Cultura & Società
Assetati d’infinito
di Franco Cardini
L’eremitismo (una parola derivata dal greco eremos, «solitario») è per forza di cose strettamente collegato, sul piano storico ed ecclesiale, al monachesimo (dal greco monos, «uno», e quindi «solo»). Ma all’esperienza propriamente anacoretica, propria dei monaci eremiti e che trovava riscontro in tradizioni anche ebraiche o proprie di alcune religioni asiatiche, soprattutto il buddhismo la Chiesa latina seppe accompagnare quella propriamente cenobitica, da condursi cioè in comunità; e una specifica soluzione, quella adottata dai monaci greci e orientali e ripresa nel mondo latino da camaldolesi e certosini, consisté nel riunire in un comune recinto monastico (quella che nel mondo ortodosso si chiama la lavra) una serie di abitacoli nei quali il monaco poteva vivere un’ordinaria esperienze eremitica salvo periodicamente riunirsi con i confratelli, per il servizio divino, per i pasti o per specifiche ricorrenze.
Non pare tuttavia che l’esperienza eremitica sia, al momento attuale, tra quelle privilegiate dalla Chiesa cattolica, che pure la mantiene e la riverisce. Il nostro mondo occidentale è cresciuto su due parametri in apparenza contraddittori, ma la miscela dei quali si è rivelata molto pericolosa: da una parte, evidentemente, la tendenza alla fruizione dei beni materiali, che non dispone alla solitudine; dall’altra però il culto ipertrofico del proprio Ego, l’individualismo che può condurre anche a facili soluzioni «pseudoanacoretiche», alla solitudine come scelta eroica, come indifferenza sprezzante nei confronti del prossimo, come espressione di un complesso di superiorità, come negazione dell’esercizio della carità.
Nel mondo postmoderno, le tentazioni dello pseudospiritualismo ch’è in realtà un duro materialismo sono molto comuni e insidiose: tanto più tali in quanto, esteriormente, possono presentarsi in forme analoghe all’esperienza spirituale autentica. Ne è esempio proprio l’aspirazione alla vita in contatto con la montagna. In moltissime religioni esistono «Montagne Sacre»: l’ascensione e la residenza in luoghi alti, «più vicini a Dio» come si usa dire, sono espressioni di spiritualità molto tipica di vari culti. Il cristianesimo ha privilegiato l’ascensione e la sosta sulle vette, come splendidamente recita una grande pagina di sant’Agostino ispirata sia ai profeti d’Israele, sia ai poeti antichi. Il Petrarca se n’è ricordato nella lettera dov’egli descrive una sua ascensione al Mont Ventoux, nella Francia meridionale, e dove non a caso gli sono conforto le Confessioni di Agostino. Ma attenzione: pensiamo a Goethe, pensiamo ad Hölderlin. La loro aspirazione all’ascesa e alla «purificazione», che pur si è tradotta in versi tra i più sublimi della lirica europea e mondiale, reca in sé l’impronta e l’aspirazione non sovrumana bensì, diciamo così, «superuomistica» (brutto aggettivo, usato qui comunque per ricondurci al pensiero del Nietzsche): che non ha nulla a che vedere con l’ascesi per quanto apparentemente possa somigliarle, e che è anzi la negazione dell’aspirazione a unirsi con Dio e ad annullarsi in lui. llo stesso modo, forme di disciplina fisica, di autocontrollo, di privazione (per esempio riguardo ai cibi e alle bevande) possono racchiudere analogo rischio ed essere tese non alla ricerca di Dio, non al sacrificio in Lui e per Lui, bensì all’affermazione d’una Volontà di Potenza che s’interiorizza rivolgendosi in e su se stessa ma che, proprio per questo, è profondamente anticristiana (non a caso si tratta di una somma d’istanze di «controllo di sé» e di «sublimazione del Sé» d’origine romantica che si accompagnarono anche all’infatuazione per religioni come il buddhismo o il taoismo e che furono in qualche misura riprese, e ulteriormente distorte, dall’esperienza nazista).
