostro essere, per accedere alla verità del suo Essere infinito!
Come giungere a Dio? Come giungere a trovare o ritrovare Colui che l’uomo cerca nel più profondo di se stesso, pur dimenticandolo così sovente? San Paolo ci domanda di fare uso non solamente della nostra ragione, ma soprattutto della nostra fede per scoprirlo. Ora, che cosa ci dice la fede? Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell’Eucaristia la sera del Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant’Agostino, “più intimo a noi che noi medesimi” (cfr Confess. III, 6.11).
Fratelli e sorelle, circondiamo della più grande venerazione il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Santissimo Sacramento della presenza reale del Signore alla sua Chiesa e all’intera umanità. Non trascuriamo nulla per manifestarGli il nostro rispetto ed il nostro amore! DiamoGli i più grandi segni d’onore! Mediante le nostre parole, i nostri silenzi e i nostri gesti, non accettiamo mai che in noi ed intorno a noi si appanni la fede nel Cristo risorto, presente nell’Eucaristia. Come dice magnificamente lo stesso san Giovanni Crisostomo: “Passiamo in rassegna gli ineffabili benefici di Dio e tutti i beni di cui Egli ci fa gioire, quando noi gli offriamo questo calice, quando noi ci comunichiamo, ringraziandolo di aver liberato il genere umano dall’errore, di aver avvicinato a sé coloro che se ne erano allontanati, di aver fatto di disperati e di atei di questo mondo un popolo di fratelli, di coeredi del Figlio di Dio” (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinzi, 1). In effetti, egli prosegue, “ciò che è nel calice è precisamente ciò che è colato dal suo costato ed è a questo che noi partecipiamo” (ibid.). Non c’è soltanto partecipazione e condivisione, c’è anche “unione“, egli ci dice.
La Messa è il sacrificio d’azione di grazie per eccellenza, quello che ci permette d’unire la nostra azione di grazie a quella del Salvatore, il Figlio eterno del Padre. In se stessa la Messa ci invita anche a fuggire gli idoli, perché, è san Paolo ad insistervi, “non potete bere il calice del Signore ed il calice dei demoni” (1 Cor 10, 21). La Messa ci invita a discernere ciò che, in noi, obbedisce allo Spirito di Dio e ciò che, in noi, resta in ascolto dello spirito del male. Nella Messa noi non vogliamo appartenere che al Cristo e riprendiamo con gratitudine con “azione di grazie” il grido del Salmista: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato” (Sal 116, 12). Sì, come rendere grazie al Signore per la vita che Egli mi ha donato? La risposta alla domanda del Salmista si trova nel Salmo stesso, perché la Parola di Dio risponde misericordiosamente essa stessa alle domande che pone. Come rendere grazie al Signore per tutto il bene che Egli ci fa, se non attenendoci alle stesse sue parole: “Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 116, 13)?
Alzare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore non è forse precisamente il mezzo migliore di “fuggire gli idoli“, come ci chiede san Paolo? Ogni volta che una Messa è celebrata, ogni volta che il Cristo si rende sacramentalmente presente nella sua Chiesa, è l’opera della nostra salvezza che si compie. Celebrare l’Eucaristia significa perciò riconoscere che Dio solo è in grado di donarci la felicità in pienezza, di insegnarci i veri valori, i valori eterni che non conosceranno mai tramonto. Dio è presente sull’altare, ma Egli è pure presente sull’altare del nostro cuore quando, comunicandoci, noi lo riceviamo nel Sacramento eucaristico. Lui solo ci insegna a fuggire gli idoli, miraggi del pensiero.
Ora, cari fratelli e sorelle, chi può elevare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore per conto dell’intero popolo di Dio, se non il sacerdote ordinato per questo scopo dal Vescovo? Qui, cari abitanti di Parigi e della regione parigina, ma anche voi tutti che siete venuti dall’intera Francia e da altri Paesi confinanti, permettetemi di lanciare un appello pieno di fiducia nella fede e nella generosità dei giovani, che si pongono la domanda sulla vocazione religiosa o sacerdotale: Non abbiate paura! Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo! Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo! Cari giovani o meno giovani che mi ascoltate, non lasciate senza risposta la chiamata di Cristo. San Giovanni Crisostomo, nel suo Trattato sul sacerdozio, ha mostrato quanto la risposta dell’uomo possa essere lenta a venire, ma egli è l’esempio vivente dell’azione di Dio su una libertà umana che si lascia modellare dalla sua grazia.
Infine, se riprendiamo le parole che Cristo ci ha lasciato nel suo Vangelo, vedremo che Egli in persona ci ha insegnato a fuggire l’idolatria, invitandoci a costruire la nostra casa “sulla roccia” (Lc 6, 48). Chi è questa roccia, se non Lui stesso? I nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni non acquistano la loro vera dimensione che se le riferiamo al messaggio del Vangelo: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6, 45). Quando parliamo, cerchiamo noi il bene del nostro interlocutore? Quando pensiamo, cerchiamo di mettere il nostro pensiero in sintonia con il pensiero di Dio? Quando agiamo, cerchiamo di diffondere l’Amore che ci fa vivere? San Giovanni Crisostomo dice ancora: “Ora, se noi partecipiamo tutti del medesimo pane e se tutti diveniamo questa stessa sostanza, perché non mostriamo la medesima carità? Perché, per la stessa ragione, non diventiamo un unico tutt’uno? O uomo, è il Cristo che è venuto a cercarti, a cercare te che eri così lontano da lui, per unirsi a te; e tu non ti vuoi unire al tuo fratello?” (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinti, 2).
La speranza resterà sempre la più forte! La Chiesa, costruita sulla roccia di Cristo, possiede le promesse della vita eterna non perché i suoi membri siano più santi degli altri uomini, ma perché Cristo ha fatto questa promessa a Pietro: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”(Mt 16, 18). In questa speranza indefettibile nella presenza eterna di Dio in ciascuna delle nostre anime, in questa gioia di sapere che Cristo è con noi fino alla fine dei tempi, in questa forza che lo Spirito dona a tutti gli uomini e a tutte le donne che accettano di lasciarsi afferrare da Lui, io vi affido, cari cristiani di Parigi e di Francia all’azione potente e misericordiosa del Dio d’amore che è morto per noi sulla Croce e risorto vittoriosamente al mattino di Pasqua. A tutti gli uomini di buona volontà che mi ascoltano, io ridico con san Paolo: Fuggite il culto degli idoli, non smettete di fare il bene!
Che Dio nostro Padre vi attragga a sé e faccia brillare su di voi lo splendore della sua gloria! Che il Figlio unico di Dio, nostro Maestro e nostro Fratello, vi riveli la bellezza del suo volto di Risorto! Che lo Spirito Santo vi colmi dei suoi doni e vi dia la gioia di conoscere la pace e la luce della Santissima Trinità, ora e nei secoli dei secoli! Amen.
Traduzione italiana dell’omelia pronunciata in francese da Benedetto XVI nel presiedere a Lourdes la Santa Messa per il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine.
