Cultura & Società
Attualità e profezia di Nicola Pistelli
«Caro Nicola, in poco tempo hai fatto molto, come dice la Sacra Scrittura». Con queste parole nel settembre di cinquanta anni fa Giorgio La Pira dava l’ultimo addio a Nicola Pistelli in una piazza Signoria gremita di persone ancora incredule e commosse.
E in effetti il lavoro politico svolto da Nicola Pistelli, iniziato prima fra gli studenti universitari, quindi con la rivista « San Marco» ad appena ventidue anni nel 1951, poi continuato come vicesegretario della Dc fiorentina, come direttore di «Politica», come assessore al comune di Firenze e infine come parlamentare, è stato grande nonostante la miseria del tempo che la Provvidenza gli ha messo a disposizione.
Raccontare l’esempio e la lezione che ci ha lasciato ed anche orientarsi in una produzione fittissima che porta, oltre che la sua firma, anche quella di innumerevoli pseudonimi è praticamente impossibile. Vediamo solo di accennare sommariamente in queste poche righe a qualcosa di ciò che di Nicola Pistelli rimane ancora vivo, attuale o addirittura profetico nonostante il mezzo secolo trascorso.
Prima di tutto la moralità della politica. Pistelli fu in pratica quasi solo nel suo tempo a parlare spessissimo del problema del finanziamento dei partiti quando l’argomento era una sorta di terzo segreto di Fatima non solo per i partiti, ma anche per la grande stampa. Quando, un anno prima di morire, Luigi Sturzo nell’indifferenza generale presentò il suo famoso progetto di legge sul finanziamento dei partiti (quello per intendersi che concedeva ai candidati alle elezioni politiche una spesa massima di 500 mila lire per la loro campagna elettorale) Pistelli, nonostante la distanza che lo separava ormai dal liberismo degli ultimi anni del fondatore del Partito popolare, chiese che la Democrazia Cristiana non seppellisse la proposta nel silenzio («Mito e sostanza del governo di centro-sinistra», 15 novembre 1958). Sebbene allora lo scandalo massimo che si potesse citare fosse quello delle donazioni degli appaltatori delle imposte di consumo ai partiti (il cosiddetto scandalo Ingic), Pistelli scriveva già trenta anni prima che scoppiasse Mani Pulite: «È noto che una delle ipocrisie usuali dei partiti è quella di dichiararsi finanziati esclusivamente dai contributi dei propri iscritti mentre ogni persona che non sia nata ieri sa bene che la costosa macchina organizzativa delle diverse formazioni politiche viene spesso lubrificata con sovvenzioni concesse da interessi particolari, oppure attinge percentuali segrete sulle spese pubbliche maneggiate attraverso il potere centrale e quello degli enti locali» («Chi li riforma i riformatori?»,15 aprile 1962). Soprattutto Pistelli insisteva perche la questione morale fosse predominante per un partito di ispirazione religiosa. Scrisse già nel 1959: «Coloro che domani scriveranno la storia di questi anni potranno scusare i nostri errori perché eravamo un partito giovane, e giustificare anche le contraddizioni perché abbiamo operato in una situazione storica di estrema difficoltà, ma non perdoneranno, e con ragione, ad un partito di cattolici, di non avere portato nella amministrazione della cosa pubblica un costume nuovo di correttezza e di scrupolo morale» («Tanti funzionari», 1 maggio 1959).
Secondo punto da ricordare soprattutto oggi nella situazione in cui ci troviamo: fin da allora Pistelli si pronunciò contro l’assistenzialismo fine a se stesso, la spesa pubblica irresponsabile, il consumo dell’oggi per la miseria del domani. Pistelli sosteneva che una politica di sinistra non si distingue da una politica di destra solo perché è favorevole all’aumento delle pensioni. Su questo tema, diceva, ci si poteva trovare alleati anche con Bismarck e Mussolini che le pensioni le avevano inventate. Dopo aver chiesto la pensione per i contadini che ancora non l’avevano scrisse nel 1959, quando ancora alcune categorie mancavano della assistenza pensionistica: «La sensibilità sociale di un governo non si misura dal numero di categorie alle quali esso concede la pensione o i benefici assistenziali».
