Dossier
Auschwitz, i ragazzi toscani di fronte all’orrore
L’ampia delegazione toscana oltrepassa la porta del lager. Si forma un lungo corteo silenzioso. In testa la bandiera italiana. Dietro Paolo Benesperi, assessore regionale all’istruzione, e Ugo Caffaz, capodelegazione. Insieme a quello della Regione Toscana (organizzatrice del viaggio), i gonfaloni di alcune amministrazioni provinciali e comunali. Poi gli oltre mille studenti. Il corteo percorre in lunghezza il campo fino ad arrivare al memoriale delle vittime della Shoah che sorge sulle rovine di una delle quattro camere a gas e del crematorio. Al suono delle «chiarine» vengono deposte due corone di fiori. Tocca all’assessore Paolo Benesperi portare il saluto della Regione: «In questo luogo ci mancano le parole. I nostri sentimenti sono di sdegno, incredulità, sdegno per ciò che vediamo, proviamo, immaginiamo. Ma le parole ci mancano».
La domanda che sorge è: «Come è potuto accadere?». «È difficile dare una spiegazione all’orrore conclude Benesperi . La memoria serve perché tutto ciò non accada più». La parola passa poi alle sorelle Bucci, le uniche due bambine italiane scampate al lager nazista. Nei loro occhi lucidi, quasi persi nel vuoto, è visibile il ricordo di ciò che hanno vissuto in questo luogo. E Tatiana, interpretando il pensiero della sorella minore Andra, dice commossa: «Abbiamo parlato molto in questi giorni. Oggi è il momento del silenzio».
Sui visi, infreddoliti, di alcuni degli studenti, a questo punto scendono lacrime. Al termine della cerimonia la recita di tre preghiere: una in lingua Rom (anche gli zingari furono deportati e uccisi dai nazisti), una cattolica (una poesia di padre David Turoldo) e, infine, una ebraica. A Birkenau i treni provenienti da tutta Europa si inoltravano fin dentro al campo: i binari della ferrovia erano stati prolungati per entrare dalla porta principale ed arrivare fino alla baracca dove veniva fatta la selezione. Da una parte, quelli che venivano mandati direttamente alla camere a gas, dove veniva usato il veleno Zyclon B. Verso la morte immediata nelle quattro camere a gas e negli altrettanti forni crematori finivano circa il 75% di quelli che arrivavano, in maggioranza anziani, donne e bambini. Dall’altra, coloro erano ritenuti abili ai lavori forzati solo il 25% ed erano ridotti a scheletri viventi: i prigionieri che vennero liberati il 27 gennaio 1945 dall’Armata Rossa sovietica pesavano 30/40 chili, meno della metà di una persona normale. La vita media era di 3 mesi.
Gemma e Annita, dell’alberghiero «G. Minuto» di Massa Carrara: «Quello che ci ha colpito a Birkenau sono i graffiti dei prigionieri che, chiusi in prigionia, rappresentano momenti di vita in libertà. E poi, il posto dove dormivano, qualcuno in terra, al gelo. Vedere queste cose dal vivo e vederle in televisione o al cinema è molto diverso». Aleandro dell’Iti di Grosseto si chiede come sia possibile «tanto disprezzo per una razza diversa e per la vita umana». «Ciò che colpisce continua è l’organizzazione razionale dello sterminio. Niente era lasciato al caso. Birkenau mi ha impressionato per i binari che entrano dentro al campo: pensare al treno che entra e ai prigionieri che scendono e vengono portati alle camere a gas è impressionante». Per Antonio del liceo scientifico «Fermi» di Arcidosso (Gr) sono state «forti le emozioni sentite a passare l’ingresso di Birkenau: è una sensazione indescrivibile, tremavo».
