Opinioni & Commenti
Avvento, riscoprire il senso del futuro nell’epoca dell’eterno presente
di Adriano Fabris
Ve ne siete accorti? Già da qualche settimana i negozi sono pronti con gli addobbi natalizi, le vetrine, nonostante la crisi, espongono i regali, molte città hanno già arredato le strade del centro con luci e abeti. E a Natale manca ancora un mese.
Ormai ci siamo abituati. Quando le cose sono belle e possiamo permettercele subito, non è necessario aspettare. Può essere Natale in ogni momento. Anzi: è Natale in ogni momento, visto che torrone e panettone possiamo procurarceli per la maggior parte dell’anno. Lo stesso vale, ancora di più, per il Carnevale. Proliferano mascherate estive, feste di Hallowen, travestimenti vari da esibire quando si vuole.
Che cosa significa tutto questo? Viviamo ormai in una sorta di appiattimento del tempo. Il tempo è fatto di istanti tutti uguali, dei quali possiamo fare l’uso che vogliamo e che quindi vanno goduti al meglio. Il tempo è neutro: siamo noi a potervi immettervi occasioni di piacere. Il tempo è reale: concentrato nella sua immediatezza e, proprio perciò, da sfruttare fino in fondo.
Ma allora, se le cose stanno così, che senso ha aspettare? Se tutto può essere colto istantaneamente e immediatamente goduto, se tutto può essere anticipato a piacimento, perché aprirci ancora al futuro? Che cosa vuol dire attendere chi deve venire?
In questo quadro, in questa mutazione della nostra esperienza, l’avvento, che ci apprestiamo a celebrare, rischia di non essere più compreso. Nell’epoca del tutto e subito la possibilità di predisporci all’incontro col Dio che viene, col Dio che viene a salvarci, non appare più significativa. Non tanto perché riteniamo di essere noi coloro che, con le nostre forze e con l’aiuto degli apparati tecnologici, siamo in grado di tutelarci. Quanto perché è il futuro stesso che sembra essere in nostro potere. Possiamo anticiparlo quanto vogliamo. Possiamo renderlo presente.
Insomma: abbiamo perso il senso del futuro. Avere futuro significa infatti non solo pretendere di controllare ciò che mi potrà accadere, ma essere in grado di aprirsi a quanto può avvenire: e che può ancora avvenire perché, magari, è già avvenuto. Significa essere capaci di cogliere le occasioni che possono capitare: ma solo se le riconosciamo come tali, cioè come occasioni che non siamo noi a creare.
Pensare e vivere l’avvento, oggi, significa proprio questo. Significa riappropriarci di una possibilità che abbiamo e che rischiamo di perdere, nella prospettiva di un tempo ridotto ad eterno presente. Significa imparare nuovamente ad aprirci al di là di quanto riteniamo di poter controllare: per cogliere, con meraviglia e timore, quanto ci viene donato. Significa, insomma, sperimentare la possibilità di un Dio che, pur aspettato, contro ogni aspettativa ci viene incontro.
Un’ultima riflessione. Oggi diciamo che, in questi tempi di crisi, i nostri ragazzi non hanno futuro. Forse non ce l’hanno non solo perché manca loro il lavoro; perché il lavoro che c’è è sempre di meno. Forse, al di là di questo, i nostri ragazzi non hanno futuro perché hanno appunto perso il senso del futuro: dal momento che vivono in quell’eterno presente, artificioso, che abbiamo costruito per loro e nel quale possono baloccarsi, finché dura, a loro piacimento. L’esperienza dell’avvento, anche da questo punto di vista, può aprirci forse nuovi orizzonti.