Infatti per Pistelli una politica di sinistra significava soprattutto una politica di sviluppo. Egli andava molto orgoglioso di quell’opuscolo («C’era una volta lo schema Vanoni») che aveva avuto una diffusione di sessantamila copie e che prendeva a modello quel piano del ministro valtellinese che chiedeva agli imprenditori di ridurre i profitti e agli operai di contenere i salari per destinare la maggiore fetta possibile del reddito nazionale agli investimenti. Illustrando quella filosofia che era l’esatto contrario di quella che ci ha portato al disastro del nostro debito pubblico e della nostra disoccupazione crescente scrisse ancora nel 1959 e non vergognandosi di un vecchio detto che imponeva ai contadini di non mangiare troppo: «C’è un metodo solo di sviluppare l’economia: seminare una parte crescente del reddito nazionale e non consumarla subito». E in questo quadro già allora Pistelli avanzava il tema oggi attualissimo della difesa non tanto di «quel posto di lavoro», ma del posto di lavoro in generale scrivendo: «Ciò che nei sindacati operai giustifica perfino l’occupazione della fabbrica non è l’intangibilità di quel particolare posto di lavoro, ma soltanto la prospettiva di non poterlo supplire con uno diverso; ben più duttile sarebbe la loro posizione se per ogni azienda che chiude altre ne sorgessero» («Tanti funzionari», 1 maggio 1959).
Terzo punto da tenere presente: Pistelli fu aderente al presente senza nemmeno gli ultimi rimpianti del passato tipici di un movimento cattolico che era sorto in conflitto con il mondo contemporaneo. Nel convegno su Nicola Pistelli che si tenne al Palazzo dei Congressi venti anni dopo la sua morte lo storico Giorgio Campanini sostenne che Pistelli era stato il politico e l’intellettuale democristiano più moderno non solo rispetto alla prima generazione dei cattolici democratici rappresentata dai popolari, ma anche rispetto alla generazione dei democristiani del suo tempo. Pistelli va non solo oltre la nostalgia di una Italia prevalentemente agricola dei primi, ma anche oltre il vagheggiamento della piccola proprietà contadina o della piccola bottega dei secondi e si accorge che perfino entrambe queste risposte hanno ormai il respiro corto.
Nonostante che fin dall’inizio Pistelli abbia combattuto la mezzadria, alla fine dirà quale era la sua proposta per l’agricoltura di domani in un titolo preciso: «Grandi aziende e cooperative» (15 ottobre 1963). Quanto ai piccoli dettaglianti «smaltiscono ognuno partite esigue di derrate appunto perché sono troppi a dividersi i consumatori e ripartiscono su pochi clienti il margine di guadagno necessario» («Mito e sostanza del governo di centrosinistra», 15 novembre 1958). Anche l’illusione di potere contrapporre la piccola impresa artigiana alla grande impresa industriale è «neoromanticismo cattolico» («L’equivoco del corporativismo», 1 giugno 1956).
Pistelli non ebbe paura anche a difendere a spada tratta il prefabbricato nell’edilizia e a dare il benvenuto perfino alla automazione perché fra l’altro il passaggio dell’operaio al tecnico poteva incrinare un paradigma classista. La stessa concertazione fra governo sindacati e imprenditori fu vista da Pistelli in fondo come un recupero del vecchio corporativismo a favore degli occupati e a danno dei disoccupati e addirittura come una sorta di ripetizione di quel blocco storico che nel periodo giolittiano aveva favorito gli operi del Nord a scapito dei «cafoni» del Sud.
