Opinioni & Commenti
Benedetto e il preservativo: un corto circuito a scapito dell’Africa
di Romanello Cantini
Ci deve essere di certo da qualche parte il manuale del giornalista facile che insegna che ad un rabbino si deve chiedere se si può giocare al calcio il sabato, ad un imam se si può mangiare il prosciutto, ad un papa se si può usare il preservativo. In questi casi ci si fa campioni low cost di cause oggi popolarissime come andare alla partita, mangiare la pizza al prosciutto e fare l’amore con chiunque. In questo modo inoltre l’intervista è in pratica già fatta il giorno prima perché la domanda si sa che ha già dentro la risposta come la buccia la banana.
La risposta al preservativo l’aveva già data il predecessore di questo Papa e il predecessore del predecessore del predecessore ci aveva dedicato addirittura una enciclica. Non è quindi la minima suspense sull’esito dell’interrogatorio e nemmeno bisogno di informazione.
Ma per il giornalista facile una domanda sul condom fatta al Papa è una esibizione di modernità compiaciuta di chi la sa lunga sull’argomento e una spruzzatina di piccante tipo corto circuito del diavolo nell’acqua santa che non dispiace mai ad pubblico di bocca buona. E con questo botta e risposta sul preservativo si apre e si chiude il tema dei problemi dell’Africa, della fede e della chiesa. Per certa stampa una volta fatta la dichiarazione sul preservativo l’aereo del Papa poteva virare di bordo e tornare a Roma. Il seguito del viaggio del Papa, i suoi incontri, i suoi discorsi non hanno avuto praticamente quasi nessuna copertura mediatica.
E così si è rinunciato a capire che dentro l’Africa non c’è solo l’aids, ma c’è la fame, c’è la guerra, c’è la corruzione, c’è la disgregazione familiare, c’è l’inferiorità della donna, c’è il riflesso dell’indifferenza dei ricchi. Se il condom fosse la panacea di tutti i mali non si capisce perché l’aids diminuisce in Uganda dove il preservativo si usa poco e aumenta a New York dove certo i preservativi non mancano.
L’aids non è un dramma accanto ai drammi dell’Africa. Ci sta dentro, ci trova il suo humus, non di rado ne è figlio come una malattia opportunistica.
La specificità terribile dell’Africa sta nella miseria, nella violenza, nel disprezzo dei diritti. A queste sue stimmate tutte particolari corrisponde la stimmata altrettanto particolare di avere venticinque milioni di malati di aids sul totale dei trentacinque milioni del pianeta. Ma il rapporto fra la peste, la fame e la guerra, come sapevano perfino i contadini che durante le Rogazioni del Medioevo mettevano queste tre piaghe nello stesso grappolo, non è mai casuale.
L’aids ad esempio si diffonde quando la fame costringe a prostituirsi e nel rapporto l’uomo paga anche tre volte di più se non si usa il condom. L’aids è sempre al seguito nelle guerre perché le guerre prevedono lo stupro sempre senza protezione e anche perché nelle guerre africane si usa spesso l’arma bianca che quando ferisce dopo avere ucciso è uno strumento di infezione. L’aids si diffonde con la promiscuità e la dipendenza assoluta delle donne raccolte a centinaia di migliaia nei campi profughi che sono il rifugio per chi cerca scampo dalla guerra. Gli uomini che se ne vanno da casa per combattere, per cercare lavoro o per avventura e si accompagnano a tante compagne sono dei distributori permanenti di aids. L’uomo che nel suo disprezzo per la donna non sente il diritto di dichiarare il suo essere sieropositivo è una altra causa frequentissima di infezione. L’aids si moltiplica naturalmente con la poligamia. E la poligamia esclude al suo interno anche il preservativo nella gara delle mogli ad essere preferite da un marito che sceglie chi gli dà più figli e più piacere. Perfino le mutilazioni genitali a cui sono soggette ancora non poche donne africane sono causa di aids.
