Opinioni & Commenti
Benedetto XVI a Parigi, come Paolo ad Atene
di Franco Cardini
A Parigi, tra il 12 e il 13 settembre scorsi, mi sono trovato nella condizione dell’I.S.C.I. («Inviato Speciale Casuale e Involontario»). Da tempo avevo programmato una settimana parigina, per motivi di studio: né potevo rimandarla. Ciò mi ha consentito di seguire il pontefice, nelle giornate di venerdì e di sabato, nelle quattro differenti occasioni d’incontro con la Ville Lumière: al mattino del 12, quando il principe dello Stato Città del Vaticano ha incontrato, all’Eliseo, il suo collega presidente della repubblica francese (e il protocollo presidenziale ha rigorosamente sottolineato il carattere «diplomatico» dell’incontro, il ricevimento offerto da uno statista a un altro); al pomeriggio, quando il professor Ratzinger ha tenuto, al «Collège des Bernardins», la sua Lectio magistralis sulle radici cristiane dell’Europa; alla sera, quando il Santo Padre ha incontrato i giovani sul sagrato di Notre-Dame; e il mattino seguente, quando il vescovo di Roma, il primo sacerdote della Cristianità cattolica, ha celebrato sull’Esplanade des Invalides la Messa dinanzi a una folla di oltre 250 mila persone, tra le quali molti erano i giovani della sera prima che, dopo l’incontro dinanzi alla cattedrale, avevano percorso i circa quattro chilometri del Lungosenna che separano il Quartiere Latino dalla grande piazza dov’era montato l’altare. Un vero e proprio pellegrinaggio notturno, al lume di torce e fiaccole; molti ragazzi hanno passato la notte all’addiaccio, cenando al sacco e dormendo nei sacchi a pelo, sul piazzale dominato dalla cupola dorata sotto la quale dorme Napoleone, per esser pronti a occupare all’indomani i posti migliori, più vicini al celebrante. Quattro aspetti d’un personaggio illustre: lo statista, lo studioso, il pastore, il prete. La complessità della funzione pontificia e della personalità di Benedetto XVI proposta alla nazione che tra V e XVIII secolo si è fregiata del titolo di «figlia primogenita della Chiesa» e che, con la Rivoluzione, si è proposta come il modello più rigoroso di laicità.
È stato molto interessante vivere anche i giorni della vigilia della visita. Certo, molti facevano finta di nulla o affettavano fastidio: in città la circolazione era ridotta e i controlli aumentati, qualche stazione centrale del Métro era chiusa al pubblico, i disagi insomma c’erano e si sentivano. Come sempre, quando si affronta un’occasione storica: e questa lo era. Su qualche muro erano comparsi graffiti ironici, qualcuno perfino minaccioso: la Francia è laica, la Modernità è laica, l’Occidente è laico. Non sono mancati coloro che hanno denunziato «l’ingerenza» del Vaticano.
Ma la realtà parlava un linguaggio diverso. L’attesa, venerdì 12, era a fior di pelle dappertutto. Una mattinata tiepida, illuminata da un sole brillante che tuttavia avrebbe potuto andarsene da un istante all’altro, come sempre a Parigi. Ma le televisioni, nei locali pubblici, non parlavano d’altro; e le edicole dei giornali erano prese d’assalto.
Che cos’avrà mai da dire ai francesi quel vecchio prete tedesco, quel vecchio ex ragazzino della Hitlerjügend, quell’«ex soldato di Hitler»?, tuonava da un’emittente per la verità secondaria un attempato maître-à-penser di quelli che, più che agli intellettuali francesi, somigliano alla loro caricatura, rughe agli angoli della bocca e capelli candidi al vento. Un altro di questi tipi ha presentato «Ratzinger, l’uomo del Collegio di propaganda Fide, successore dell’inquisizione». Ma era folklore anticlericale piuttosto démodé.
Più abilmente, all’Eliseo, un Sarkozy del resto ben conscio egli stesso delle polemiche inevitabili, che difatti ci sono state, ha parlato del «rispetto» con cui la repubblica francese, depositaria di una «laicità positiva», stava ricevendo il suo illustre ospite. Laicità «positiva» intesa come rispetto per tutte le fedi e libertà per tutti i culti: come capacità d’ascolto e volontà di dialogo. Ma allora si chiedevano subito, all’ora di pranzo, i cronisti di «France 2» esiste forse anche una «laicità negativa»? Ancor più abilmente, sfruttando la stessa laicità nel suo aspetto più intimo, il pontefice ha risposto elogiando «la laicità aperta»: cioè coerente con quel valore di tolleranza senza il quale essa non è nulla.
«Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. (…) il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale».