Quarto punto da sottolineare : la concezione del partito inteso come scuola, una scuola che, come sappiamo, è stata chiusa e sprangata ormai da anni. Pistelli non condivise la concezione del partito come propagandista dell’azione del governo e come comitato elettorale propria del periodo degasperiano, e nemmeno la concezione del partito del periodo fanfaniano basata sull’organizzazione capillare, quando, per intenderci si organizzavano, come scriveva Pistelli, «il convegno dei pescatori e l’assemblea delle madri contadine». Per Pistelli il partito è soprattutto centro di formazione democratica e di confronto con la società civile. In un periodo in cui unico mezzo di diffusione di idee era la carta stampata Pistelli scriveva con un giudizio che purtroppo sarà valido anche oltre il suo tempo: «La Democrazia Cristiana sembra incapace di avvertire l’importanza della stampa, cioè di uno dei massimi strumenti della competizione politica moderna» («I quattro errori della Democrazia Cristiana», 15 maggio 1964).
«Politica» voleva essere quindi una iniziativa privata che, insieme agli altri strumenti messi in piedi negli ultimi anni (i circoli di «Cultura», l’agenzia «Stampa», i viaggi de «La Meridiana»), doveva supplire a questa deficienza del partito sul piano della comunicazione e della formazione. «Politica», che rappresentò un enorme salto sul piano della comunicazione politica con un linguaggio efficace e brillante allora ignoto alla stampa di partito, alla grande stampa e anche alle riviste della sinistra democristiana dell’epoca come «Prospettive», «La Base» e «Stato democratico» e che anticipa straordinariamente anche in questo di cinquanta anni il nostro presente, contava forse un po’ meno della diffusione delle ventimila copie dichiarata da Pistelli. Purtuttavia era veramente, come lui lo chiamava, «un giornale per sergenti», cioè per dirigenti di base, comprendendo in questa categoria il segretario di sezione, il consigliere comunale, il sindacalista, il parroco, il piccolo imprenditore. La influenza del giornale fu per questo di gran lunga superiore al numero delle copie diffuse.
Pistelli volle che nel partito ci fosse il sistema elettorale proporzionale per poter dare cittadinanza a tutte le idee che conteneva e quindi al fine di promuovere la diffusione del dibattito interno e la crescita di massa della cultura politica. Pistelli difese tuttavia sempre l’unità della Democrazia Cristiana non solo perché «la Democrazia Cristiana è la sola formula che possa offrire al paese una durevole forza di governo» ma anche (e questa è la sua vera motivazione singolare di cui oggi possiamo valutare tutta la fondatezza dopo che questo strumento non c’è più) «perché è preziosa soprattutto a chi ha bisogno di tempo per maturare nei cattolici una più precisa coscienza politica» («Note sul problema socialista», 15 dicembre 1957).
A questo fine Pistelli fu anche uomo di corrente. Ma la sua battaglia dentro il partito appartiene ad un periodo in cui, almeno in gran parte, il dibattito interno fu ancora dibattito di idee come dimostra il fatto che, nella storia della Dc, la distribuzione dei voti fra le correnti che si ebbe al congresso della Pergola a Firenze nel 1959 rimase sostanzialmente intatta, salvo le fratture al vertice, nei trenta anni successivi quando gradualmente le correnti si cristallizzarono come gruppi di appartenenza legati alla distribuzione del potere. Ma già nel 1962 Pistelli scriveva sulle correnti un articolo che anche nel titolo diceva tutto chiamandole «Le gloriose associazioni d’arma», cioè bande di reduci patetici senza più una vera guerra da combattere, e invitando i democristiani, ora che si era realizzato il centro sinistra, a smettere di discutere sugli schieramenti e a dedicarsi a discutere dei contenuti per risolvere i problemi del Paese. Sarà anche questo un consiglio che purtroppo, come dimostra anche una occhiata sommaria ai temi del congressi degli anni successivi, il partito di maggioranza relativa non riuscirà a seguire.
