Vita Chiesa

Bartoletti, trent’anni dopo

di Mansueto BianchiVescovo di VolterraTrent’anni fa, il 5 marzo, presso il Policlinico Gemelli in Roma, spirava mons. Enrico Bartoletti. Fu una morte traumatizzante, improvvisa, non per lui, ma per la Chiesa Italiana, per Firenze e per la Diocesi di Lucca in particolare. Ricordo lo sgomento di allora: di chi misurava il vuoto che si apriva nel cammino travagliato della Chiesa in Italia, proiettata verso il primo Convegno Ecclesiale di Roma; di chi misurava l’incertezza per il futuro della Conferenza Episcopale Italiana, da lui avviata finalmente a diventare organismo di collegialità e di comunione ecclesiale; di chi misurava l’incognita crescente di nuovi rapporti, di nuovi equilibri tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e società italiana, sullo sfondo traumatico del referendum sul divorzio.Ricordo anche le lacrime di allora: le vidi sul volto dei personaggi più diversi, talora diametralmente opposti per sensibilità ecclesiale, orientamento politico, militanza culturale o ideologica. Dicevano di una vita spesa, logorata, per tessere l’esile tela della comunione, per rannodare il filo del dialogo, per mediare instancabilmente, con coraggio e pazienza, a raggiungere il possibile ma senza spegnere la speranza. Quelle lacrime dicevano anche l’intensità del rapporto, quel suo mettersi in gioco con te, quel «dedicarsi» alla persona, che generava subito l’affetto, la devozione, l’amicizia.

Molto e molti hanno scritto di lui, analizzandone il pensiero, la linea ecclesiale, il periodo storico, la valenza spirituale. Non posso e non voglio affiancarmi a loro.

Vorrei tentare oggi, da Vescovo, di ripensare la sua figura.L’ho ammirato, come tanti, da seminarista e da prete; tante volte, in questi sei anni dacché sono vescovo, mi sono ritrovato a ricordarlo, quasi a rivisitare la sua vita, il suo «stile», le sue parole con la mia piccola esperienza. E l’ho capito in modo nuovo. Anzitutto ho misurato la distanza tra la sua «statura» episcopale e la mia, e ne sono rimasto sgomento. Ma credo anche che mi si rendano più intelligibili alcuni aspetti, per così dire, «minori» del suo stile e della sua persona.

Ripenso a quando parlava di sé, del suo essere vescovo e del suo ministero episcopale: lo faceva, forse non con tristezza, ma certo con tono dolente, quasi palesando un’interiore afflizione: si incurvava e talora scuoteva il capo. Non era teatrino od umiltà di maniera: era il turbamento, lo smarrimento di chi misurava la propria responsabilità ed aveva un’acuta percezione dei propri limiti. Egli divenne Vescovo in un tempo (anno 1958) in cui il ruolo episcopale aveva ancora un certo prestigio ecclesiale ed un forte riconoscimento sociale (tanto più a Lucca); non si trastullava in questo. Mostrava invece di misurare la propria interiorità con le esigenti radici bibliche, patristiche, liturgiche e con figure di alto profilo e di forte tensione spirituale, uno fra tutti: il Card. Dalla Costa.

Ripenso alle sue omelie, alle sue conferenze, al modo con cui celebrava. Non c’era la ricerca dell’effetto o del facile consenso: non c’era, in quei momenti, tratto dimesso o familiare, men che meno demagogia o la ricerca di risultare simpatico. C’era acuta intelligenza e sincera devozione. C’era, ancor di più, la consapevolezza nitida e vibrante di essere il maestro nella fede, il Sacerdote nel memoriale del Sacrificio. Era l’Apostolo che ammaestrava e santificava la sua Chiesa. Ancora una volta si evidenziavano le radici di una formazione culturale e spirituale segnata dalla frequentazione biblica, patristica, liturgica.

Ripenso al suo stile ecclesiale segnato da gradualità, rispetto per le persone fin quasi alla timidezza, ricerca inesausta di mediazione. Questo stile pastorale, confrontato con la linearità del suo pensiero, prospettico e coraggioso, ha indotto qualcuno, allora ed oggi, a parlare di incoerenza, di compromesso nel senso meno nobile.

