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Bagnasco, prolusione al Consiglio permanente della Cei
Pubblichiamo il testo integrale della Prolusione del card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, in apertura dei lavori del Consiglio Permanente (Roma 26-28 gennaio 2009).
Venerati e cari Confratelli,
all’indomani delle festività nelle quali ci è stato dato di vivere «l’atmosfera della grazia» del Natale, mentre procede quel «pellegrinaggio del cuore, insieme con Paolo, verso Gesù Cristo» (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2008), e all’inizio ancora del nuovo anno 2009 che, «nel 4° centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio», si annuncia ricco di sollecitazioni sul fronte del rapporto tra la fede e la scienza (cfr. Benedetto XVI, Omelia nella solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2009), ci ritroviamo per la consueta sessione invernale del Consiglio Permanente della nostra Conferenza Episcopale, avendo all’ordine del giorno una serie di importanti argomenti.
Ma prima desidero dare il più fraterno benvenuto al nuovo Segretario Generale, S.E. Mons. Mariano Crociata, ed esprimergli a nome mio e di tutti la più viva stima e gratitudine per la pronta obbedienza alla scelta del Santo Padre, e per il generoso e puntuale servizio che già in questi primi mesi ha svolto in profonda comunione con la Presidenza. Il nostro pensiero riconoscente ed augurale non può non ritornare a S.E. Mons. Giuseppe Betori, che per non pochi anni ha servito la nostra Conferenza con intelligente dedizione, ed ora svolge il suo ministero come Pastore della Chiesa di Firenze.
Il panorama nel quale ci collochiamo ci appare, rispetto all’ultimo incontro, notevolmente cambiato. Ne prendiamo atto, desiderando procedere nel nuovo scenario anzitutto attraverso un collegiale discernimento, che ci aiuti a ponderare meglio le circostanze nelle quali deve compiersi quell’opera di evangelizzazione che è affidata alla nostra responsabilità. Consapevoli peraltro che, nell’esercizio del compito episcopale, abbiamo dinanzi l’esempio del nostro Papa Benedetto XVI, che non cessa di indicare «quel Dio che parla agli uomini come ad amici» (All’Angelus, 4 gennaio 2009). E in un momento nel quale non manca purtroppo nei media nazionali qualche voce di critica ideologica e preconcetta, desideriamo qui esprimere il nostro attaccamento alla sua persona e la gratitudine profonda per il suo insegnamento e la sua opera, insieme alla conferma di una collaborazione leale e incondizionata. La comunità dei credenti deve vedere noi Vescovi formare un tutt’uno con il Vicario di Cristo, a garanzia dell’unità visibile della Chiesa stessa.
1. Ciò su cui vorrei, prima di altro, invitare a riflettere è la questione di Dio, che non è certo inedita, ma la gente del nostro tempo la vive con accenti talora inediti. Molto di quel che succede nel sistema della vita odierna sembra procedere secondo una logica del tutto contraria a quella di un Dio necessario e provvidente. Piuttosto sembra assecondare l’idea che, se proprio un Dio deve esserci, non può non porsi come un’entità lontana, staccata dall’orizzonte degli uomini e delle donne di oggi, indifferente ai loro progetti di emancipazione, dunque in linea con una percezione del tutto individualistica, che esaspera l’idea dell’autonomia e dell’autosufficienza di sé e del proprio destino. Eppure, anche in un impianto così autoreferenziale, è sufficiente un intoppo non prevedibile, un dolore cieco, un inconveniente spiazzante, una domanda più impertinente, una gioia più sublime perché, di colpo, tutto si afflosci, lasciando il singolo sconnesso e smarrito. Si comincia col sentenziare che «Dio è morto» e si finisce nella solitudine umana più sconsolata (cfr. Benedetto XVI, Omelia in apertura del XIII Sinodo mondiale dei Vescovi, San Paolo fuori le Mura, 5 ottobre 2008). Si crede di essersi spinti avanti, dando soluzione magari a quesiti da brivido, e ci si ritrova invece in una recessione arida e amara. Si pensa di aver toccato il massimo di ebbrezza, e l’attimo dopo ci si scopre in una alienazione debilitante.
Vero è che l’uomo di oggi stenta a trarre lezioni dal vissuto altrui, fa fatica a credere che gli esiti di esperienze affrontate in altre epoche possano riguardarlo da vicino, e infatti non tollera confronti e non sospetta analogie. Egli ha bisogno di toccare con mano, e gioca se stesso come se la generazione cui appartiene fosse la prima a trovarsi così sfidata. Ma è proprio qui dove lo spirito del tempo consuma il suo delitto più grave: nel lasciar credere che l’uomo d’oggi debba fare titanicamente da sé, che il Dio dei padri sia finito in un Olimpo patetico e inefficace, e che la propria vita priva ora di condizionamenti − possa scorrere via, impavida e brillante. Se appena ci pensa, scopre tuttavia che non è di poco conto ciò in cui è ingannato. E l’impostura più grande riguarda proprio il suo destino: egli «deve imparare o re-imparare che Dio non è suo nemico» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale Francese, Lourdes 14 settembre 2008). Ecco il punto, ciò a cui − soprattutto − ci sentiamo chiamati noi Vescovi: annunciare ai cittadini di questo Paese e del mondo che Dio, in Gesù Cristo, li ama senza limiti né condizioni, li ama anche se loro non riescono a vederlo, li ama e li vuole felici fino a dare la sua stessa vita.