Andate a dire ai sacerdoti che si venga qui in processione e che si costruisca una cappella. È il messaggio che Bernadette ricevette dalla bella Signora nell’apparizione del 2 marzo 1858. Da 150 anni i pellegrini non hanno mai cessato di venire alla grotta di Massabielle per ascoltare il messaggio di conversione e di speranza che è loro rivolto. Ed anche noi, eccoci qui stamane ai piedi di Maria, la Vergine Immacolata, per metterci alla sua scuola con la piccola Bernadette. Ringrazio in modo particolare Mons. Jacques Perrier, Vescovo di Tarbes e Lourdes, per la calorosa accoglienza che mi ha riservato e per le parole gentili che mi ha rivolto. Saluto i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose, così come tutti voi, cari pellegrini di Lourdes, in special modo i malati. Siete venuti in grande numero a compiere questo pellegrinaggio giubilare con me e ad affidare le vostre famiglie, i vostri parenti ed amici, e tutte le vostre intenzioni a Nostra Signora. La mia riconoscenza va anche alle Autorità civili e militari, che hanno voluto essere presenti a questa Celebrazione eucaristica.
Quale mirabile cosa è mai il possedere la Croce! Chi la possiede, possiede un tesoro! (Sant’Andrea di Creta, Omelia X per l’Esaltazione della Croce: PG 97, 1020). In questo giorno in cui la liturgia della Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della santa Croce, il Vangelo che avete appena inteso ci ricorda il significato di questo grande mistero: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché gli uomini siano salvati (cfr Gv 3,16). Il Figlio di Dio s’è reso vulnerabile, prendendo la condizione di servo, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce /cfr Fil 2,8). E’ per la sua Croce che siamo salvati. Lo strumento di supplizio che, il Venerdì Santo, aveva manifestato il giudizio di Dio sul mondo, è divenuto sorgente di vita, di perdono, di misericordia, segno di riconciliazione e di pace. Per essere guariti dal peccato, guardiamo il Cristo crocifisso! diceva sant’Agostino (Tract. in Johan.,XII,11). Sollevando gli occhi verso il Crocifisso, adoriamo Colui che è venuto per prendere su di sé il peccato del mondo e donarci la vita eterna. E la Chiesa ci invita ad elevare con fierezza questa Croce gloriosa affinché il mondo possa vedere fin dove è arrivato l’amore del Crocifisso per gli uomini, per noi uomini. Essa ci invita a rendere grazie a Dio, perché da un albero che aveva portato la morte è scaturita nuovamente la vita. È su questo legno che Gesù ci rivela la sua sovrana maestà, ci rivela che Egli è esaltato nella gloria. Sì, Venite, adoriamolo!.
In mezzo a noi si trova Colui che ci ha amati fino a donare la sua vita per noi, Colui che invita ogni essere umano ad avvicinarsi a Lui con fiducia. E’ questo grande mistero che Maria ci affida anche stamane, invitandoci a volgerci verso il Figlio suo. In effetti, è significativo che, al momento della prima apparizione a Bernadette, Maria introduca il suo incontro col segno della Croce. Più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede che Bernadette riceve da Maria. Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati; ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. E’ questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare qui, a Lourdes. Essa invita tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che soffrono nel cuore o nel corpo, ad alzare gli occhi verso la Croce di Gesù per trovarvi la sorgente della vita, la sorgente della salvezza. La Chiesa ha ricevuto la missione di mostrare a tutti questo viso di un Dio che ama, manifestato in Gesù Cristo. Sapremo noi comprendere che nel Crocifisso del Golgota è la nostra dignità di figli di Dio, offuscata dal peccato, che ci è resa? Volgiamo i nostri sguardi verso il Cristo. È Lui che ci renderà liberi per amare come Egli ci ama e per costruire un mondo riconciliato. Perché, su questa Croce, Gesù ha preso su di sé il peso di tutte le sofferenze e le ingiustizie della nostra umanità. Egli ha portato le umiliazioni e le discriminazioni, le torture subite in tante regioni del mondo da innumerevoli nostri fratelli e nostre sorelle per amore di Cristo. Noi li affidiamo a Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, presente ai piedi della Croce.
Per accogliere nelle nostre vite questa Croce gloriosa, la celebrazione del Giubileo delle apparizioni di Nostra Signora di Lourdes ci fa entrare in un cammino di fede e di conversione. Oggi Maria viene incontro a noi per indicarci le vie d’un rinnovamento della vita delle nostre comunità e di ciascuno di noi. Accogliendo il Figlio suo, che Ella ci presenta, siamo immersi in una sorgente viva in cui la fede può ritrovare un vigore nuovo, in cui la Chiesa può fortificarsi per proclamare con sempre maggior audacia il mistero di Cristo. Gesù, nato da Maria, è Figlio di Dio, unico salvatore di tutti gli uomini, che vive ed agisce nella sua Chiesa e nel mondo. La Chiesa è inviata dappertutto nel mondo per proclamare quest’unico messaggio ed invitare gli uomini ad accoglierlo mediante un’autentica conversione del cuore. Questa missione, che è stata affidata da Gesù ai suoi discepoli, riceve qui, in occasione di questo Giubileo, un soffio nuovo. Che al seguito dei grandi evangelizzatori del vostro Paese, lo spirito missionario, che ha animato tanti uomini e donne di Francia nel corso dei secoli, sia ancora la vostra fierezza e il vostro impegno!
Seguendo il percorso giubilare sulle orme di Bernadette, l’essenziale del messaggio di Lourdes ci è ricordato. Bernadette è la maggiore di una famiglia molto povera, che non possiede né sapere né potere, è debole di salute. Maria la sceglie per trasmettere il suo messaggio di conversione, di preghiera e di penitenza, in piena sintonia con la parola di Gesù: Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11,25). Nel loro cammino spirituale i cristiani sono chiamati essi pure a far fruttificare la grazia del loro Battesimo, a nutrirsi di Eucaristia, ad attingere nella preghiera la forza per testimoniare ed essere solidali con tutti i loro fratelli in umanità (cfr Omaggio alla Vergine Maria, Piazza di Spagna, 8 dicembre 2007). E’ dunque una vera catechesi che ci è proposta sotto lo sguardo di Maria. Lasciamo che la Vergine istruisca pure noi e ci guidi sul cammino che conduce al Regno del Figlio suo! Proseguendo nella sua catechesi la bella Signorarivela il suo nome a Bernadette: Io sono l’Immacolata Concezione.
Maria le rivela così la grazia straordinaria che ha ricevuto da Dio, quella di essere stata concepita senza peccato, perché ha guardato l’umiltà della sua serva (Lc 1,48). Maria è questa donna della nostra terra che s’è rimessa interamente a Dio e ha ricevuto da Lui il privilegio di dare la vita umana al suo eterno Figlio. Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38). Essa è la bellezza trasfigurata, l’immagine dell’umanità nuova. Presentandosi così in una dipendenza totale da Dio, Maria esprime in realtà un atteggiamento di piena libertà, fondata sul pieno riconoscimento della sua vera dignità. Questo privilegio riguarda anche noi, perché ci svela la nostra dignità di uomini e di donne, segnati certo dal peccato, ma salvati nella speranza, una speranza che ci consente di affrontare la nostra vita quotidiana. E’ la strada che Maria apre anche all’uomo. Rimettersi completamente a Dio è trovare il cammino della libertà vera. Perché volgendosi a Dio, l’uomo diventa se stesso. Ritrova la sua vocazione originaria di persona creata a sua immagine e somiglianza.