Ora lo capisco fin troppo bene mons. Bartoletti, lo condivido e lo ammiro! Chi ha parlato di indecisione, di pendolarismo e di incoerenza ritiene forse che la pastorale (e la vita) debba essere una geometria, la deduzione da un teorema, il tracciato di una freccia verso il centro. La mediazione di Mons. Bartoletti era cercare unitamente il risultato e la persona; non creare nuove osservanze o nuovi legalismi da nuove teologie, ma muovere all’adesione ed alla convinzione il faticoso mondo di mente e di cuore delle persone; cercare sempre la «comunione possibile» in una stagione che fu terribile per lacerazioni e conflitti. Credo che se alla Chiesa di Lucca molto fu risparmiato fino al 1973 di vicende traumatiche, ecclesiali e personali, lo si debba alla sua passione per la Comunione, alla sua mediazione, alla sua personalissima, intensa sofferenza. Credo che se la Chiesa in Italia fino al 1976 intraprese scelte coraggiose sulla linea del Concilio (che ancora oggi perdurano) evitando il naufragio di altre Chiese europee, molto lo debba alla intelligenza, alla mediazione, alla personale sofferenza fino a morirne di mons. Bartoletti. A sintesi della sua figura, della sua vita di credente e di Vescovo, mi rimangono due parole che sempre mi tornano in mente quando vorrei rompere per l’impazienza o quando vorrei mollare per lo sgomento: «coraggio e pazienza!». Quante volte gliele abbiamo sentite dire! Sembrano quasi un ossimoro ma sono le due gambe su cui cammina un pastore! Lo capisco e lo ringrazio.

Mons. Bartoletti: trent’anni dopo. Questo e molto altro ancora rivive di lui nella Chiesa di Lucca, di Firenze e nella Chiesa in Italia; può dire su di lui la Chiesa di Lucca, di Firenze e la Chiesa in Italia come certamente non si è mancato e non si mancherà di fare anche in questa circostanza.

Intanto rimane la strada aperta, il cammino avviato del suo processo di Beatificazione chiesto all’unanimità dall’intero Sinodo della Chiesa Lucchese, liturgicamente convocato attorno al proprio Arcivescovo. Non è un riconoscimento formale: è l’intera Chiesa che riconosce l’eccezionalità del dono ricevuto da Dio, la permanente validità della strada che egli ha segnato, l’esemplarità di motivazioni e di frutti che la sua vita ha germinato tra noi.

Piccoli e mediocri come siamo, ci riconosciamo visitati da Dio, da Lui «portati in braccio», attraverso l’esile figura di questo fratello più grande, di questo fratello più forte.

La vita:Da Firenze a Roma, passando per LuccaMonsignor Enrico Bartoletti, di cui domenica scorsa ricorreva il trentesimo anniversario della morte avvenuta il 5 marzo 1976, era nato a San Donato di Calenzano, in provincia di Firenze, nel 1916. Aveva studiato a Roma ottenendo la licenza in Teologia e in Sacra scrittura.

Ordinato sacerdote nel 1939, tornò a Firenze nel 1941 divenendo poi rettore del Seminario e professore di Sacra scrittura, caratterizzandosi per il sapiente magistero nei confronti dei futuri sacerdoti e per la notevole sensibilità culturale negli anni in cui la Chiesa fiorentina era guidata dal cardinale Elia Dalla Costa e segnata dalla vivace presenza di figure come Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Nel 1958 fu nominato vescovo ausiliare di Lucca ad appena 42 anni. L’11 gennaio 1966, un mese dopo la conclusione del Concilio Vaticano II, divenne amministratore apostolico e quindi arcivescovo fino a quando Paolo VI, nel settembre 1972 lo chiamò alla segreteria della Conferenza episcopale italiana.

Nel corso dell’omelia per l’inaugurazione della decima assemblea generale della Cei, l’11 giugno 1973, Papa Montini presentò il «Presidente e fratello nostro carissimo, il signor cardinale Antonio Poma» e con lui «il nuovo Segretario della Conferenza medesima, monsignor Enrico Bartoletti, parimente da salutare in questo primo incontro comunitario nell’esercizio delle sue funzioni; la sua presenza ci ricorda la riconoscenza e la stima, che noi dobbiamo al suo valente predecessore, monsignor Andrea Pangrazio; e ci fa pensare alla pronta generosità, con cui monsignor Bartoletti, lasciando la sede eletta di Lucca, ha assunto, con la saggezza e l’alacrità che tutti conoscono, l’ufficio non semplice, né lieve della Segreteria della vostra Conferenza».