2. Per un prezioso disegno di grazia, proprio in questa stagione, e precisamente nel mese di ottobre, si è svolto un appuntamento importante come il Sinodo mondiale dei Vescovi dedicato a «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa». È stata un’esperienza profonda, sperabilmente destinata a lasciare una traccia sensibile nel vissuto ecclesiale. Si potrebbe dire che è stata un’occasione tutta speciale per ricollegarsi al Concilio Vaticano II, in vista di una nuova e più completa recezione di una delle sue quattro costituzioni portanti, la Dei Verbum. La sacra Tradizione, infatti, e la Sacra Scrittura «sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’Egli è» (Dei Verbum, n. 7). Va da sé pertanto che nessuna marginalizzazione della Parola di Dio, resa manifesta anzitutto nella Sacra Scrittura, può essere consentita. Anzi, questa «solo [ ] può cambiare in profondità il cuore dell’uomo, ed è importante allora che con essa entrino in una intimità sempre crescente i singoli credenti e le comunità» (Benedetto XVI, Omelia per l’Apertura del Sinodo mondiale, 5 ottobre 2008). Per questo non bisogna stancarsi di insistere sulla contemporaneità delle Scritture rispetto a chi legge: sono testi rivolti non soltanto al passato e tanto meno ad esso circoscritti, ma al presente, anzi sono «il presente» di Dio, che sempre ci chiama in Cristo. Questa d’altra parte è la «chiave ermeneutica» per comprendere davvero le Scritture. La Chiesa non ha paura del metodo storico: essa sa bene, come ha spiegato il Santo Padre, che «la storia della salvezza non è mitologia, ma vera storia, ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica» (Intervento al Sinodo dei Vescovi, 14 ottobre 2008). Ma la Bibbia non è neppure un semplice racconto cronachistico: essa trascende la dimensione fattuale, per aprirsi all’accoglienza del progetto di Dio sul mondo: «Non va spogliata ha avvertito il Papa − dell’elemento divino, ma deve essere letta nello stesso Spirito in cui è stata composta» (All’Angelus 26 ottobre 2008). Per questo, l’approccio storico-critico deve accompagnarsi costantemente al metodo teologico-spirituale che, facendo perno sull’unità delle Scritture, la coerenza con la tradizione viva della Chiesa, e l’illuminazione della fede, porta all’incontro con il Cristo pasquale nella comunità dei credenti.
Naturalmente siamo ora in attesa che venga promulgata l’esortazione apostolica con la quale il Santo Padre rilancerà i risultati della elaborazione sinodale. Nel frattempo, non sbaglieremo se ci impegniamo ad avvantaggiare sempre di più l’accesso alla Sacra Scrittura con il passo del noi rappresentato dalla comunità istituita da Dio, e dunque evitando le derive di un soggettivismo eccentrico e capzioso. Il che implica di valorizzare tutte le occasioni per un accostamento personalizzato, pure in ambito familiare come di gruppo: per questo è cruciale che vi siano sacerdoti nelle singole comunità. Preghiamo davvero perché questi non manchino, come accoratamente hanno auspicato i 254 Padri sinodali giunti da ogni parte del mondo. In diversi loro interventi si è raccomandato di acquisire familiarità con il silenzio amico della Parola, e ad un tempo di incentivare le esperienze di una lettura orante della Parola stessa. Una circostanza favorevole è rappresentata dal Lezionario liturgico, e dal ciclo triennale di letture bibliche che esso veicola e che può diventare la pista per itinerari di un certo respiro. È necessario comunque non perdere alcuna circostanza per un avvicinamento anche occasionale al testo sacro, facilitato da sussidi agili e altri strumenti predisposti allo scopo. L’importante è che passi la consapevolezza che la Parola di Dio è «la vera realtà sulla quale basare la propria vita» (Benedetto XVI, Meditazione al Sinodo dei Vescovi, 6 ottobre 2008).
Questo rinnovato amore al Libro di Dio ci fa sentire particolarmente vicini ai fratelli ebrei nel cui seno è nato l’antico Testamento. Purtroppo, di recente, singolari riserve sono venute da parte di alcuni esponenti dell’assemblea rabbinica italiana, nel quadro di una loro non partecipazione per quest’anno alla Giornata «per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei», che da qualche tempo viene proficuamente celebrata in alcuni Paesi, compreso il nostro. Se da una parte ci auguriamo che queste difficoltà abbiano presto modo di rientrare, non possiamo certamente apprezzare le parole ingiuste pronunciate verso l’azione di Benedetto XVI. Siamo testimoni della cordiale istanza teologica che muove irrinunciabilmente il Santo Padre verso questi fratelli. E tale atteggiamento noi lo condividiamo con lui.
A proposito, poi, della recentissima revoca della scomunica alla Fraternità di San Pio X, mentre esprimiamo il nostro apprezzamento per l’atto di misericordia del Santo Padre, manifestiamo il disappunto per le infondate e immotivate dichiarazioni di uno dei quattro Vescovi interessati circa la Shoah; dichiarazioni peraltro rese alcuni mesi or sono e solo adesso riprese con intento strumentale; dichiarazioni già ripudiate dalla stessa Fraternità.
3. Alla scuola delle Scritture la Chiesa matura il suo «sì» a Dio; è questo l’atteggiamento che la fa essere se stessa prima di ogni altra cosa. È il «sì» di Gesù Cristo alla Chiesa, così trabocchevole e misericordioso, a sollecitare il «sì» della Chiesa a Dio Padre, attraverso il Figlio. E nel «sì» che a sua volta essa esprime, la Chiesa scorge il massimo della propria libertà: solo nell’unificazione della sua volontà con quella divina la Chiesa trova se stessa e diventa immensamente aperta agli altri. Come ci piacerebbe che le persone a cui ci rivolgiamo intuissero tutte il dinamismo che pone in essere la Chiesa e la sospinge intrepida nel mondo!