Cari fratelli e sorelle, la vocazione primaria del santuario di Lourdes è di essere un luogo di incontro con Dio nella preghiera, e un luogo di servizio ai fratelli, soprattutto per l’accoglienza dei malati, dei poveri e di tutte le persone che soffrono. In questo luogo Maria viene a noi come la madre, sempre disponibile ai bisogni dei suoi figli. Attraverso la luce che emana dal suo volto, è la misericordia di Dio che traspare. Lasciamoci toccare dal suo sguardo: esso ci dice che siamo tutti amati da Dio, mai da Lui abbandonati! Maria viene a ricordarci che la preghiera, intensa e umile, confidente e perseverante, deve avere un posto centrale nella nostra vita cristiana. La preghiera è indispensabile per accogliere la forza di Cristo. Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione (Enc. Deus caritas est, n. 36). Lasciarsi assorbire dalle attività rischia di far perdere alla preghiera la sua specificità cristiana e la sua vera efficacia. La preghiera del Rosario, così cara a Bernadette e ai pellegrini di Lourdes, concentra in sé la profondità del messaggio evangelico. Ci introduce alla contemplazione del volto di Cristo. In questa preghiera degli umili noi possiamo attingere grazie abbondanti.
La presenza dei giovani a Lourdes è anche una realtà importante. Cari amici, qui presenti stamattina intorno alla Croce della Giornata Mondiale della Gioventù, quando Maria ricevette la visita dell’Angelo, era una giovane ragazza di Nazaret che conduceva la vita semplice e coraggiosa delle donne del suo villaggio. E se lo sguardo di Dio si posò in modo particolare su di lei, fidandosi di lei, Maria vuole dirvi ancora che nessuno di voi è indifferente per Dio. Egli posa il suo sguardo amoroso su ciascuno di voi e vi chiama ad una vita felice e piena di senso. Non lasciatevi scoraggiare davanti alle difficoltà! Maria fu turbata all’annuncio dell’angelo venuto a dirle che sarebbe diventata la Madre del Salvatore. Essa sentiva quanto era debole di fronte alla onnipotenza di Dio. Tuttavia disse sì senza esitare. Grazie al suo sì la salvezza è entrata nel mondo, cambiando così la storia dell’umanità. A vostra volta, cari giovani, non abbiate paura di dire sì alle chiamate del Signore, quando Egli vi invita a seguirlo. Rispondete generosamente al Signore!
Egli solo può appagare le aspirazioni più profonde del vostro cuore. Siete in molti a venire a Lourdes per un servizio attento e generoso accanto ai malati o ad altri pellegrini, mettendovi così sulle orme di Cristo servo. Il servizio reso ai fratelli e alle sorelle apre il cuore e rende disponibili. Nel silenzio della preghiera, sia Maria la vostra confidente, lei che ha saputo parlare a Bernadette rispettandola e fidandosi di lei. Maria aiuti coloro che sono chiamati al matrimonio a scoprire la bellezza di un amore vero e profondo, vissuto come dono reciproco e fedele! A coloro tra voi che Egli chiama a seguirlo nella vocazione sacerdotale o religiosa, vorrei ridire tutta la felicità che vi è nel donare totalmente la propria vita a servizio di Dio e degli uomini. Siano le famiglie e le comunità cristiane luoghi nei quali possano nascere e maturare solide vocazioni a servizio della Chiesa e del mondo!
La traduzione italiana delle parole pronunciate da Benedetto XVI a introduzione della preghiera dell’Angelus, dopo aver presieduto la Messa per i 150 anni dalle apparizioni della Vergine Maria a Lourdes.
Cari pellegrini, cari fratelli e sorelle!
Ogni giorno, la preghiera dell’Angelus ci offre la possibilità di riflettere qualche istante, in mezzo alle nostre attività, sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. A mezzogiorno, quando le prime ore del giorno cominciano a far gravare su di noi il loro peso di fatica, la nostra disponibilità e la nostra generosità sono rinnovate dalla contemplazione del sì di Maria. Questo sì limpido e senza riserve si radica nel mistero della libertà di Maria, libertà piena ed integra davanti a Dio, svincolata da ogni complicità col peccato, grazie al privilegio della sua Immacolata Concezione.
Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana, ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori, attenta a ciascuno di noi e desiderosa del nostro vero bene. Potete vederlo qui a Lourdes, come in tutti i Santuari mariani, folle immense accorrono ai piedi di Maria per confidarle ciò che ciascuno ha di più intimo, ciò che a ciascuno sta particolarmente a cuore. Ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la Tutta pura, al suo Cuore immacolato: con semplicità, senza orpelli, nella verità. Davanti a Maria, in virtù proprio della sua purezza, l’uomo non esita a mostrarsi nella sua debolezza, a consegnare le sue domande e i suoi dubbi, a formulare le sue speranze e i suoi desideri più segreti. L’amore materno della Vergine Maria disarma ogni forma d’orgoglio; rende l’uomo capace di guardarsi quale egli è e gli ispira il desiderio di convertirsi per dare gloria a Dio.
Maria ci mostra così la giusta maniera di avanzare verso il Signore. Ci insegna ad avvicinarci a Lui nella verità e nella semplicità. Grazie a lei, scopriamo che la fede cristiana non è un peso, ma è come un’ala che ci permette di volare più in alto per rifugiarci tra le braccia del Signore. La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. In Maria la Chiesa può già contemplare ciò che essa è chiamata a divenire. In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione. Possa ciascuno di noi rimanere sempre in azione di grazie per ciò che il Signore ha voluto rivelare del suo piano di salvezza attraverso il mistero di Maria. Mistero nel quale siamo implicati nel modo più toccante, poiché dall’alto della Croce, che noi ricordiamo ed esaltiamo proprio oggi, ci è rivelato dalla bocca stessa di Gesù che sua Madre è nostra Madre.
In quanto figli e figlie di Maria, possiamo trarre profitto di tutte le grazie che sono state fatte a lei, e la dignità incomparabile che le procura il privilegio dell’Immacolata Concezione ricade su di noi, suoi figli. Qui, vicino alla grotta, e in comunione particolare con tutti i pellegrini presenti nei santuari mariani e con tutti i malati nel corpo e nell’anima che cercano conforto, benediciamo il Signore per la presenza di Maria in mezzo al suo popolo e a lei indirizziamo con fede la nostra preghiera: Santa Maria, tu che qui ti sei mostrata centocinquant’anni fa alla giovane Bernadette, tu sei veramente ‘di speranza fontana vivace’ (Dante, Par., XXXIII, 12). Pellegrini fiduciosi qui giunti da ogni parte, noi veniamo ancora una volta ad attingere la fede ed il conforto, la gioia e l’amore, la sicurezza e la pace, alla sorgente del tuo Cuore immacolato: Mostra te esse Matrem! Mostrati come Madre per tutti, o Maria! E donaci il Cristo, speranza del mondo! Amen.
La traduzione italiana del discorso di Benedetto XVI ai vescovi della Conferenza Episcopale francese, incontrati all’Hémicycle Sainte-Bernadette di Lourdes.
