Lettere in redazione
Beatificazione Wojtyla, nell’ombra i predecessori
L’evento della recente beatificazione di Giovanni Paolo II mi è sembrato eccessivamente manipolato dal contorno, che ha privilegiato valori prevalentemente mediatici subordinando il significato religioso che tali circostanze dovrebbero fondamentalmente assumere.
Lungi da me l’idea di svilire l’importanza e il dono che Giovanni Paolo ha rappresentato per la Chiesa e per l’umanità, ma mi sembrava oggettivamente doveroso da parte dei più o meno verbosi commentatori ricordare l’altro recente Papa, e beato, Giovanni XXIII che, dopo molti decenni di gelo fra papato e società civile, è riuscito a reintrodurre sentimenti di bontà e tolleranza, valori religiosi ormai quasi dimenticati nel corso delle guerre della prima metà del secolo ventesimo. Non si tratta, mi pare, di stilare classifiche di meriti, ma di prendere atto della storia recente e della realtà, se non altro in considerazione della novità provvidenziale del Concilio.
Detto fra noi, poi, se la grandezza e la santità si valutano dalla capacità di cambiare in quattro e quattr’otto la storia, come classificare il contributo di Cristo che di fatto non ha influito altrettanto rapidamente sulla struttura dell’impero romano?
Se è difficile pensare «Sant’Agostino senza San Paolo» e «George Washington senza Thomas Jefferson», altrettanto difficile è immaginare «Giovanni Paolo II senza Giovanni XXIII», ha scritto Eugen Joseph Dionne Jr., sul «Washington Post». Eppure ho avuto anch’io la sensazione che nei commenti e nelle trasmissioni dedicate in Italia al nuovo beato, sia rimasto un po’ in ombra lo stretto legame tra Giovanni Paolo II e i due grandi pontefici che lo avevano preceduto e che, come Albino Luciani, Karol aveva voluto tenere legati anche nel suo nome. Credo però che non sia dipeso dalla volontà di sminuire papa Roncalli o di contrapporlo a Wojtyla, ma sia stata una semplice, anche se deprecabile, dimenticanza.
Del resto, chi ha vissuto gli anni del pontificato di Giovanni XXIII ha ormai i capelli grigi e sempre meno persone hanno consapevolezza di cosa abbia rappresentato per la Chiesa il Concilio Vaticano II, che Roncalli provvidenzialmente convocò e indirizzò sui binari giusti e che Paolo VI portò sapientemente e faticosamente alla fine. Come ebbe a dire Giovanni Paolo II il giorno in cui beatificò papa Roncalli, «la ventata di novità da lui portata non riguardava certamente la dottrina, ma piuttosto il modo di esporla; nuovo era lo stile nel parlare e nell’agire, nuova la carica di simpatia con cui egli avvicinava le persone comuni e i potenti della terra. Fu con questo spirito che egli indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II, col quale aprì una nuova pagina nella storia della Chiesa: i cristiani si sentirono chiamati ad annunciare il Vangelo con rinnovato coraggio e con più vigile attenzione ai segni dei tempi. Il Concilio fu davvero un’intuizione profetica di questo anziano Pontefice che inaugurò, pur tra non poche difficoltà, una stagione di speranza per i cristiani e per l’umanità».
Un interessante parallelo tra «I due Giovanni» è stato tracciato in un libro appena uscito in edizione bilingue (italiano e polacco) per i tipi di Emmeci (Roma 2011, 140 pp, e 5,90). Lo ha curato un pronipote oltre che biografo di Giovanni XXIII, Emanuele Roncalli, che rivela anche come fosse stato lo stesso Wojtyla, prima di morire, a esprimere il desiderio che la sua bara fosse deposta nelle Grotte Vaticane, nella medesima nicchia che a suo tempo aveva ospitato il corpo del suo predecessore e che nel 2000, al momento della beatificazione di Roncalli e conseguente traslazione in San Pietro, era rimasta vuota.
Claudio Turrini