Va registrata invece qualche posizione secondo cui è talora attribuita alla Chiesa la volontà «di alzare muri e scavare fossati». Sarebbe la Chiesa dei «no»! Ora, non c’è dubbio che la Chiesa sperimenti in questo radicale fraintendimento la sua stessa missione: da una parte il suo bisogno e la sua fedeltà a Cristo, e dall’altra il suo presentarsi agli indifferenti, agli incerti e ai lontani, per quello che è, amica dell’umanità. Stando a certe raffigurazioni mediatiche, la Chiesa sembra interessata solo a questioni di etica, e in particolare a quanto è riconducibile in un modo o nell’altro all’esercizio della sessualità. In realtà, il più della Chiesa è condensabile nel «sì» con cui risponde all’amore del Signore indicando Lui a tutti. Per questo parla principalmente di Dio e della vita eterna, destinata cioè a non finire. Parla di speranza e di felicità. Ci si chiede piuttosto se in determinate componenti élitarie della nostra cultura non si stia riaffacciando, al pari di quanto è accaduto in altre stagioni (cfr. Benedetto XVI, Omelia al Pontificio Santuario di Pompei, 19 ottobre 2008), un anticlericalismo interessato a obnubilare il volto della Chiesa, così che appaia per lo più screditabile, e il suo messaggio risuoni come incoerente e patetico.
Possiamo dire che non è questo il sentire diffuso del popolo italiano, e ci consola soprattutto sapere che all’interno di questo stesso popolo ci sono figure splendide di cristianesimo vissuto, che godono di larghissima estimazione. Come Vescovi, se da una parte è necessario anche per noi perseguire sempre un’umile revisione della propria condotta, dall’altra non ci sottraiamo al dovere di interpretare la testimonianza della Chiesa come un «segno di contraddizione» rispetto allo spirito del mondo (cfr Lc 2, 34-35 e Benedetto XVI, Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 gennaio 2008). Alcuni «no», che ad un certo punto la Chiesa reputa di dover dire, sono il risvolto esatto di un’etica del «sì», e ancora più a fondo di un’etica dell’amore, in nome della quale non si può, a danno di chicchessia, scambiare il male per il bene. Quando ci viene detto che la Chiesa non deve ingerirsi in certi argomenti − affermava il Santo Padre − allora noi possiamo solo rispondere: «Forse che l’uomo non ci interessa?» (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006).
Se, com’è nostro dovere, allarghiamo ancor più lo sguardo e vi includiamo la gamma dei rapporti che nel nostro Paese intercorrono tra la Chiesa e le pubbliche istituzioni, non possiamo non gioire per la recente visita ufficiale che Benedetto XVI ha effettuato il 4 ottobre scorso, festa di San Francesco d’Assisi, al Presidente della Repubblica Italiana, a restituzione di quella che lo stesso On. Giorgio Napolitano aveva compiuto in Vaticano all’inizio del suo mandato. Sono emerse ancora una volta convergenze e sintonie in ambito internazionale come nel campo educativo. Annotava nella circostanza il Papa: «Non vi è ragione di temere una prevaricazione ai danni della libertà da parte della Chiesa e dei suoi membri, i quali peraltro si attendono che venga loro riconosciuta la libertà di non tradire la propria coscienza illuminata dal Vangelo» (Discorso in Quirinale, 4 ottobre 2008). Dalla successiva visita compiuta dal Pontefice all’Ambasciata Italiana presso la Santa Sede, il 13 dicembre, sono venute ulteriori, limpide conferme.
4. Ma non possiamo guardare solo in casa nostra. Dobbiamo volgere lo sguardo al mondo e alle diverse, purtroppo perduranti situazioni di discriminazione ai danni dei cristiani. Due in particolare i fronti critici che negli ultimi mesi hanno tenuto desta la nostra preoccupazione. Anzitutto, la sorte dei cristiani dell’Iraq, moltissimi dei quali − com’è noto − hanno preferito fuggire e ripiegare nei campi profughi aperti nei Paesi vicini. È un sopruso intollerabile quello di escludere dalla civile convivenza una componente della società a motivo della propria appartenenza religiosa. «I cristiani che da sempre abitano l’Iraq − diceva sabato scorso il Papa − sono suoi cittadini a pieno titolo, con i diritti e i doveri di tutti» (Discorso ai Vescovi della Chiesa Caldea in visita ad limina, 24 gennaio 2009). Non ci sarà, nel nuovo Iraq come in generale nell’intera area mediorientale, una vera normalizzazione se anche ai cattolici non verrà consentita un’effettiva libertà di culto e insieme una libera partecipazione ai vari livelli della vita sociale e politica. L’altra situazione per la quale abbiamo molto trepidato riguarda i cristiani in India, in particolare nella regione dell’Orissa. Il fatto che la Corte suprema di quella nazione abbia ufficialmente chiesto al governo regionale di assicurare una giusta protezione ai cristiani locali, ingiungendo che ogni ritiro delle forze paramilitari poste a controllo dell’area teatro delle violenze debba essere prima approvato dal governo centrale, sta a dire la drammaticità di quella emergenza. I cristiani attualmente ospitati in vari campi, e quelli rifugiatisi nella foresta, non si sentono sicuri e temono che rientrando nelle loro case potrebbero essere ancora violentemente attaccati. Eppure, una soluzione va quanto prima trovata, e si spera che gli appuntamenti elettorali in calendario, anziché una distrazione, siano l’occasione preziosa per cercare soluzioni di garanzia per tutte le minoranze. «Il cristianesimo è una religione di libertà e di pace», sottolineava il Papa agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Come Chiesa italiana non mancheremo di garantire ai nostri fratelli nella fede solidarietà e amicizia, insieme a tutto l’aiuto possibile.