Eppure sulla miseria, sulle guerre, sulla oppressione delle donne africane il Papa è stato esplicito. Nel suo discorso di congedo a Luanda il Papa ha detto: «Il nostro cuore non può darsi pace finché ci sono fratelli che soffrono per mancanza di cibo, di lavoro, di una casa o di altri beni fondamentali» e ha invocato «la solidarietà fra le generazioni, fra le nazioni, fra i continenti». Al sinodo di Youndè ha condannato «i conflitti locali e regionali, i massacri e i genocidi che si sviluppano nel continente» e ha invitato alla pace e alla fraternità «perché nelle nostre vene circola lo stesso sangue di Cristo che fa di noi figli di Dio, membri della famiglia di Dio».
Nel discorso alla stadio di Youndè si è rivolto agli uomini africani: «Come San Giuseppe, cari padri di famiglia, rispettate le vostre spose». Ed è quasi sfuggito alla stampa che il Papa in nome del diritto alla salute ha chiesto cure mediche gratuite per i malati di aids. E le medicine distribuite ai sieropositivi non sono solo un intervento di terapia, ma anche di prevenzione. I farmaci non solo permettono ai sieropositivi di sfuggire alla morte e di condurre una vita quasi normale. Con la terapia contro la trasmissione del virus da madre a feto la nascita di un figlio sieropositivo diventa un caso molto raro. E un malato di aids sotto trattamento antiretrovirale ha pochissime possibilità di trasmettere la malattia ai propri figli e ai propri partner.
Ma su questo problema fondamentale la stampa e i politici che sparano titoli scandalizzati in prima pagina o fanno dichiarazioni indignate a difesa dei preservativi hanno taciuto e sono stati latitanti su uno dei più grandi drammi del nostro tempo, cioè quello di un continente che aveva la sventura di una pandemia e non poteva avere il soccorso della sua medicina. Fino a pochi anni fa, mentre magari da noi si discuteva accanitamente se mettere il ticket sull’Uniplus, un trattamento antiretrovirale per malati di aids costava all’anno dai venti ai quarantamila dollari. Per le tasche degli africani era come chiedere ad un gatto di pagarsi il veterinario. Poi con la cessione dei brevetti dalle multinazionali alle imprese farmaceutiche del Terzo Mondo il prezzo del trattamento è sceso anche a meno di trecento dollari all’anno. Qualcuno anche in Africa è riuscito a curarsi, ma per la maggioranza il cui reddito è intorno ai due dollari al giorno è impossibile riuscire a mangiare nello stesso giorno cibo e medicine.
Attualmente nell’Africa nera è curato un malato su venti. Meno ancora se si tratta di bambini il cui trattamento costa sei volte più di quello di un adulto perché i bambini, soprattutto se poveri, non fanno mercato e le case farmaceutiche producono pochissimo per loro. Attualmente farmaci gratuiti sono forniti in piccole realtà da alcune organizzazioni non governative. Ma curare vuol dire non solo fornire medicine, ma avere strade che le trasportino, ospedali e ambulatori che le distribuiscono, e perfino frigoriferi che li conservino. Tutte cose di cui ampiamente l’Africa manca rimandando così al problema generale dello sviluppo del continente e degli aiuti internazionali che possano sostenerlo. Parlando a Luanda il Papa ha chiesto «la realizzazione della promessa dei paesi sviluppati di destinare lo 0,7 per cento del loro prodotto interno lordo agli aiuti per lo sviluppo».
Per chi non lo sapesse, perché all’epoca non era ancora nato e intanto ha avuto tutto il tempo per diventare padre, questa promessa fu fatta in sede Onu addirittura nel 1970 ed è stata più volte rinnovata. Eppure quasi nessuno degli stati ricchi l’ha mantenuta. Fra gli smemorati, gli inadempienti e i morosi ci sono in prima fila quei governi europei che hanno criticato subito il Papa per la sua presunta insensibilità di fronte al problema del profilattico.
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