La storia e la cultura della nostra Europa hanno senza dubbio molteplici, profonde radici. L’Europa, come ha detto qualcuno, non è una carota. Non ha affatto una sola radice dritta e profonda. Tra le sue radici, ramificate e complesse, vi sono anzitutto quelle della potente civiltà ellenistico-romana; e anche quelle dovute all’apporto delle popolazioni «barbariche», a quello dell’ebraismo che per la Cristianità è «intrinseco», a quello musulmano cui tanto dobbiamo sul piano della filosofia e delle scienze, a quello stesso pensiero laico che in gran parte sviluppando i valori delle sue stesse radici cristiane ha saputo fondare la cultura della tolleranza e dei diritti umani. Il cristianesimo, come realtà storica, deve notoriamente moltissimo a tutte queste realtà: all’ebraismo, del quale è originariamente figlio e al quale resta profondamente legato; alla civiltà romano-ellenistica, che costituisce il suo tessuto antropologico e concettuale più forte e più stabile e alla quale egli deve due delle sue tre «lingue sacre», il greco e il latino; alle differenti culture «barbariche», le quali innervano profondamente la sua angelologia, la sua agiografia, il suo folklore; all’Islam, che soprattutto con Averroè ha fornito alla nascente scolastica il suo fondamentale strumento critico.
È tuttavia un fatto solidamente obiettivo che la civiltà europea resta profondamente ancorata e radicata nel cristianesimo: nella sua teologia, nei suoi valori etici, nel suo modus cogitandi, anche astraendo dalla fede e dalla metafisica; e non può ignorare di esserlo se non vuole smarrire il senso stesso della sua autocoscienza identitaria. È del Cristo che ci parlano non solo la nostra letteratura, la nostra arte, la nostra musica, ma anche e soprattutto l’aspirazione profonda alla pace, alla libertà e alla giustizia senza la quale le sofferenze stesse che il continente europeo ha sopportato dal medioevo ad oggi sarebbero prive di senso.
Come centro di tutta l’allocuzione, il pontefice ha quindi scelto il messaggio di Benedetto da Norcia: quell’ora et labora che tanto splendidamente riassume la vocazione cattolica all’espressione della fede attraverso le opere e alla valorizzazione delle opere mediante la fede, secondo l’insegnamento della Lettera canonica di Giacomo. Una vocazione profondamente coerente con quella storica della tradizione europea occidentale, la tradizione del fare, del costruire, del progredire, del migliorare: una tradizione tuttavia che quando ci si allontani dall’insegnamento divino, quando la si traduca in una tensione verso un agere e un habere privi dell’esse, si stravolge in prometeica, faustiana e in ultima analisi demoniaca «Volontà di Potenza». E la demonicità della scienza, del progresso, della forza del danaro e della politica disancorate dal Cristo le abbiamo viste appieno nel tragico e sanguinoso Novecento.
Anche per questo, la lezione avviata nel segno di Benedetto da Norcia, si è conclusa nel nome di Paolo di Tarso e del suo discorso dinanzi all’Aeropago di Atene, un tribunale incaricato di vegliare sull’introduzione di nuovi culti. Paolo annunzia ai saggi ateniesi un Deus Ignotus al quale essi avevano tuttavia già dedicato un’ara. Il Papa annunzia di nuovo ai parigini e al mondo quel Cristo ch’essi in passato hanno amato e onorato, che tra XVI e XX secolo hanno progressivamente dato l’impressione di dimenticare e di relegare in un angolo della storia (con momenti addirittura, tra Sette e Novecento, di dura apostasia) e che oggi per troppi versi sembra tornato nelle catacombe.
In troppe parti della terra i cristiani sono perseguitati. Ma non c’è solo questo. C’è qualcosa di apparentemente più sostenibile, in realtà forse ancora più grave. Anche laddove il cristianesimo è lecito e viene addirittura formalmente ossequiato, esso appare ormai minoritario, relegato a una funzione esornativa e retorica da una Modernità sostanzialmente dimentica di esso. La maggioranza degli europei è cristiana: ma si tratta di cristiani non importa se cattolici, riformati o ortodossi in troppi casi soltanto «sociologici», che sono tali perché statisticamente computati come tali. Non dimentichiamo che, nella nostra stessa Italia e negli altri paesi considerati più profondamente cattolici, dalla Spagna alla Polonia, la frequenza ai sacramenti è in calo, le vocazioni in crisi, declina lo stesso uso di battezzare i bambini. Sono segnali preoccupanti, che obbligano i cristiani a riflettere che essi non sono più «maggioranza». E che a maggior ragione debbono dunque essere «sale della terra».
Dinanzi ai pericoli d’una «laicità» che sembra troppo spesso virare nel materialismo e nel nihilismo, dinanzi ai rischi dell’apostasia pratica e implicita, meno violenta ma altrettanto grave di quella ostentata e proclamata, Benedetto XVI ha splendidamente ricordato a Parigi, e il giorno successivo a Lourdes, che il Cristo resta l’asse e il centro della storia, e secondo la mirabile immagine dell’anticristiano Nietzsche i secoli Gli danzano intorno.