Cultura & Società
Arte sacra: l'”Annunciazione” di Leonardo
Il rilievo che caratterizza lo sfondo del quadro, conservato agli Uffizi a Firenze, si eleva sulle acque del mare che rappresentano il mondo. E gli apparenti errori di prospettiva non sono dovuti all'inesperienza dell'allora giovane pittore, ma a una scelta precisa in base al punto di vista obbligato dovuto alla collocazione dell'opera
Leonardo dipinse l’Annunciazione esposta agli Uffizi intorno al 1472, quand’era sui vent’anni e ancora frequentava la bottega d’Andrea Verrocchio, fucina d’artisti destinati a diventare eminenti nel panorama culturale non soltanto fiorentino (da Perugino a Lorenzo di Credi). È un discepolato quello col Verrocchio di cui serba i segni la tavola vinciana, ch’è rivelatrice nel contempo delle simpatie del giovane Leonardo per alcuni suoi colleghi pressoché coetanei. Tant’ vero che l’Annunciazione, quando nel secondo Ottocento pervenne agli Uffizi dal monastero di Monteoliveto a Firenze, portava un’attribuzione – di lì a poco mutata a favore di Leonardo – a Domenico Ghirlandaio (di quattr’anni più giovane).
Nell’Annunciazione leonardesca è stata quasi sempre messa in luce una qualche precarietà prospettica, per solito ascritta alla giovanile inesperienza del pittore. Si notava, per esempio, che il muro del palazzotto di sguincio fino al limitar del cielo sarebbe troppo corto e, per converso, troppo grandi le bugne per un tratto così breve di parete; e, parimenti, il cesellato leggio marmoreo sarebbe troppo avanzato rispetto a Maria; da lei così distante da costringere a movimenti innaturali il suo braccio destro, che per conseguenza pare mal concepito.
Tutto vero. Non s’è pensato però che Leonardo abbia apposta fatto ricorso a espedienti anamorfici per rendere prospetticamente plausibile la visione dell’opera da un punto di vista non già centrale, bensì da destra, essendo verisimilmente a conoscenza di quale ne sarebbe stata la collocazione e quale ne sarebbe stato il punto di vista privilegiato. E chi, agli Uffizi, si disponga in un luogo che consenta una visione siffatta, s’avvedrà che tutto il fronte del palazzo si allunga, che le bugne di sbieco s’accorciano, che la mostra in pietra serena della finestra non andrà più a battere, col suo profilo verticale, sul margine esterno delle bugne più lunghe che riquadrano la porta. S’accorgerà che il leggio arretra e s’avvicina di molto a Maria; abbreviando il braccio destro di lei fino ad assumere una postura naturale; e infine che l’attitudine di Gabriele (tutto proteso, prima, in un’allungamento forzato) si ricompatta, come conviene a chi stia inginocchiato e compia un cenno di saluto. Sicché, quelle che parevano difficoltà di Leonardo sono, al contrario, segni evidenti della sua precoce perizia in materia di prospettiva.
Stupisce che la letteratura critica abbia imputato a una mancanza d’esperienza di Leonardo le presunte incertezze spaziali dell’Annunciazione. Stupisce perché si tratta d’una superficialità esegetica che cade in un campo privilegiato dalla più parte degli storici dell’arte, sempre vòlti all’indagine formale e quasi mai (colpevolmente) all’interpretazione dei contenuti. I quali, nel caso della nostra Annunciazione, avrebbero invece dovuto indurre a soffermarsi davanti a quella folgorante apertura di paesaggio marino e montano che si spalanca esattamente al centro del quadro, di lì reclamando un’attenzione quasi esclusiva e una decodificazione che ne giustifichi la perspicua e marcata presenza.
L’indagine potrebbe partire dal luogo da cui la tavola giunse agli Uffizi, vale a dire dal monastero di San Bartolomeo a Monteoliveto, di cui erano titolari gli Olivetani. La congregazione benedettina degli Olivetani era stata fondata da Giovanni Tolomei, che, nutrendo una speciale affezione per san Bernardo di Chiaravalle, aveva sostituito il suo nome di battesimo con quello di Bernardo. E di Bernardo di Chiaravalle, fervente devoto di Maria, sono rinomati i quattro sermoni intitolati Homiliae in laudibus Virginis Mariae; che sono appunto meditazioni sul tema dell’annuncio a Maria.
La visione della montagna, alta e bianca, sorgente dal mare, è a tal segno icastica da convincere d’essere figura di un’alta valenza simbolica; giacché non è pensabile che a un paesaggio (in quanto tale) venga conferita un’importanza maggiore di quella riservata alla fanciulla che in quell’istante sta diventando la madre di Dio. Ed è assai significativo che proprio con l’immagine del «mons montium» – il «monte dei monti» – quasi si apra la prima omelia di san Bernardo sull’episodio dell’Annunciazione.
Bernardo desume l’immagine del «monte dei monti» sia dalle Scritture che da sant’Agostino, esegeta da lui amato e studiato. Proprio Agostino in un discorso sul salmo 67, scrive: «Monte di Dio, monte fertile, monte pingue […]. E quale monte dobbiamo intendere come monte di Dio, monte fecondo […] se non Cristo Signore?». E poco sotto: «In effetti, monte è lo stesso Signore Gesù […] Monte dei monti, così come è il santo dei santi».
Ecco, allora, nell’agostiniano «monte dei monti» – figura di Cristo – la stessa immagine proposta da Bernardo di Chiaravalle. Un’immagine che tanto più parrà attinente alla figurazione concepita da Leonardo per campeggiare al centro della storia con l’annuncio a Maria, se si tiene conto delle parole che Agostino, tornando ancora a Isaia, pronuncerà in un suo discorso sul Vangelo di Matteo: «Il monte, come insegna il testo del Profeta [Is 2, 2], è il Signore stesso […]; il mare è questo mondo per tutti i pagani [sant’Agostino]».
Proprio una montagna che sorge dal mare, svettando su monti che le stanno d’intorno, è quanto risulta dipinto dal Vinci là dove s’apre il sipario del corteo arboreo, giacché – come attesta la linea d’orizzonte che si prolunga fin sotto l’ala dell’angelo, a tagliare un piccolo squarcio di cielo – non d’acqua di lago si tratta, bensì davvero di mare. Sicché tutto par farsi metafora dell’Incarnazione: nell’atto dell’annuncio, una vergine concepisce il Figlio di Dio, che si fa uomo («monte dei monti»), e viene nel mondo, di cui il «mare» è figura.
Ecco perché quel paesaggio è così icastico. Il suo significato si rivela, però, soltanto agli occhi di chi riconosca in ogni opera d’arte un testo poetico; il cui valore è merito per metà della lingua (figurativa, s’intende) e per metà del pensiero. Che invece per solito è trascurato, se non ignorato.
(2 – continua)