Un pensiero e una preghiera, infine, vanno alle due sorelle del Movimento contemplativo missionario Charles De Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, rapite il 9 novembre scorso al confine tra Kenya e Somalia. Confidiamo in una loro pronta liberazione, per la quale c’è chi si sta adoperando. Sappiano che molte comunità e molti fedeli, oltre al Papa, pregano per loro. Ugualmente trepidiamo per il volontario laico della Croce Rossa Eugenio Vagni, dal 15 gennaio nelle mani della guerriglia che, nelle sue diverse articolazioni, sta da troppo tempo infestando le Filippine. Anche per lui stentano ad affiorare spiragli di trattativa per quella liberazione che è invece nei voti di tutti noi. Il 15 gennaio scorso, un missionario della Consolata originario del cuneese, padre Giuseppe Bertaina, è stato ucciso per una rapina a Nairobi (Kenia) dopo ben 57 anni di dedizione all’Africa. Affidiamo la sua anima al Signore della vita e chiediamo consolazione per i parenti, i confratelli, gli amici. La sua offerta diventi, per quel tribolato e amato Continente, ragione di speranza.
Grande apprensione hanno suscitato nelle nostre comunità le vicende mediorientali, con la ripresa delle ostilità tra gli israeliani e i palestinesi soprattutto di Hamas. La via di un assetto pacifico dell’area − con la presenza da tutti accettata ed entro confini sicuri dello Stato di Israele insieme alla formazione di un analogo Stato della Palestina − che aveva conosciuto momenti non remoti di fondato ottimismo, è ritornata in alto mare, e per ora non si intravvedono varchi concreti che consentano di ben sperare. L’opzione militare, che ad un certo punto il governo israeliano ha finito per privilegiare, non poteva non suscitare un crescente generale allarme, e un vivo turbamento per le vittime soprattutto tra i civili e i bambini. La larga disapprovazione che questa scelta strategica ha suscitato sarebbe stata tuttavia più efficace se, in precedenza, si fossero condannate anche le incursioni missilistiche contro postazioni civili israeliane da parte di Hamas. Una «massiccia violenza (è) scoppiata nella striscia di Gaza, in risposta ad altra violenza», ha non a caso osservato Benedetto XVI (cfr Omelia nella XLII Giornata mondiale della Pace, 1 gennaio 2009). La storica rivalità tra le parti in conflitto è destinata a non trovare le vie concrete per stemperarsi, se l’opinione pubblica internazionale, adottando una visione parimenti critica ed equilibratamente costruttiva, non farà adeguata pressione su tutti i protagonisti del problema mediorientale. Solidarietà forte e cordiale esprimiamo in particolare alla comunità cristiana di Gaza e, accogliendo gli accorati, ripetuti, puntuali appelli che Benedetto XVI ha rivolto alle parti in conflitto e a tutti i governanti e cittadini di buona volontà, vogliamo continuare, anzi intensificare se possibile, la preghiera affinché Dio tocchi il cuore degli uomini, e la tregua nel frattempo concordata si consolidi in vista di soluzioni positive più stabili.
5. Il tema assegnato quest’anno alla Giornata mondiale del 1° Gennaio: «Combattere la povertà, costruire la pace», con il Messaggio che lo illustrava e l’indotto di riflessioni che ne è scaturito, si sta rivelando un contributo notevole e provvidenziale per specificare meglio le cause della crisi economica. L’aver individuato nell’impegno a combattere la povertà l’elemento più dinamico per costruire scenari di pace, ha anche confermato la comunità ecclesiale sul primato della carità, quale è testimoniato da tutta la tradizione (cfr At 4,32-36; 1Cor 16,1; 2Cor 8-9: Gal 2,10) e fino al magistero più recente. Mi piace citare qui, insieme alla Populorum Progressio (1997) di Paolo VI, anche la Nova Pendent che Pio XI scrisse nel 1931, proprio per mitigare gli effetti della grande crisi del 1929. La rilevanza assegnata alla povertà è un indizio decisivo offerto all’intelligenza del mondo intero, perché affini bene la prospettiva in cui agire per rispondere efficacemente alla crisi. La crisi è scoppiata per le speculazioni avvenute in campo finanziario, grazie all’ingordigia di guadagni i più consistenti possibile nei tempi più brevi, ed è deflagrata poi per quella contagiosa euforia del vivere al di sopra delle proprie possibilità e nell’indifferenza dei segnali che pur avvertivano l’uragano nell’aria. Ora è facile che gli effetti più dolorosi si riversino soprattutto su quella parte di popolazione che in realtà non ha mai scialacquato, e che già prima era in sofferenza per una cronica ristrettezza economica.