Redi in te ipsum: in interiore homine habitat Veritas. Il magistero di Agostino resta intatto: ma quel che noi occidentali non sappiamo più fare è ritrovare la strada per addentrarci sul serio in noi stessi, in un modo che non sia solo quello della ricerca del nostro Io. Per questo il papa insiste tanto sulla liturgia, sulla capacità di saper pregare e sulle tecniche della preghiera, che non sono affatto vuote formalità ma che costituiscono la via regia per il recupero dei valori sostanziali.
Porro unum est perfectum. Lo ricorda Gesù a Marta che si affatica correndo e facendo tutto il necessario per servirLo: ma dimenticando che il primo servizio da renderGli è quello dell’ascolto della Parola: ed è infatti Maria che «ha scelto la parte migliore». Ma l’Occidente, tutto conquistato dallo spirito di Marta, non ha mai capito a dovere questa lezione.
Tornar a saper pregare significa affrontare di nuovo quel grande dramma dell’Occidente che è il «Fattore D». Infatti la nostra società, progressivamente accettando tra XVI e XVIII secolo l’esperienza del vivere etsi Deus non daretur, ha fatto cadere la D iniziale dalla parola «Dio»: ed è finita con l’adorare quel che restava, l’«Io». L’eremitismo, riproposto oggi, può sul serio ricondurre sulla buona strada. Ma è un’esperienza alta, profonda, intensa, difficile da percorrere correttamente senza adeguata preparazione. Il frastuono del mondo moderno ci ha disabituati al silenzio: un repentino ritorno ad esso rischia di gettarci nel disorientamento del Nulla, quindi nella falsa meditazione.
Il pericolo non è remoto. L’età postmoderna segnata dalla pseudospiritualità che le è propria, quella New Age, si è annunziata fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso con i culti e le tecniche mistiche dell’Età dell’Acquario, quelle che specie in California hanno riempito i deserti di ogni sorta di eremi: quelli cristiani, quelli buddhisti specie zen, quelli esoterico-iniziatico-sincretistici ispirati a occultisti come Edgar Cayce. Oggi, le nostre città pullulano di negozi scintillanti e profumati nei quali si vendono essenze e profumi, si ascoltano i suoni dell’acqua che cade sulle rocce e del vento che fischia tra i rami, ci si abbandona alla sensualità ipermaterialistica della natura in quanto tale e delle sensazioni di pacificazione interiore, si ricerca la «pace con noi stessi» e l’equilibrio del quale la salute fisica sarebbe al tempo stesso il segno e il premio. Può sembrar misticismo molto prossimo a quello cristiano: e ne è il peggior tradimento, la più infame caricatura.
L’esperienza mistica non può pertanto che affrontarsi in spirito di profonda disciplina e sotto al guida sapiente della Chiesa. Le corse in avanti e le «cadute in alto» sono solo illusioni. Alla nostra cultura serve una mistica fondata piuttosto, secondo quella che del resto è la tradizione più autentica della Chiesa romana, sull’esperienza comunitaria. Per chi desideri tentar l’esperienza della perfezione eremitica, le strade istituzionali proposte dalla Chiesa sono molte. Ma gli Assetati d’Infinito debbono sempre ricordare che il Vero Monte Athos sta dentro ciascuno di noi: e che per ascenderlo non c’è bisogno di mettersi in viaggio. La solitudine, quella vera che garantisce la libertà, non è il vuoto attorno a noi: è la nostra interiorità ripiena di Dio. Oggi i veri eremiti stanno in mezzo alla gente, nel folto della calca dei bisognosi. Sono coloro che, come Francesco d’Assisi e Teresa di Calcutta, avvertono il profumo di Dio nelle piaghe della miseria e del dolore. Chi cerca Dio nel silenzio degli eremi incontaminati, delle cime immacolate e dei mari azzurri, se non dispone della preparazione adeguata finisce di solito con incontrar solo la superbia del suo Io.