Cultura & Società

Avvento, quell’attesa che rende più bella la gioia

di Umberto Folena

L’Avvento è come lo stadio. Prima di mobilitare il Sant’Uffizio, o la Neurodeliri, mettiamoci comodi e lavoriamo di fantasia, di assonanze e somiglianze. Giochiamo, come sanno fare i bambini per i quali il gioco è cosa serissima.

L’Avvento è come lo stadio, nel senso dell’attesa. Dimentichiamoci gli adulti navigati e troppo saggi, quelli che «han lavorato su se stessi», quelli che hanno fatto il pieno di spiritualità, quelli per i quali l’Avvento non nasconde alcuna sorpresa: stupore sì, forse, ma in fondo è sempre quello, sempre quattro settimane, il presepio sempre uguale, i riti sempre gli stessi… cambia magari l’omelia del don la Notte Santa, per via degli «agganci esistenziali». Nell’Ottocento era colpa dei romanzi, nel Novecento del cinema, dalla radio e della tv, oggi di internet. Se siamo sempre meno credenti e fedeli, degni di quel Bambino che nasce per salvarci tutti, anche se non siamo su Facebook per capirci.

Dimentichiamoci l’Avvento come forse l’abbiamo quasi sempre vissuto, scelto o subito. E torniamo bambini. Appassionati di calcio. È domenica e il babbo ci ha promesso di accompagnarci allo stadio. Partita importante, partita difficile. La partita comincia alle 15 ma il bambino scalpita già al mattino a Messa. L’omelia, già di per sé poco comprensibile – ma non si può certo pretendere che sia a misura di bambino! O no? – sembra più lunga del solito. A casa la cucina non sembra essere immersa nei consueti profumi della domenica, di ragù e besciamella, di sughetti e arrostini e – slurp – patatine, quelle soprattutto. Che succede, nessuno prepara il pranzo? Bisogna mangiare in fretta, dai sbrigatevi, c’è la partita… E perché il babbo, dopo essersi gustato il caffè, se ne sta tranquillo in poltrona a leggere il giornale? Bisogna andare allo stadio!!! Il bambino soffre, e non c’è niente da ridere. Il babbo sa che c’è tutto il tempo, il posto è prenotato, si può arrivare all’ultimo istante. Ma il bambino non è interessato a simili inezie.

Quello del bambino prima di andare allo stadio è il miglior esempio di attesa impaziente. Che tu sia paziente o impaziente, nulla cambia: il fischio d’inizio sarà sempre alle 15; e Gesù nasce, secondo tradizione, una frazione di secondo dopo la mezzanotte. Ma il bambino è come il viaggiatore ansioso che deve presentarsi al binario in largo anticipo per il timore di perdere il treno, in parte, ma soprattutto per vedere i treni, e la gente che s’affretta, si saluta, corre lungo la banchina perché la sua carrozza è dalla parte opposta, e poi gli annunci, l’odore di elettricità e di ruggine… Sono i prodromi del viaggio, immagini e odori che ti s’attaccheranno addosso.

E allora il bambino ha bisogno assoluto, impellente, fisico di andare allo stadio presto, prima di tutti gli altri. Per vedere gli altri che arrivano. Per riempirsi gli occhi di quel verde troppo verde, incastrato tra i grigi delle gradinate; delle bandiere che sventolano, delle nubi che minacciano, dei sorrisi dei tifosi, dei cori e degli striscioni che a poco a poco compongono il mosaico dello stadio. Ed è così bello starsene comodi accanto al babbo a riempirsi gli occhi le orecchie e il naso di tutto ciò. E com’è strano che alcuni babbi, che pure devono essere stati bambini, non si ricordino di tutto ciò e rimangano in poltrona a leggere un giornale che potrebbero leggere dopo le 17, a partita conclusa.

I bambini, nella loro affascinante attesa impaziente, sarebbero i primi ad accomodarsi davanti alla capanna, in larghissimo anticipo. Effetto stadio: sanno che le doglie devono ancora cominciare – diciamo, chiedendo perdono per l’ardita metafora, che Maria è in fase di riscaldamento – sanno di essere in largo anticipo; ma a loro interessa gustarsela e viverla fino in fondo l’attesa: dove sono i pastori? Eccoli là, loro non hanno fretta ma si capisce, ancora non sanno che cosa sta per accadere, comunque è bene che non si allontanino troppo. E la stella? Ragazzi, calma: il sole sta appena calando, c’è ancora troppa luce, non esageriamo con l’attesa impaziente. E gli angeli? Ecco, loro ci sono già, lassù, e basta guardar bene, anche quaggiù… sono bravi a celarsi agli occhi dei grandi, ma a quelli dei piccoli non sfuggono. Assomigliano ai bambini: anche loro vivono l’attesa impaziente e se la vogliono gustare tutta.