Del «complesso fenomeno della globalizzazione» già Giovanni Paolo II aveva rilevato «una spiccata caratteristica di ambivalenza» (Discorso ai Dirigenti di sindacati e grandi società, 2 giugno 2000); e ora Benedetto XVI va più a fondo, segnalando che, seppur elimina certe barriere, la globalizzazione ne crea altre, tanto da provocare derive per buona parte incontrollate, che agli occhi dei poveri appaiono insormontabili. Ormai non bastano dunque piccoli aggiustamenti, né può bastare riaffidarsi a qualche buona stella. Non a caso il Papa domanda: «Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e illuminante?» (Omelia per la XLII Giornata mondiale della Pace). Infatti, solo se si entra in una dinamica di questo tipo, è possibile trasformare un capitalismo iniquo in uno più compatibile, il coinvolgimento della società civile in un ruolo decisivo; è possibile la riforma profonda degli organismi di coordinamento internazionale, così da garantire condizioni più accettabili all’economia dei Paesi poveri. Bisogna tuttavia saper andare oltre la fenomenologia di tipo finanziario o economico, per scorgere il volto meno immediatamente visibile, ma non meno gravido di conseguenze per la vita nostra personale e dell’intera società: l’involuzione antropologica ed etica. Dunque, le onde sono più estese e le cause prime più profonde.
6. Da più parti, in questi giorni, s’è detto che la crisi potrebbe diventare un’opportunità. Non vi è dubbio che, per certi versi, senza la crisi probabilmente non si sarebbe trovata la forza ad esempio per riconoscere che non si può vivere sopra le righe e bisogna fare un passo indietro, per quanto arduo, ricuperando la capacità e il gusto del risparmio, della misura, del non spreco, dei consumi sostenibili. Valori, questi, che insieme alla solidarietà verso i meno garantiti come nei riguardi delle generazioni future, appartengono al cespite della nostra cultura. Non a caso si osserva che la crisi probabilmente morderà da noi un po’ meno che altrove. Il che è interessante non solo rispetto alla congiuntura presente: ci può insegnare infatti che, senza smettere di guardare al mondo globale, dobbiamo discernere tra le innovazioni con intelligenza, senza rincorrere miraggi troppo promettenti e incantatori. Allargando per un momento la riflessione, quando si tratta di valori fondamentali come la vita e la morte, la famiglia e il matrimonio, la dignità della persona, la società e la religione in una parola i veri diritti fondamentali, a qualcuno può apparire che siamo un passo indietro rispetto ad altri Paesi; ma viene il momento, prima o dopo, in cui si scopre che in realtà si era un passo in avanti! È da ricordare. Anche in questo senso la crisi può disvelare le sue virtualità educative: sia nei riguardi delle persone già adulte, che però devono saper modificare il proprio modo di pensare e i propri comportamenti, sia verso i più giovani, ai quali apparirà più chiaro che non basta aver di mira l’acquisizione di abilità tecniche: occorre educare le emozioni, impegnarsi sulle virtù personali e sociali, dar valore «anche» all’anima, giacché questa è indispensabile per vivere e vivere bene. Se − ormai è chiaro − un’economia virtuale ha creato una visione virtuale anche della vita, allora bisogna riportarsi al centro di sé, e da lì riprendere e semmai raddrizzare le scelte da compiere nei vari ambiti, comprese quelle economiche.
La crisi è noto − tocca i singoli, le famiglie, le comunità. Quel lavoro che già prima era precario, ora lo è di più, e quando si interrompe lascia senza garanzie di affidabile sussistenza. Ma anche una quota parte significativa di occupazione stabilizzata si trova e − Dio non voglia − si troverà nei prossimi mesi ancor più colpita: in certe zone la crisi è già emergenza. L’occupazione nel settore non pubblico poi, in metà dei casi circa, non ha ammortizzatori sociali. Se un’impresa è costretta a ridurre o ad azzerare l’orario di lavoro, le famiglie dei dipendenti, specie quelle monoreddito, entrano in una fase critica con ripercussioni gravi sul fronte degli affitti, dei mutui, o dei debiti comunque contratti. Le famiglie che davano una mano ai vecchi genitori, con pensioni minime e in affitto, ora non riescono a farlo più, così come possono meno nei riguardi dei figli inoccupati o con «contratti» simbolici. Come Pastori diamo voce alla gente e alle preoccupazioni generali che non sono poche né piccole; ma sarebbe un guaio ancora peggiore seminare panico e uccidere la speranza. La sfiducia, infatti, accresce il disorientamento e paralizza la capacità di reagire in modo costruttivo. Noi abbiamo fiducia! In che cosa? Forse in qualche fortunata stella per cui alla fine tutto tornerà come prima? O in qualche nuovo logaritmo finanziario o economico? Abbiamo fiducia in Dio e abbiamo fiducia nell’uomo, nel suo nativo buon senso. Fiducia nella sua capacità di imparare, nonostante tutto, anche dai propri errori. E questo ci stimola a farci discepoli più umili e attenti della vita sia nella buona che nella cattiva sorte: nella buona per continuare a sviluppare il bene anche se arduo, nella cattiva per combattere il male ed evitarlo per quanto seducente. Ma dobbiamo farlo insieme! Guai se si insinua un meccanismo di chiusure reciproche, che accentuano le solitudini e lasciano nell’abbandono i più bisognosi di aiuto. Non se ne esce da soli: da questo, come da altri momenti difficili, si può uscire solo insieme. È il messaggio che la Cei lanciò anche nel 1981, con il documento «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese»: ebbene, quell’appello noi oggi lo ripetiamo con forza. Mentre lo Stato deve certo fare per intero la sua parte. A livello centrale alcune decisione destinate ad arrecare sollievo ai meno abbienti sono state adottate: penso alla social card e al bonus familiare. Provvedimenti che, al di là di ogni altra considerazione, devono ora arrivare celermente a destinazione: in questo genere di iniziative si sperimenta purtroppo una macchinosità eccessiva, senza dire che, sul fronte del bonus, le famiglie con figli a carico rischiano ancora una volta di essere le più penalizzate. Potrebbe essere questa infatti l’occasione nella quale cominciare a sperimentare nel piccolo la logica di quel «quoziente familiare» che erroneamente viene pensato come strumento da adottare in tempi di bonaccia. Vero è, invece, il contrario. È nelle situazioni di crisi che si possono, e per certi versi si debbono assumere − pur con la gradualità evidentemente necessaria − le strategie più innovative e ad un tempo effettivamente più incisive. Dobbiamo entrare con passo deciso in quell’ottica per cui i figli non sono, non devono essere, una penalizzazione, quasi fossero un privilegio o un lusso. Se invece, com’è vero, sono delle risorse anche per l’intera società, allora lo si deve vedere.