È la prima volta dall’inizio del mio Pontificato che ho la gioia di incontrarvi tutti insieme. Saluto cordialmente il vostro Presidente, il Cardinale André Vingt-Trois, e lo ringrazio delle gentili e profonde parole che mi ha rivolto a vostro nome. Saluto anche con piacere i Vice-Presidenti, così come il Segretario Generale e i suoi collaboratori. Un saluto caloroso rivolgo a ciascuno di voi, miei Fratelli nell’Episcopato, che siete venuti dai quattro angoli della Francia e d’oltremare. Il mio pensiero va anche a Mons. François Garnier, Arcivescovo di Cambrai, che celebra oggi a Valenciennes il Millenario di “Notre-Dame du Saint-Cordon”.
Mi rallegro di essere stasera tra voi in questo emiciclo intitolato a “Sainte Bernadette”, che è il luogo ordinario delle vostre preghiere e dei vostri incontri, luogo nel quale esponete le vostre preoccupazioni e le vostre speranze, luogo anche delle vostre discussioni e delle vostre riflessioni. Questa sala è posta in un punto privilegiato presso la grotta e le basiliche mariane. Certo, le visite “ad limina” vi consentono di incontrare regolarmente il Successore di Pietro a Roma, ma il momento che noi ora viviamo ci è dato come una grazia per confermare i legami stretti che ci uniscono nella partecipazione al medesimo sacerdozio direttamente derivante da quello di Cristo redentore. Vi incoraggio a continuare a lavorare nell’unità e nella fiducia, in piena comunione con Pietro che è venuto per confermare la vostra fede. Lei, Eminenza, ha detto che sono tante le vostre e le nostre attuali preoccupazioni! So che intendete impegnarvi con entusiasmo a lavorare entro il nuovo quadro definito con la riorganizzazione della carta delle province ecclesiastiche, e me ne rallegro vivamente. Vorrei profittare di questa occasione per riflettere con voi su qualche tema che so essere al centro della vostra attenzione.
La Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica – vi ha generati mediante il Battesimo. Essa vi ha chiamati al suo servizio; voi le avete donato la vostra vita, prima come diaconi e sacerdoti, poi come Vescovi. Vi esprimo tutto il mio apprezzamento per questo dono delle vostre persone: nonostante l’ampiezza del compito, che ne sottolinea l’onore honor, onus ! voi adempite con fedeltà e umiltà il triplice vostro compito, nei confronti del gregge che vi è affidato, di insegnare, governare, santificare, alla luce della Costituzione Lumen gentium (nn.25-28) e del Decreto Christus Dominus. Successori degli Apostoli, voi rappresentate il Cristo a capo delle diocesi che vi sono state affidate, e vi sforzate di realizzare in esse l’immagine del Vescovo tracciata da san Paolo; dovete crescere senza posa in questa via, nell’intento di essere sempre più “ospitali, amanti del bene, assennati, giusti, pii, padroni di voi stessi, attaccati alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso” (cfr Tt 1,8-9). Il popolo cristiano deve guardarvi con affezione e rispetto. Fin dalle origini la tradizione cristiana ha insistito su questo punto: “Tutti quelli che sono per Dio e per Gesù Cristo, sono con il Vescovo” scriveva sant’Ignazio di Antiochia (Ai Filad., 3,2), il quale aggiungeva pure: “Colui che il padrone di casa invia per amministrare la sua casa, noi dobbiamo accoglierlo come accoglieremmo colui che lo ha inviato” (Agli Efes. 6,1). La vostra missione, soprattutto spirituale, sta dunque nel creare le condizioni necessarie perché i fedeli possano, per citare di nuovo sant’Ignazio, “cantare ad una sola voce mediante Cristo un inno al Padre” (Ibid. 4,2) e in tal modo fare della loro vita un’offerta a Dio.
Voi siete giustamente convinti che per far crescere in ogni battezzato il gusto di Dio e la comprensione del senso della vita, la catechesi riveste un’importanza fondamentale. I due strumenti principali di cui disponete, il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Catechismo dei Vescovi di Francia, costituiscono mezzi preziosi. Offrono infatti una sintesi armoniosa della fede cattolica e consentono di annunciare il Vangelo con fedeltà reale alla sua ricchezza. La catechesi non è innanzitutto una questione di metodo, ma di contenuto, come indica il suo stesso nome: si tratta di un’assimilazione organica (kat-echein) dell’insieme della rivelazione cristiana, capace di mettere a disposizione delle intelligenze e dei cuori la Parola di Colui che ha dato la sua vita per noi. In questo modo, la catechesi fa risuonare nel cuore di ciascun essere umano un unico appello rinnovato senza posa: “Seguimi” (Mt 9,9). Una accurata preparazione dei catechisti consentirà la trasmissione integrale della fede, secondo l’esempio di san Paolo, il più grande catechista di tutti i tempi, al quale guardiamo con un’ammirazione particolare in questo bimillenario della sua nascita. In mezzo alle cure apostoliche egli esortava così: “Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2 Tm 4,3-4). Consapevoli del grande realismo delle sue previsioni, con umiltà e perseveranza voi vi sforzate di corrispondere alle sue raccomandazioni: “Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna con ogni magnanimità e dottrina” (2 Tm 4,2).
Per realizzare efficacemente questo compito, voi avete bisogno di collaboratori. Per questo motivo le vocazioni sacerdotali e religiose meritano più che mai di essere incoraggiate. Sono stato informato delle iniziative che con fede vengono prese in questo settore e ci tengo a recare tutto il mio sostegno a coloro che non hanno paura, come ha fatto Cristo, di invitare giovani e meno giovani a mettersi al servizio del Maestro che è qui e chiama (cfr Gv 11,28). Vorrei ringraziare calorosamente e incoraggiare tutte le famiglie, tutte le parrocchie, tutte le comunità cristiane e tutti i Movimenti di Chiesa, che sono il terreno fertile capace di dare il buon frutto (cfr Mt 13, 8) delle vocazioni. In questo contesto, non posso tralasciare di esprimere la mia riconoscenza per le innumerevoli preghiere dei veri discepoli di Cristo e della sua Chiesa. Vi sono tra loro sacerdoti, religiosi e religiose, persone anziane o malate, anche prigionieri, che per decenni hanno fatto salire a Dio le loro suppliche per dar compimento al comando di Gesù: “Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe”(Mt 9,38). Il Vescovo e le comunità di fedeli devono, per quel che le riguarda, favorire ed accogliere le vocazioni sacerdotali e religiose, poggiando sulla grazia che dona lo Spirito Santo in vista di porre in atto il discernimento necessario. Sì, carissimi Fratelli nell’Episcopato, continuate a chiamare al sacerdozio e alla vita religiosa, così come Pietro gettò le sue reti in adempimento dell’ordine del Maestro, pur avendo passato la notte a pescare senza prendere nulla (cfr Lc 5,5).