Se l’attesa è come lo stadio, guai a considerarla uno spazio vuoto da lasciar vuoto, o da riempire senza pensarci troppo. L’attesa è piena, pienissima. È un tempo denso di emozioni e affetti e ricordi e speranze. Un tempo affollato che più affollato non si può. Chi l’ha capito benissimo, per certi verso meglio della Chiesa (ahinoi), è il mercato. Che questa attesa non solo la riempie di sciocchezze in dosi bulimiche, ma gioca d’anticipo e allo stadio arriva prima di tutti quanti. Nei mega-negozi di bricolage il reparto dei presepi, dei finti abeti, delle capanne si riempie già a settembre. Le luci colorate vengono appese a ottobre-novembre. Tutto è sempre più grosso e volgare. Le lucine sono lampioni, le capanne sono capannoni: la povera Sacra Famiglia viene riscaldata da mandrie di buoi e branchi di asinelli, piuttosto inquietante. Le montagne assumono profili andini o himalaiani… Il mercato – questa è la verità – non concepisce l’attesa impaziente. Anzi, non concepisce proprio alcuna attesa. I desideri, le voglie, i capricci vanno soddisfatti ora e subito. Nella consumerist society, la «società di consumatori» magistralmente dipinta da Zygmunt Bauman, esiste soltanto la frazione di secondo che passa tra l’insorgere di un desiderio e il suo immediato soddisfacimento. Non c’è attesa. Non c’è – per dire – neanche corteggiamento: con la donna o l’uomo che ti piace, devi andare subito dritto alla scopo. Il desiderio non nasce né si coltiva; non richiede che ci si faccia belli e ci si prepari; è un impulso violento che squassa le viscere e subito si placa. Invece….

Il cristianesimo – correttamente inteso, possibilmente con uno sguardo speciale ai bambini, quei pochi che ci gironzolano attorno, e il bambino che è in noi – il cristianesimo è la critica più drastica alla consumerist society anche perché esalta il tempo dell’attesa. È un tempo, appunto, in cui ci si prepara e «ci si fa belli», un po’ come il bambino che indossa la casacca della sua squadra, la sciarpa, il cappellino e si guarda allo specchio chiedendogli un cenno d’approvazione, e lo specchio – che con i grandi finge di essere sordo e muto – al bambino dice «ok, sei perfetto, vai pure». Lo specchio è la coscienza, ma l’avete capito tutti… Ci si fa belli e si eliminano i pesi e i pensieri brutti e inutili, i pesi superflui, perché l’attesa impaziente dev’essere anche limpida e senza zavorre. Agli appuntamenti importanti si va leggeri ed essenziali… ma provate a spiegarlo ai trombettieri del mercato.

Intendiamoci: non adeguarsi alla consumerist society non significa eliminare i regali. No no no. Un Natale senza regalo che Natale è? L’attesa è anche il tempo in cui si pensa al regalo. Si architetta il regalo. Si organizza il regalo. Si impacchetta il regalo. E qui, al momento finale, quando l’attesa è compiuta e s’è fatta mattina, qui proprio qui viene fuori la verità, tra il bambino divorato dal gusto del consumo e il bambino dell’attesa impaziente. Il secondo, quello che ci interessa, dopo aver chiesto negli ultimi giorni «quanto manca?» un’infinità di volte, e aver fantasticato sui regali, di fronte ai pacchetti sorride come un gattone di fronte a un topolino paralizzato, e sembra non far nulla. Osserva i pacchi, individua i suoi. Aspetta. Non ha alcuna fretta. Scioglie i fiocchi e i nastri con estenuante lentezza, come un bonzo, un trappista, uno stilita del pacco natalizio. Solleva e riabbassa la carta alla moviola, avanti e indietro. Ed infine rivela il regalo… che è esattamente quello che si aspettava. Ma soltanto così la magia dell’attesa impaziente impregnerà il regalo che resterà il regalo di quel Natale preciso per tutta la vita. Solo così il regalo sarà non un fine ma un mezzo, uno strumento per impregnare di attesa e nascita e salvezza i cuori, specialmente i più piccoli e recettivi.

Adesso potete chiamare il Sant’Uffizio o la Neurodeliri. Ma nessuno ci toglierà dalla testa che l’Avvento è proprio come andare allo stadio. (Ma sarà poi un caso che la Panini, da sempre, mette in vendita le figurine dei calciatori la settimana successiva al Natale?).