In altre parole, la realtà delle famiglie, su cui ancora una volta cade il peso maggiore della crisi, ha bisogno di ricevere la considerazione che merita, il riconoscimento non solo sociale ma anche politico. Non deve sentirsi sopportata, la famiglia, né tollerata: essa infatti è il nucleo vitale su cui si intesse la comunità. Non è un peso ma un soggetto economico, non è un terminale ma un volano per l’uscita dalla crisi e la crescita comune. Guai a distrarsi dalle famiglie, e guai a distrarre dalla famiglia la considerazione che per intero le è dovuta, nell’interesse concreto ed effettivo di tutti nessuno escluso. Sul versante ecumenico intanto stanno arrivando alla famiglia attestati importanti. Il recente forum cattolico-ortodosso su “Famiglia: un bene per l’umanità”, con la dichiarazione congiunta che è scaturita, ne è una prova. Difendere e propugnare la famiglia non è − diceva il Papa anche di recente a un gruppo di confratelli vescovi − un modo per fare politica: è operare invece per ciò che ne è il presupposto, ossia che esista una comunità umana aperta al futuro (cfr Discorso ai Vescovi dell’ Ecuador in visita ad limina, 16 ottobre 2008).
È facile constatare quanto, in momenti come l’attuale, da parte di chi è in difficoltà venga spontaneo guardare alle parrocchie, con il loro reticolo facilmente abbordabile, e che notoriamente non chiudono la porta ad alcuno, perché vi si trova sempre chi accoglie. I nostri Sacerdoti, a partire dai Parroci, presiedono le loro comunità e lasciatemi dire spesso presidiano il territorio dove la vita della gente si svolge con i suoi tempi, le sue tradizioni, i suoi luoghi di riferimento. Lo fanno da pastori, con la simpatia di tutti e la collaborazione di molti, persone e istituzioni. È significativo che, in una recente indagine, il 91% degli intervistati cattolici e no abbia dichiarato che la parrocchia è una realtà importante.
Ci sono servizi ormai stabili, come i centri di ascolto, i fondi anti-usura, le iniziative per le emergenze familiari (microcredito e simili) che intervengono regolarmente, ma che in questa stagione vedono ampliarsi non poco le richieste. Ci sono poi le domande d’aiuto nascoste per pudore, e oggi provenienti da soggetti nuovi, a cui occorre provvedere con disponibilità ulteriori. Le nostri parrocchie stanno affrontando la situazione con la consueta prontezza, moltiplicando se possibile gli sforzi e cercando di reperire sempre nuovi mezzi. Il volontariato laicale si sta rivelando una leva indispensabile e svolge realmente quel ruolo di sussidiazione che sul territorio consente di coprire falle improvvise ed emergenze croniche. La nostra Chiesa è mandata per l’annuncio del Vangelo e la formazione delle coscienze: per questo non si tira indietro. I suoi compiti hanno compimento nella carità, e si manifestano nella prossimità alle persone. Infatti, mette a disposizione una parte del tutto rilevante dei fondi dell’8xmille, e ulteriori mezzi vengono di continuo reperiti attraverso raccolte, offerte, recuperi da altre voci. In ogni Diocesi si sta moltiplicando l’abituale e noto impegno, e così fa la Caritas nazionale, insieme a quelle diocesane e parrocchiali. Ma non vogliamo né possiamo surrogare lo Stato e gli enti locali. Sperimentiamo che le nostre possibilità sono comunque limitate, e non sono certo sufficienti a coprire il bisogno emergente. Anche per questo sollecitiamo quanti operano sul territorio a mobilitarsi e, quando serve, a convergere per una migliore utilizzazione delle risorse e un potenziamento della rete di aiuto. Invitiamo ogni famiglia, per quanto affaticata, a non rinunciare alla carità, a non abbandonare quei gesti di offerta − per situazioni, come le missioni, solo apparentemente lontane − che tuttavia aiutano a vedere bene anche da vicino e puntare oltre la crisi. La Quaresima, che prenderà il via fra alcune settimane, per la nostra comunità ecclesiale sarà un tempo forte in cui, attraverso le opere che le sono tipiche (la preghiera, il digiuno e l’obolo), rafforzeremo la carità e affineremo spiritualmente la nostra speranza.