Non si ripeterà mai abbastanza che il sacerdozio è indispensabile alla Chiesa, nell’interesse dello stesso laicato. I sacerdoti sono un dono di Dio per la Chiesa. I sacerdoti non possono delegare le loro funzioni ai fedeli in ciò che concerne i loro propri compiti. Cari Fratelli nell’Episcopato, vi esorto a perseverare con ogni premura nell’aiutare i vostri sacerdoti a vivere in intima unione con Cristo. La loro vita spirituale è il fondamento della loro vita apostolica. Li esorterete pertanto con dolcezza alla preghiera quotidiana e alla degna celebrazione dei Sacramenti, soprattutto dell’Eucaristia e della Riconciliazione, come faceva san Francesco di Sales con i suoi preti. Ogni sacerdote deve potersi sentire felice di servire la Chiesa. Alla scuola del Curato d’Ars, figlio della vostra Terra e patrono di tutti i parroci del mondo, non cessate di ridire che un uomo non può far nulla di più grande che donare ai fedeli il Corpo e il Sangue di Cristo e perdonare i peccati. Cercate di essere attenti alla loro formazione umana, intellettuale e spirituale, come anche ai loro mezzi di sussistenza. Sforzatevi, nonostante il carico delle vostre pesanti occupazioni, di incontrarli regolarmente e sappiate riceverli come dei fratelli ed amici (cfr LG 28, CD 16). I sacerdoti hanno bisogno del vostro affetto, del vostro incoraggiamento e della vostra sollecitudine. Siate loro vicini e abbiate un’attenzione particolare per coloro che sono in difficoltà, malati o anziani (cfr CD 16). Non dimenticate che essi sono, come dice il Concilio Vaticano II riprendendo la stupenda espressione usata da sant’Ignazio di Antiochia nella Lettera ai cristiani di Magnesia, “la corona spirituale del Vescovo”(cfr LG 41).
Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale, come anche dell’insegnamento catechetico. Il vostro compito di santificazione del popolo dei fedeli, cari Fratelli, è indispensabile alla crescita della Chiesa. Nel “Motu proprio” Summorum Pontificum sono stato portato a precisare le condizioni di esercizio di tale compito, in ciò che concerne la possibilità di usare tanto il Messale del Beato Giovanni XXIII (1962) quanto quello del Papa Paolo VI (1970). Alcuni frutti di queste nuove disposizioni si sono già manifestati, e io spero che l’indispensabile pacificazione degli spiriti sia, per grazia di Dio, in via di realizzarsi. Misuro le difficoltà che voi incontrate, ma non dubito che potrete giungere, in tempi ragionevoli, a soluzioni soddisfacenti per tutti, così che la tunica senza cuciture del Cristo non si strappi ulteriormente. Nessuno è di troppo nella Chiesa. Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire “a casa sua”, e mai rifiutato. Dio, che ama tutti gli uomini e non vuole che alcuno perisca, ci affida questa missione facendo di noi i Pastori delle sue pecore. Non possiamo che rendergli grazie per l’onore e la fiducia che Egli ci riserva. Sforziamoci pertanto di essere sempre servitori dell’unità!
Quali sono gli altri campi che richiedono maggiore attenzione? Le risposte possono differire da una diocesi all’altra, ma vi è un problema che appare dappertutto di una particolare urgenza: è la situazione della famiglia. Sappiamo che la coppia e la famiglia affrontano oggi delle vere burrasche. Le parole dell’evangelista a proposito della barca nella tempesta in mezzo al lago possono applicarsi alla famiglia: “Il vento gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena” (Mc 4, 37). I fattori che hanno generato questa crisi sono ben conosciuti, e non mi soffermerò perciò ad elencarli. Da vari decenni le leggi hanno relativizzato in molti Paesi la sua natura di cellula primordiale della società. Spesso le leggi cercano più di adattarsi ai costumi e alle rivendicazioni di particolari individui o gruppi, che non di promuovere il bene comune della società. L’unione stabile di un uomo e di una donna, ordinata alla edificazione di un benessere terreno, grazie alla nascita di bambini donati da Dio, non è più, nella mente di certuni, il modello a cui l’impegno coniugale mira. Tuttavia l’esperienza insegna che la famiglia è lo zoccolo solido sul quale poggia l’intera società. Di più, il cristiano sa che la famiglia è anche la cellula viva della Chiesa. Più la famiglia sarà imbevuta dello spirito e dei valori del Vangelo, più la Chiesa stessa ne sarà arricchita e risponderà meglio alla sua vocazione. Conosco, per altro, ed incoraggio vivamente gli sforzi che fate per recare il vostro sostegno alle diverse associazioni che operano per aiutare le famiglie. Avete ragione di attenervi con fermezza, anche a costo di andare controcorrente, ai principi che fanno la forza e la grandezza del Sacramento del matrimonio. La Chiesa vuol restare indefettibilmente fedele al mandato che le ha affidato il suo Fondatore, il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo. Essa non cessa di ripetere con Lui: “Ciò che Dio ha unito l’uomo non lo separi!” (Mt 19,6). La Chiesa non si è data da sola questa missione: l’ha ricevuta. Certo, nessuno può negare l’esistenza di prove, a volte molto dolorose, che certi focolari attraversano. Sarà necessario accompagnare le famiglie in difficoltà, aiutarle a comprendere la grandezza del matrimonio, e incoraggiarle a non relativizzare la volontà di Dio e le leggi di vita che Egli ci ha dato. Una questione particolarmente dolorosa, come sappiamo, è quella dei divorziati risposati. La Chiesa, che non può opporsi alla volontà di Cristo, conserva con fedeltà il principio dell’indissolubilità del matrimonio, pur circondando del più grande affetto gli uomini e le donne che, per ragioni diverse, non giungono a rispettarlo. Non si possono dunque ammettere le iniziative che mirano a benedire le unioni illegittime. L’Esortazione apostolica Familiaris consortio ha indicato il cammino aperto da un pensiero rispettoso della verità e della carità.
I giovani, lo so bene cari Fratelli, sono al centro delle vostre preoccupazioni. Voi dedicate loro molto tempo, e avete ragione. Come avete potuto constatare, ne ho appena contattato una moltitudine a Sydney, nel corso della Giornata Mondiale della Gioventù. Ho potuto apprezzarne l’entusiasmo e la capacità di consacrarsi alla preghiera. Pur vivendo in un mondo che li corteggia e blandisce i loro bassi istinti, e portando essi pure il fardello pesante di eredità difficili da assimilare, i giovani conservano una freschezza d’animo che ha suscitato la mia ammirazione. Ho fatto appello al loro senso di responsabilità, invitandoli a far leva sempre sulla vocazione che Dio ha loro donato nel giorno del Battesimo. “La nostra forza sta in ciò che Cristo vuole da noi”, diceva il Cardinal Jean-Marie Lustiger. Nel corso del suo primo viaggio in Francia, il mio venerato Predecessore rivolse ai giovani del vostro Paese un discorso che non ha perduto nulla della sua attualità e che ricevette allora un’accoglienza di indimenticabile calore. “La permissività morale non rende l’uomo felice”, proclamò nel Parco dei Principi sotto un uragano d’applausi. Il buon senso che ispirava la sana reazione del suo uditorio non è morto. Prego lo Spirito Santo di voler parlare al cuore di tutti i fedeli e, più generalmente, di tutti i vostri compatrioti, per dare loro o per loro restituire il gusto di una vita condotta secondo i criteri di una vera felicità.