Dalla formazione nell’Azione cattolica la sua passione per la politica
Nicola Pistelli nasce a Castelfiorentino il 6 ottobre 1929. Negli anni ’30 la famiglia Pistelli si trasferisce a Firenze e va ad abitare in via Pietrapiana, nella parrocchia di S. Ambrogio, una delle più popolari che comprende alcune delle vie più povere della città – borgo Allegri, via dei Pepi, via de’ Macci, via dell’Agnolo – a fianco delle zone aristocratiche di piazza d’Azeglio e strade adiacenti. È nella sezione aspiranti di Azione cattolica di S. Ambrogio che si forma la personalità di Nicola. Sono gli anni della guerra, delle nascenti passioni politiche. Nel 1948 lascia l’Azione cattolica per la politica. Lo sbocco più naturale è l’adesione alla Democrazia cristiana, dove assume una posizione autonoma. A ventidue anni si laurea in legge all’università di Firenze ma è la politica ad attrarlo.
Per arrivare ad avere una sua posizione politica, conquistata giorno per giorno, partendo dal nulla e non appoggiandosi a nessuno, soprattutto a qualcuno dei più diffusi punti d’appoggio dei politici, Nicola Pistelli sceglie di fare il giornalista e avere un proprio giornale. Nel 1952 pubblica il primo numero della rivista «San Marco» che sotto la sua direzione esce per due anni di seguito. Nel 1954 pubblica un opuscolo sull’azione del sindaco di Firenze sotto il titolo «La Pira, la Pignone e la questione delle Cascine». Nel luglio dell’anno successivo fonda il quindicinale «Politica» che sostiene la necessità di occuparsi del mondo cattolico popolare. Il periodico mostra interesse per la realtà politica del mondo cattolico e, analogamente al gruppo della Base, si dice convinto che la dimensione religiosa deve essere riservata a un ambito strettamente personale. Dal punto di vista politico la rivista sostiene l’esperimento del sindaco della città Giorgio La Pira e la sua azione a favore dei poveri e per la pace. Sono da ricordare i viaggi «politici» di Nicola Pistelli a Mosca per il disarmo est-ovest, a Dakar per lo sviluppo dei popoli africani, gli interventi di politica estera impostati a un quadro preciso: quello della inevitabile unità e pace dei popoli di tutto il pianeta.
All’attività pubblicistica si affianca quella politica e nel 1955 è eletto vice-segretario provinciale della Democrazia Cristiana fiorentina. Nel 1956 al congresso di Trento è eletto consigliere nazionale del partito come rappresentante della sinistra di Base e nello stesso anno entra a far parte del consiglio comunale a Firenze. Nel ’55 pubblica un saggio sulla lotta politica all’interno del partito di maggioranza dal titolo «Dieci anni nella Democrazia Cristiana». Nel 1959 pubblica un opuscolo divulgativo sullo Schema Vanoni.
Eletto nuovamente consigliere comunale nel 1960, fa parte della prima giunta di centro-sinistra di Firenze come assessore ai Lavori pubblici. La Pira lo ricorderà come un «edificatore» della città che reca un «apporto di insurrogabile valore per l’accrescita di Firenze: scuola, strade, ponti, e così via sono state frutto della sua opera metodica e instancabile».
Nel 1962, al congresso di Napoli, è rieletto consigliere nazionale della Democrazia cristiana e nell’anno successivo è deputato al Parlamento nella circoscrizione elettorale di Firenze-Pistoia. Come parlamentare presenta un progetto di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Muore in un incidente d’auto il 17 settembre 1964 di ritorno dal Congresso di Roma. Era partito in anticipo per passare la domenica in famiglia al Cinquale. Finisce così a soli 35 anni all’Arnaccio, vicino a Pisa, la vita di uno dei più promettenti uomini politici italiani.
Ennio Cicali