7. Vorremmo assicurare che nell’essenzializzare le pretese commisurandole ai bisogni degli altri, la riscoperta del valore del sacrificio, della rinuncia, del bene che costa, non può che purificare la stessa cultura e renderla più aderente alla realtà della vita. Per questo riteniamo che l’attuale sia un’occasione anche per dare un taglio alla cultura dell’immagine come alla politica dell’effimero, e ciò che alimenta miti e illusioni. È giusto cioè che il Paese si scopra concentrato su ciò che costruisce e, scorgendo i suoi reggitori, i suoi magistrati, i suoi imprenditori protesi finalmente alle riforme indispensabili per svecchiare un apparato appesantito e farraginoso, possa in cuor suo andare fiero della sua classe dirigente. Se il Paese deve prendere atto di verità amare sotto il profilo dei conti, ha un diritto in più per conoscere la verità dei fatti senza distorsioni mediatiche, senza sospetti continui e polemiche alimentate ad arte. È preferibile infatti cercare di parlarsi anziché contrapporsi sistematicamente, nell’illusione di riservarsi la mossa più intelligente. Così è più vantaggioso riconoscere i meriti altrui anziché denigrarli per apparire più capaci.
La scuola è stata negli ultimi mesi un argomento di confronto anche vivace, e in alcuni casi di polemiche anche vistose. Ma nulla è sprecato quando si vuole davvero il bene di questa istituzione nevralgica. Naturalmente non può non farci piacere che sui più recenti passi di riforma che sono stati compiuti si sia registrato un concorso di volontà, dopo che si erano create per questo le condizioni. Nel loro insieme, come nelle singole articolazioni, la scuola e l’università hanno diritto di attendersi dal Paese il meglio, in termini di premura morale, di attenzione vigile, di risorse concrete. Questo non significa indugiare dinanzi a storture, sprechi e inefficienze. Anzi, proprio perché non si possono sottrarre mezzi al comparto che più di altri dà sul futuro della comunità, bisogna evitare scelte inutilmente costose. Sì, tutta la scuola e tutti i giovani che in essa vivono, devono avvertire che la collettività nazionale simpatizza con loro, e per questo vi impegna docenti e dirigenti preparati, motivati ed esigenti.
Su questo versante vorremmo che l’opinione pubblica sostasse per un istante dinanzi alla «pretesa» che, pure in un momento di difficoltà generali, osiamo avanzare circa la valorizzazione − nell’unico sistema scolastico nazionale − delle scuole cosiddette libere e parificate. Noi Vescovi non abbiamo un interesse partigiano su queste scuole, e neppure, quando ci capita di raccomandarle alle scelte di budget che doverosamente spettano alla politica, lo facciamo perchè un solo centesimo arrivi nelle nostre casse. La Chiesa non lucra sulla scuola, e per la verità ci rimette solamente; ma lo fa sempre con forte convinzione. Allo stesso modo, tutti i soggetti sociali devono sentirsi coinvolti fino a mettere del proprio per la formazione delle nuove generazioni. E tuttavia se si accetta che la pluralità delle esperienze, dei modelli, dei progetti sia − in un quadro di compatibilità accertato e via via controllato − un elemento che dall’interno della scuola la rinnova di continuo, allora ci permettiamo di segnalare che non la scuola libera deve elemosinare, ma la società e la politica sono chiamate responsabilmente a corrispondere per quanto loro possibile, e come i Paesi europei fanno da anni senza vecchi pregiudizi ideologici. Il rischio che si corre infatti è che passi l’idea di una Chiesa che chiede privilegi per sé, quando invece impegna del suo affinché una serie di esperienze resistano sul territorio, in risposta alla domanda del territorio stesso, come delle famiglie che vi vivono. Come Pastori non possiamo non preoccuparci se un territorio non può far fronte alla domanda di istruzione, e di istruzione libera, che viene dalla cittadinanza. Fin quando il personale ecclesiastico poteva in gran parte coprire le esigenze poste dall’insegnamento e dall’assistenza, si provvedeva e basta, senza quasi chiedere aiuti o integrazioni. Oggi, con l’indispensabile coinvolgimento del personale laico, qualificato e da retribuire dignitosamente sulla base dei parametri comuni, le nostre scuole sono allo stremo. E infine si decidono a chiedere qualcosa, che è comunque poco rispetto al molto, molto di più che quel loro servizio costerebbe se dovesse essere esplicato direttamente dallo Stato. Esempio preclaro di una sussidiarietà vantaggiosa per la collettività. Ecco perché siamo grati a quanti con abnegazione operano in queste scuole aperte a tutti gli italiani, senza discriminazioni; e siamo nel contempo grati al Papa che anche di recente ha voluto unire la sua voce alla nostra per dire che va favorita «quella effettiva uguaglianza tra scuole statali e scuole parificate», così da consentire «ai genitori opportuna libertà di scelta circa la scuola da frequentare» (cfr Discorso al Centro studi per la scuola cattolica della Cei, 25 settembre 2008). In altre parole, si tratta di dar compimento a quel sistema pubblico integrato che è scaturito da una legge importante approvata dal Parlamento nazionale nel marzo 2000. Aggiungo che nessuno si attende il tutto subito, ma almeno che non si torni indietro quando sono in ballo servizi tanto delicati, in particolare le scuole materne, per le quali l’offerta statale da sola sarebbe in ogni caso anche quantitativamente insufficiente. Per tali scuole hanno responsabilità anche le Regioni, cui parimenti ci rivolgiamo perché vogliano mantenere i loro impegni.
8. Una società che chiede ai propri cittadini di corrispondere alle necessità comuni, e di farlo in misura accentuata nei momenti di prova, è una società che ha per questo un motivo in più per essere scrupolosamente attenta a dare tutte le garanzie sul fronte cruciale della bioetica e della biopolitica. E come in economia i parametri si misurano a partire dalle condizioni di chi sta peggio e non possiede nulla, così nel campo della bioetica come della biopolitica si garantiscono i diritti di tutti a partire dal rispetto dei diritti dei più indifesi. La logica comunitaria, se ci salva dall’individualismo economico, tanto più ci soccorre quando siamo tentati dal solipsismo esistenziale. «L’uomo − avverte il Papa − vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda: ma in questo modo vive contro la verità» (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2008). E quando la collettività asseconda e in qualche modo blinda sul versante normativo questa tentazione solitaria, con la scusa apparentemente nobile del rispetto della libertà di tutti, essa allora firma la sua resa, comunque la motivi o la mascheri.