All’Eliseo ho evocato l’altro giorno l’originalità della situazione francese, che la Santa Sede desidera rispettare. Sono convinto, in effetti, che le Nazioni non devono mai accettare di veder sparire ciò che costituisce la loro specifica identità. In una famiglia, il fatto che i diversi membri abbiano lo stesso padre e la stessa madre non comporta che essi siano soggetti tra loro indifferenziati: sono in realtà persone con una propria individualità. La stessa cosa avviene per i Paesi, che devono vegliare a preservare e a sviluppare la loro specifica cultura, senza lasciarla mai assorbire dalle altre o affogare in una spenta uniformità. “La Nazione è, in effetti, per riprendere le parole del Papa Giovanni Paolo II, la grande comunità degli uomini uniti tra loro da legami diversi, ma soprattutto precisamente dalla cultura. La Nazione esiste mediante’ la cultura e per’ la cultura, ed essa è perciò la grande educatrice degli uomini perché, nella comunità, possano ‘essere ancora di più’ “ (Discorso all’UNESCO, 2 giugno 1980, n.14). In questa prospettiva, il porre in evidenza le radici cristiane della Francia permetterà ad ogni abitante di questo Paese di meglio comprendere da dove egli venga e dove egli vada. Di conseguenza, nel quadro istituzionale esistente e nel massimo rispetto delle Leggi in vigore, occorrerebbe trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita l’identità della Nazione. Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità. I presupposti socio-politici dell’antica diffidenza o persino ostilità svaniscono poco a poco. La Chiesa non rivendica per sé il posto dello Stato. Essa non vuole sostituirglisi. E’ infatti una società basata su convinzioni, che si sente responsabile dell’insieme e non può limitarsi a se stessa. Essa parla con libertà e dialoga con altrettanta libertà nel desiderio di giungere alla edificazione della libertà comune. Grazie ad una sana collaborazione tra la Comunità politica e la Chiesa, realizzata nella consapevolezza e nel rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascuna nel proprio campo, si rende all’uomo un servizio che mira al suo pieno sviluppo personale e sociale. Numerosi punti, primizie di altri che vi si aggiungeranno secondo le necessità, sono già stati esaminati e risolti in seno alla “Istanza di Dialogo tra la Chiesa e lo Stato”. Di questa fa naturalmente parte, in virtù della missione sua propria e in nome della Santa Sede, il Nunzio Apostolico, che è chiamato a seguire attivamente la vita della Chiesa e la sua situazione nella società.
Come sapete, i miei Predecessori, il Beato Giovanni XXIII, antico Nunzio a Parigi, e il Papa Paolo VI hanno costituito dei Segretariati che sono divenuti, nel 1988, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Vi si aggiunsero ben presto la Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo e la Commissione per i Rapporti religiosi con i Musulmani. Questa strutture sono in qualche modo il riconoscimento istituzionale e conciliare di innumerevoli iniziative e realizzazioni anteriori. Commissioni e Consigli simili si trovano del resto nella vostra Conferenza Episcopale e nelle vostre diocesi. La loro esistenza e il loro funzionamento dimostrano la volontà della Chiesa di andare avanti sviluppando il dialogo bilaterale. La recente Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha messo in evidenza che il dialogo autentico richiede, come condizioni fondamentali, una buona formazione per coloro che lo promuovono e un discernimento illuminato per avanzare poco a poco nella scoperta della Verità. L’obiettivo dei dialoghi ecumenico e interreligioso, differenti naturalmente nella loro natura e nelle finalità rispettive, è la ricerca e l’approfondimento della Verità. Si tratta di un compito nobile e obbligatorio per ogni uomo di fede, perché Cristo stesso è la Verità. La costruzione di ponti tra le grandi tradizioni ecclesiali cristiane e il dialogo con le altre tradizioni religiose esigono un reale impegno di conoscenza reciproca, perché l’ignoranza distrugge più che costruire. D’altra parte, non v’è che la Verità che permetta di vivere autenticamente il duplice comandamento dell’amore che ci ha lasciato il nostro Salvatore. Certo, è necessario seguire con attenzione le diverse iniziative intraprese e discernere quelle che favoriscono la conoscenza e il rispetto reciproci, così come la promozione del dialogo, ed evitare quelle che conducono in vicoli ciechi. La buona volontà non basta. Sono convinto che convenga cominciare con l’ascolto, per poi passare alla discussione teologica ed arrivare infine alla testimonianza e all’annuncio della fede stessa (cfr Nota dottrinale su certi aspetti dell’evangelizzazione, n.12: 3 dicembre 2007). Lo Spirito Santo vi doni il discernimento che deve caratterizzare ogni Pastore. San Paolo raccomanda: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1 Ts 5,21). La società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa nella quale viviamo, è un’opportunità che il Signore ci offre di proclamare la Verità e di esercitare l’Amore, nell’intento di raggiungere ogni essere umano senza distinzione, anche al di là dei limiti della Chiesa visibile.
Nell’anno che precedette la mia elezione alla Sede di Pietro, ebbi la gioia di venire nel vostro Paese per presiedervi le cerimonie commemorative del sessantesimo anniversario dello sbarco in Normandia. Raramente ho avvertito come allora l’attaccamento dei figli e delle figlie di Francia alla terra dei loro antenati. La Francia celebrava allora la sua liberazione temporale, al termine di una guerra crudele che aveva fatto innumerevoli vittime. Ora, è soprattutto per una vera liberazione spirituale che conviene lavorare. L’uomo ha sempre bisogno di essere liberato dalle sue paure e dai suoi peccati. L’uomo deve senza sosta imparare o re-imparare che Dio non è suo nemico, ma suo Creatore pieno di bontà. L’uomo ha bisogno di sapere che la sua vita ha un senso e che egli è atteso, al termine della sua permanenza sulla terra, a prendere parte senza fine alla gloria di Cristo nei cieli. Vostra missione è di condurre la porzione di Popolo di Dio affidata alle vostre cure a riconoscere questo termine glorioso. Vogliate accogliere qui l’espressione della mia ammirazione e della mia gratitudine per tutto quel che fate nell’intento di progredire in questo senso. Siate certi della mia preghiera quotidiana per ciascuno di voi. Vogliate credere che non cesso di domandare al Signore e alla sua Madre di guidarvi sulla vostra strada.
Con gioia ed emozione vi affido, carissimi Fratelli nell’Episcopato, a Nostra Signora di Lourdes e a santa Bernadette. La potenza di Dio si è sempre manifestata nella debolezza. Lo Spirito Santo ha sempre lavato ciò che era sordido, irrigato ciò che era arido, raddrizzato ciò che era sviato. Il Cristo Salvatore, che ha voluto fare di noi strumenti di comunicazione del suo amore agli uomini, non cesserà mai di farvi crescere nella fede, nella speranza, nella carità, per darvi la gioia di condurre a Lui un numero crescente di uomini e di donne del nostro tempo. Nell’affidarvi alla sua forza di Redentore, imparto a voi tutti dal profondo del cuore un’affettuosa Benedizione Apostolica.
Il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI al termine della processione eucaristica a Lourdes.
Signore Gesù, Tu sei qui! E voi, miei fratelli, mie sorelle, miei amici, voi pure siete qui, con me, davanti a Lui! Signore, duemila anni or sono, Tu hai accettato di salire su di una croce d’infamia per poi risuscitare e restare sempre con noi, tuoi fratelli, tue sorelle. E voi, miei fratelli, mie sorelle, miei amici, voi accettate di lasciarvi afferrare da Lui. Noi Lo contempliamo. Noi L’adoriamo. Noi L’amiamo. E cerchiamo di amarLo di più. Noi contempliamo Colui che, nel corso della cena pasquale, ha donato il suo Corpo e il suo Sangue ai discepoli, per essere con loro tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28,20).