Poi c’è Samanta del liceo «Rodari» di Prato: «Le parole non hanno senso. A Birkenau si può solo stare in silenzio. Questo viaggio serve per capire il passato ma soprattutto per vivere bene il presente ed evitare che il futuro ci riservi certi orrori». Infine c’è la storia di Laura. Non era rientrata negli studenti sorteggiati dalla sua scuola di Castelfiorentino (Fi). E così lei ha avuto un’idea: «Ho chiesto ai miei genitori di pagarmi questo viaggio come regalo di Natale e di compleanno. Non ho sbagliato: è stata un’esperienza irripetibile e molto intensa». La conclusione è di Ugo Caffaz, dirigente del Dipartimento istruzione della Regione e «capodelegazione»: «È importante che i giovani vengano qui, vedano con i loro occhi ciò che è accaduto. Ricordare ciò che è avvenuto nel passato è fondamentale perché nel futuro ciò non si ripeta». E i giovani hanno compreso. «La maggioranza conclude Caffaz ha risposto positivamente. Ha capito e ha meditato». I giovani sono tornati a casa e hanno ripreso la vita di tutti i giorni. Ma quella dal 25 al 30 gennaio 2005 sarà un’esperienza che non scorderanno mai più.
Quante erano queste persone?
«Si stima che i collaborazionisti a vario titolo fossero circa un milione: dal soldato nazista del campo al capostazione che vedeva passare i treni senza porsi domande c’è tutta una gamma di comportamenti. Il difficile della storia è di restituire questi percorsi individuali con le loro differenze. Questa però è la chiave di lettura migliore per far capire ai ragazzi cosa è avvenuto. Se parli della belva nazista e del nazifascismo, queste rimangono entità astratte ed allegoriche e tutto è molto idelogico. Se invece presenti la storia individuale, questo permette loro di immedesimarsi e di chiedersi che cosa avrebbero fatto al loro posto».
E allora tramite i percorsi individuali delle persone si capisce come si è arrivati al genocidio?
«È stato possibile in tanti modi, ciascuno aveva le sue motivazioni. Lo storico americano Robert Gellately ha trovato che più del 50% delle denunce contro gli ebrei tedeschi nella Bassa Sassonia erano fatte da privati cittadini. Perché? Perché volevano la casa, il negozio, il posto di lavoro degli ebrei. E su questo il regime ha fatto leva stimolando i cittadini a denunciare gli ebrei in cambio di ciò che desideravano. Questo non è antisemitismo, ma il nazismo fornì a questi cittadini un nemico individuabile e debole su cui rivalersi».
Dentro al regime nazista quanti erano quelli che sapevano esattamente come stavano le cose?
«L’antisemitismo era uno dei pilastri della propaganda del regime. Ma non era uno dei motivi più forti di attaccamento al regime, lo era di più il nazionalismo. Un’ipotesi affermata parla di Hitler come un dittatore debole che si limita a fare da ago della bilancia tra il blocco di Himmler, ovvero le SS, che ha nello stato razziale il suo progetto, e il blocco di Goering che pensava all’economia bellica e alla conquista. Tra questi due pezzi del regime ci sono scontri ripetuti. Alla fine vince la linea di Himmler. Nel testamento scritto da Hitler, un’ora prima di suicidarsi, il dittatore dice: Io lascio in eredità ai futuri governanti della Germania le leggi razziali. Avrebbe potuto dire tutto: l’anticomunismo, la Grande Germania. Ma il suo pensiero va alla soluzione finale. Quindi tutti, a vari livelli, erano a conoscenza del disegno. Nessuno si può chiamare fuori».
Esiste il pericolo che tutto ciò si ripeta? Come fare per evitarlo?
«Fenomeni come questo sono sempre in agguato. È compito degli stati democratici attivare gli strumenti di reazione pacifici. Io non credo alle leggi di proibizione e di abolizione dei partiti neonazisti. Credo di più al dibattito, al dialogo e alla formazione».
Questo viaggio è formazione. Come inciderà nelle vite degli studenti?
«La lezione più grossa che avranno da questo viaggio sarà di tradurre la Memoria nella loro quotidianità. Molti giovani vivono la vita come se avessero sempre inserito il pilota automatico. Questo viaggio deve insegnare ai giovani a staccarlo, e a dare la precedenza alla loro coscienza».
Treno della memoria, studenti toscani ad Auschwitz
A lezione nell’abisso dei lager