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Articolo 18, il referendum è un’arma impropria
La Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il quesito posto da Rifondazione, Ds, Verdi, Fiom per abrogare le norme che limitano il campo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti delle sole aziende che superano i 15 dipendenti. L’art. 18 dispone la reintegra in azienda del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Che dire in merito? Innanzitutto che se l’art. 18 fosse un diritto di civiltà e non una importante forma di tutela del lavoratore, tre quarti dei Paesi europei sarebbero «incivili»! Infatti si va da un massimo di flessibilità dell’Inghilterra e dell’Irlanda al massimo di rigidità dell’Austria e dell’Italia. Forse la questione avrebbe dovuto essere affrontata prima di tutto dal Governo in modo meno ideologico. Una cosa è certa: l’uso del referendum per rimodulare le tutele dei lavoratori, è un’arma impropria. Come utilizzare un’accetta per fare la punta ad una matita.
Ma non è solo questione di metodo. È anche il merito che è sbagliato. Perché l’estensione chiesta attraverso il referendum non sarebbe totale: lascerebbe comunque fuori tutti i lavoratori atipici. Per di più non farebbe che trasferire alle piccole aziende modelli di tutela che possono essere giustificati nelle grandi imprese, ma che diventano inservibili e controproducenti nelle piccole imprese. E non solo per l’imprenditore, ma anche per gli stessi lavoratori.
Ciò che occorrerebbe, dunque, è una riforma legislativa che coinvolga le parti sociali e anche quella parte di opposizione che ha una chiara ispirazione riformista, magari prendendo in considerazione le proposte di Accornero e Ichino. Il primo sostiene l’opportunità di estendere l’art. 18 a tutti i lavoratori solo nel caso in cui l’interruzione del rapporto di lavoro avvenga in forza di una discriminazione di sesso, religione, attività politica o sindacale. Non molto difforme la proposta Ichino: il Parlamento adotti una legislazione simile a quella tedesca dove il giudice discrezionalmente può decidere se adottare un provvedimento di reintegrazione della persona nel suo posto di lavoro o se assicurargli un risarcimento con un limite massimo di 18 mesi di salario.
Due vie ragionevoli che paradossalmente favorirebbero una modernizzazione del nostro sistema di tutele del lavoro, senza bloccare un’altra volta il Paese in uno scontro ideologico.