Noi adoriamo Colui che è all’inizio e alla fine della nostra fede, Colui senza il quale noi non saremmo qui sta sera. Colui senza il quale noi non ci saremmo per nulla. Colui senza il quale nulla vi sarebbe, nulla, assolutamente nulla! Lui, per mezzo del quale tutto è stato fatto (Gv 1,3), Lui nel quale noi siamo stati creati, per l’eternità, Lui che ci ha donato il suo Corpo e il suo Sangue, Lui è qui, questa sera, davanti a noi, offerto ai nostri sguardi. Noi amiamo e cerchiamo di amare di più Colui che è qui, davanti a noi, offerto ai nostri sguardi, alle nostre domande forse, al nostro amore. Sia che camminiamo o siamo inchiodati su di un letto di dolore – che camminiamo nella gioia o siamo nel deserto dell’anima (cfr Num 21,5), Signore, prendici tutti nel tuo Amore: nell’amore infinito, che è eternamente quello del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre, quello del Padre e del Figlio per lo Spirito e dello Spirito per il Padre e per il Figlio. L’Ostia Santa, esposta ai nostri occhi, dice questa potenza infinita dell’Amore manifestata sulla Croce gloriosa.
L’Ostia Santa ci dice l’incredibile abbassamento di Colui che s’è fatto povero per farci ricchi di Sé, Colui che ha accettato di perdere tutto per guadagnarci al Padre suo. L’Ostia Santa è il Sacramento vivo ed efficace della presenza eterna del Salvatore degli uomini alla sua Chiesa. Fratelli miei, sorelle mie, amici miei, accettiamo, accettate di offrirvi a Colui che ci ha donato tutto, che è venuto non per giudicare il mondo, ma per salvarlo (cfr Gv 3,17), accettate di riconoscere nelle vostre vite la presenza attiva di Colui che è qui presente, esposto ai nostri sguardi. Accettate di offrirGli le vostre proprie vite! Maria, la Vergine santa, Maria, l’Immacolata Concezione, ha accettato, duemila anni or sono, di donare tutto, di offrire il suo corpo per accogliere il Corpo del Creatore. Tutto è venuto da Cristo, anche Maria; tutto è venuto mediante Maria, lo stesso Cristo. Maria, la Vergine santa, è con noi questa sera, davanti al Corpo del Figlio suo, centocinquant’anni dopo essersi rivelata alla piccola Bernadette. Vergine santa, aiutaci a contemplare, aiutaci ad adorare, aiutaci ad amare, ad amare di più Colui che ci ha tanto amato, per vivere eternamente con Lui.
Una folla immensa di testimoni è invisibilmente presente accanto a noi, vicino a questa grotta benedetta e davanti a questa chiesa voluta dalla Vergine Maria; la folla di tutti gli uomini e di tutte le donne che hanno contemplato, venerato, adorato la presenza reale di Colui che si è donato a noi fino all’ultima goccia di sangue; la folla degli uomini e delle donne che hanno passato ore ad adorarLo nel Santissimo Sacramento dell’altare. Questa sera, noi non li vediamo, ma li sentiamo dire a ciascuno e a ciascuna di noi: «Vieni, lasciati attrarre dal Maestro! Egli è qui e ti chiama! (cfr Gv 11,28). Egli vuol prendere la tua vita e unirla alla sua. Lasciati afferrare da Lui! Non guardare più alle tue ferite, guarda alle sue. Non guardare ciò che ti separa ancora da Lui e dagli altri; guarda l’infinita distanza che Egli ha cancellato nell’assumere la tua carne, nel salire sulla Croce che gli hanno preparato gli uomini e nel lasciarsi mandare a morte per mostrarti il suo amore. Nelle sue ferite Egli ti accoglie; nelle sue ferite Egli ti nasconde. Non rifiutarti al suo amore!». La folla immensa di testimoni che s’è lasciata afferrare dal suo amore è la folla dei santi del cielo che non cessano di intercedere per noi. Erano peccatori e lo sapevano, ma hanno accettato di non guardare le loro ferite, di non guardare ormai che le ferite del loro Signore, per scoprirvi la gloria della Croce, per scoprirvi la vittoria della Vita sulla morte. San Pier-Giuliano Eymard ci dice tutto, quando esclama: La Santa Eucaristia è Gesù Cristo passato, presente e futuro (Prediche e istruzioni parrocchiali dopo il 1856, 4 – 2,1. Sulla meditazione).
Gesù Cristo passato, nella verità storica della sera nel cenacolo, ove ci conduce ogni celebrazione della santa Messa. Gesù Cristo presente, perché Egli ci dice: Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Questo è, al presente, qui e ora, come in tutti i qui e ora della storia umana. Presenza reale, presenza che supera le nostre povere labbra, i nostri poveri cuori, i nostri poveri pensieri. Presenza offerta ai nostri sguardi come qui, stasera, presso questa grotta ove Maria s’è rivelata come Immacolata Concezione. L’Eucaristia è anche Gesù Cristo futuro, il Gesù Cristo che verrà. Quando contempliamo l’Ostia Santa, il suo Corpo di gloria trasfigurato e risorto, contempliamo ciò che contempleremo nell’eternità, scoprendovi il mondo intero sostenuto dal suo Creatore in ogni istante della sua storia. Ogni volta che ce ne cibiamo, ma anche ogni volta che lo contempliamo, noi l’annunciamo fino a che Egli ritorni: donec veniat. Proprio per questo noi lo riceviamo con infinito rispetto. Alcuni tra noi non possono o non possono ancora riceverLo nel Sacramento, ma possono contemplarLo con fede e amore, ed esprimere il desiderio di potersi finalmente unire a Lui. E’ un desiderio che ha grande valore davanti a Dio: essi attendono con maggior ardore il suo ritorno; attendono Gesù Cristo che deve venire.
Quando un’amica di Bernadette, all’indomani della sua prima comunione, le chiese: Di che cosa sei stata più felice: della prima comunione e delle apparizioni?, Bernadette rispose: Sono due cose che vanno insieme, ma non possono essere confrontate. Io sono stata felice in ambedue (Emmanuélite Estrade, 4 giugno 1958). Il suo parroco testimoniò al Vescovo di Tarbes riguardo alla sua prima comunione: Bernadette si comportò con grande raccoglimento, con un’attenzione che non lasciava nulla a desiderare Appariva profondamente consapevole dell’azione santa che stava compiendo. Tutto si svolge in lei in maniera stupefacente. Con Pierre-Julien Eymard e con Bernadette, noi invochiamo la testimonianza di tanti e tanti santi e sante che hanno avuto per l’Eucaristia il più grande amore. Nicolas Cabasilas esclama e dice a noi stasera: «Se Cristo dimora in noi, di che cosa abbiamo ancora bisogno? Che cosa ci manca? Se rimaniamo in Cristo, che cosa possiamo desiderare di più? Egli è nostro ospite e nostra dimora. Felici noi che siamo la sua abitazione! Che gioia essere proprio noi la dimora di un tale Inquilino!» (La vie en Jésus-Christ, IV, 6). Il Beato Charles de Foucauld nacque nel 1858, lo stesso anno delle apparizioni di Lourdes. Non lontano dal suo corpo irrigidito dalla morte fu trovata, come il chicco di frumento gettato nella terra, la lunetta contenente il Santissimo Sacramento, che fratel Carlo adorava ogni giorno per lunghe ore.