Si è avuto notizia in queste settimane che sarebbe imminente il via alla libera circolazione della pillola Ru486. L’argomento, lo capiamo bene, è dei più intimi: le persone, le donne in particolare, lo sentono come proprio. Per questo, come Vescovi, vorremmo appena sottovoce chiedere a quanti hanno responsabilità in questa scelta: siete sicuri di aver fatto gli approfondimenti necessari? Lasciamo pure da parte per un istante la considerazione su quel «puntino» misteriosamente ma anche scientificamente così gravido di vita che si vuole espellere, e che anche recentissimamente l’istruzione vaticana Dignitas personae riconosce dal primo momento quale embrione, con la dignità di persona (cfr n. 5). E proviamo a pensare per un altro instante alla persona che si avvicina al cosiddetto farmaco. Ci sono casi documentati di danni enormi, vitali, che l’assunzione di questa pillola ha causato in alcune situazioni nell’arco degli ultimi sedici anni. Esiste una letteratura scientifica al riguardo. Se ne è tenuto conto in maniera trasparente e non ideologica? O ancora una volta la motivazione che così si fa altrove, è argomento sufficiente per introdurre la novità anche da noi? Non sarà anche questa una «procedura» solo più agile, una semplificazione per le strutture sanitarie che così risparmiano su varie voci?
Un altro tema è cruciale, quello di una legge sul fine vita, resasi necessaria a seguito di alcune decisioni della giurisprudenza. Anche qui l’enfasi posta sull’adeguarsi al trend altrui è un argomento che pare avere larga presa sui media, quasi che l’Italia abbia il complesso di esser in ritardo su un’altrui discutibile modernità. Con questa tecnica si sta cercando di far passare nella mentalità comune una pretesa nuova necessità, il diritto di morire, e si vorrebbe dare ad esso addirittura la copertura dell’art. 32 della Costituzione. Il vero diritto di ogni persona umana, che è necessario riaffermare e garantire, è invece il diritto alla vita che infatti è indisponibile. Viene dunque da domandarsi perché, in una situazione sociale e sanitaria globalmente evoluta come la nostra, con progressi continui, si dovrebbe preferire ora per allora di optare per la morte, quando peraltro è ben noto che persone in condizioni decisamente compromesse riescono tuttavia a sorridere e a godere di esserci, senza che in genere evochino precedenti risoluzioni di morire. Assicurati i trattamenti vitali, può avere senso la possibilità per l’ammalato di rifiutare pratiche di accanimento terapeutico, da ponderare nell’ambito del rapporto con il medico e fatta salva la responsabilità di quest’ultimo di decidere in scienza e coscienza. È in questo quadro necessario adoperarsi per un impiego largo e rasserenante della medicina palliativa, così da dare sicurezza al cittadino che non avrà un destino di dolore grave e incontrollabile. Come pure è urgente impegnarsi per una diffusione territoriale di strutture tipo hospice in grado di accompagnare le persone in coma irreversibile o in stato vegetativo, sollevando da carichi ardui le rispettive famiglie.
Quando la Chiesa segnala che ogni essere umano ha valore in se stesso, anche se appare fragile agli occhi dell’altro (cfr Benedetto XVI, Discorso al Congresso del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, 15 novembre 2008), o che sono sempre sbagliate le decisioni contro la vita, comunque questa si presenti (cfr Benedetto XVI, Discorso all’ambasciatore del Lussemburgo, 18 dicembre 2008), vengono in realtà enunciati principi che sono di massima garanzia per qualunque individuo. Un motivo in più, questo, per esprimere la nostra piena solidarietà al confratello Cardinale Severino Poletto, sconsideratamente attaccato attraverso i media per aver ricordato quella che è una convinzione scientifica larghissimamente condivisa, e comunque una verità etica, ossia che togliere l’alimentazione e l’idratazione ad una persona, per di più ammalata, è determinarla verso un inaccettabile epilogo eutanasico. Ugualmente, il rispetto della legge naturale è garanzia contro manomissioni e soprusi su qualunque uomo o donna (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Commissione Teologica Internazionale, 5 dicembre 2008). E per noi ha un significato profondo ricordare queste acquisizioni fondative in una stagione della storia in cui esiste ancora una parte di umanità che non vede riconosciuti i propri fondamentali diritti (cfr Benedetto XVI, Discorso per la solenne commemorazione del 6o° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, 10 dicembre 2008).
Cari Confratelli, vi ringrazio per la generosa pazienza che avete fin qui riservato alle mie parole. L’ascolto si svilupperà ora nel dibattito che segue e nel programma che ci impegnerà oltre due giorni. È un dono che ci facciamo reciprocamente: è anche questo un modo attraverso il quale impariamo che cosa Dio vuole da noi (cfr Benedetto XVI, Saluto di congedo ai Padri sinodali, 26 ottobre 2008).
Affidiamo noi e le nostre Chiese, anzi l’intera Chiesa italiana alla Vergine Maria, e invochiamo sui nostri lavori la protezione dei Santi patroni Francesco d’Assisi e Caterina da Siena.