Il P.de Foucauld ci affida la preghiera scaturita dall’intimità del suo cuore, una preghiera rivolta al Padre celeste, ma che, con Gesù, possiamo in piena verità fare nostra davanti all’Ostia Santa: «’Padre mio, affido il mio spirito nelle Vostre mani’. E’ l’ultima preghiera del nostro Maestro, del nostro Diletto Possa diventare la nostra, e che essa sia non solo quella del nostro ultimo istante, ma quella di tutti i nostri istanti: «Padre mio, mi rimetto nelle Vostre mani; Padre mio, mi affido a Voi; Padre mio, mi abbandono a Voi; Padre mio, fate di me ciò che vi piacerà; qualunque cosa facciate di me, vi ringrazio: grazie di tutto; sono pronto a tutto, accetto tutto; Vi ringrazio di tutto. Supposto che la Vostra volontà si compia in me, o mio Dio, supposto che la Vostra volontà si compia in tutte le Vostre creature, in tutti i Vostri figli, in tutti coloro che il vostro cuore ama, non desidero null’altro, mio Dio; rimetto la mia anima nelle Vostre mani; Ve la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché Vi amo ed è un bisogno del mio cuore donarmi, rimettermi nelle Vostre mani, senza misura, con infinita confidenza, perché Voi siete il Padre mio».
Diletti fratelli e sorelle, pellegrini di un giorno e abitanti di queste vallate, fratelli Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, voi tutti che vedete davanti ai vostri occhi l’infinito abbassamento del Figlio di Dio e la gloria infinita della risurrezione, restate in silenzio e adorate il vostro Signore, il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo. Restate in silenzio, poi parlate e dite al mondo: non possiamo più tacere ciò che sappiamo. Andate a dire al mondo intero le meraviglie di Dio, presente in ogni momento delle nostre vite, in ogni luogo della terra. Che Dio ci benedica e ci protegga, ci conduca sul cammino della vita eterna, Lui che è la Vita, per i secoli dei secoli. Amen.
La traduzione italiana dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Celebrazione Eucaristica per i malati.
Abbiamo celebrato ieri la Croce di Cristo, strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).
Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce.
Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo. Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre.
Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero.
Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”(Eb 4,15).Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.
Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà”(cfr Gv 2,5)
Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore.
Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione.
Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza.
Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! A questo riguardo, saluto e ringrazio particolarmente i miei fratelli nell’episcopato, i vescovi francesi, i vescovi stranieri e tutti i preti che accompagnano i malati e gli uomini toccati dalla sofferenza nel mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore sofferente.
Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!
Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo:
Il discorso di saluto di Benedetto XVI all’aeroporto di Tarbes-Lourdes-Pyrénées alla presenza delle Autorità politiche e civili e dei Vescovi della Regione Midi-Pyrénées, il Presidente, il Vicepresidente ed il Segretario Generale della Conferenza Episcopale francese.
Nel momento di lasciare non senza rincrescimento il suolo di Francia, vi sono molto grato per essere venuti a salutarmi, offrendomi così l’occasione di esprimere ancora una volta quanto questo viaggio nel vostro Paese abbia rallegrato il mio cuore. Attraverso di Lei, Signor Primo Ministro, saluto il Signor Presidente della Repubblica e tutti i membri del Governo, così come le Autorità civili e militari, che non hanno risparmiato gli sforzi per contribuire al regolare svolgimento di queste giornate di grazia. Desidero esprimere la mia sincera gratitudine ai miei Fratelli nell’Episcopato, al Cardinal Vingt-Trois e a Mons. Perrier in particolare, così come a tutti i membri e al personale della Conferenza dei Vescovi di Francia. È cosa buona ritrovarsi tra fratelli. Ringrazio anche calorosamente i Signori Sindaci e i Consigli comunali di Parigi e di Lourdes. Non dimentico le Forze dell’Ordine e gli innumerevoli volontari che hanno messo a disposizione il loro tempo e la loro competenza. Tutti hanno lavorato con dedizione e slancio per la buona riuscita dei miei quattro giorni nel vostro Paese. Grazie di cuore.
Il mio viaggio è stato come un dittico, il cui primo pannello è stata Parigi, città che io conosco abbastanza bene e luogo di molteplici incontri importanti. Ho avuto l’opportunità di celebrare l’Eucaristia nel contesto prestigioso della Spianata degli Invalidi. Vi ho incontrato un popolo vivo di fedeli, fieri e forti della loro fede, che sono venuto ad incoraggiare perché perseverino decisamente nel vivere gli insegnamenti di Cristo e della sua Chiesa. Ho potuto anche celebrare i Vespri con i sacerdoti, con i religiosi e le religiose e con i seminaristi. Ho voluto confermarli nella loro vocazione al servizio di Dio e del prossimo. Ho passato pure un momento, troppo breve ma veramente intenso, con i giovani sul sagrato di Notre-Dame. Il loro entusiasmo e il loro affetto mi sono di conforto. Come non ricordare anche il prestigioso incontro con il mondo della cultura presso l’Institut de France e i Bernardins? Come sapete, io ritengo che la cultura e i suoi interpreti siano un tramite privilegiato nel dialogo tra la fede e la ragione, tra Dio e l’uomo.
Il secondo pannello del dittico è stato un luogo emblematico, che attira ed affascina ogni credente: Lourdes è come una luce nell’oscurità del nostro brancolare verso Dio. Maria vi ha aperto una porta verso un al-di-là che ci interroga e ci seduce. Maria, porta caeli ! Mi sono messo alla sua scuola durante questi tre giorni. Il Papa aveva il dovere di venire a Lourdes per celebrarvi il 150° anniversario delle Apparizioni. Davanti alla Grotta di Massabielle ho pregato per tutti voi. Ho pregato per la Chiesa. Ho pregato per la Francia e per il mondo. Le due Eucaristie celebrate a Lourdes mi hanno permesso di unirmi ai fedeli pellegrini. Divenuto uno di loro, ho seguito l’insieme delle quattro tappe del cammino del Giubileo, visitando la chiesa parrocchiale, poi il cachot e la Grotta, e infine la cappella dell’Ospizio. Ho anche pregato con e per i malati che vengono a cercare sollievo fisico e speranza spirituale. Dio non li dimentica, e la Chiesa neppure. Come ogni fedele in pellegrinaggio, ho voluto partecipare alla processione “aux flambeaux” e alla processione eucaristica. Esse fanno salire verso Dio suppliche e lodi. Lourdes è anche il luogo in cui si incontrano regolarmente i Vescovi di Francia per pregare insieme e per celebrare l’Eucaristia, riflettere e scambiarsi idee sulla loro missione di pastori. Ho voluto condividere con loro la mia convinzione che i tempi siano favorevoli a un ritorno a Dio.
Signor Primo Ministro, Fratelli Vescovi e cari amici, che Dio benedica la Francia! Che sul suo suolo regni l’armonia e il progresso umano e che la Chiesa vi sia come lievito nella pasta per indicare con saggezza e senza timore, secondo il suo dovere, chi è Dio! È giunto il momento di lasciarvi. Potrò tornare ancora nel vostro bel Paese? Ne ho il desiderio, un desiderio tuttavia che affido a Dio. Da Roma vi resterò vicino e quando sosterò davanti alla riproduzione della Grotta di Lourdes, che da oltre un secolo si trova nei Giardini Vaticani, penserò a voi. Che Dio vi benedica!
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