Cultura & Società
Arte e fede, la bellezza che ci rende più umani
«Raccontare, mostrare il patrimonio storico artistico del nostro Paese richiede un’adesione fedele e insieme creativa, rigorosa e appassionata a una realtà che per straordinaria ricchezza non ha paragoni al mondo». Lo afferma l’arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, nella lezione che ha tenuto, martedì 21 aprile, all’Università internazionale dell’Arte, a Villa il Ventaglio, uno dei più prestigiosi centri mondiali per lo studio della conservazione e il restauro dei beni artistici e culturali, nato a seguito dell’alluvione del 1966. Betori ha svolto una relazione sul ruolo dell’arte nella comunicazione del messaggio cristiano di cui, di seguito, pubblichiamo alcuni brani.
Parlare di «comunicazione» oggi è un compito a un tempo facile e assai complesso. È facile vista l’importanza che la comunicazione ha oggi nella nostra società «mediatica», in cui la comunicazione sociale e i suoi mezzi giocano un ruolo privilegiato nella costruzione dell’opinione pubblica e, in ultima analisi, nella delicata questione di creare consenso attorno a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, a ciò che è bene e ciò che è male. Si tratta di parametri fondamentali per la costruzione dell’edificio sociale, in ogni epoca e per ogni società, in quanto su di essi poggiano i principi condivisi che permettono la vita stessa della società.
Nella società mediatica il valore non è più la solidità dell’origine ma la mobilità della superficie. L’immagine e la comunicazione vengono prima del contenuto, anzi l’hanno sostituito, in quanto esso appare radicalmente posto in discussione se non addirittura rifiutato. Dopo l’homo sapiens siamo oggi all’homo communicans, come lo ha definito Wiener: il primo è caratterizzato dall’acquisizione del sapere, il secondo invece dall’attenzione a volte ossessiva per le informazioni, che può finire per svuotare il contenitore di ogni contenuto. L’uomo dedito alla comunicazione si trova ad essere sottomesso alla tirannia dell’immagine (la sua e quella che gli forniscono i media). La ricerca dell’identità è stata sostituita da una operazione di marketing o di propaganda.
Ma, pur considerando il quadro drammatico in cui l’homo communicans viene alla luce, la comunicazione è tutt’altro che un male. Ne è testimone autorevole la stessa Chiesa, da sempre maestra in comunicazione. Fondata sulla parola, diffusasi attraverso la predicazione, produttrice di immagini che hanno saputo condensare in sé una stratificazione straordinaria di significati (Firenze è in ciò esemplare: pensiamo soltanto alla polisemia, accumulatasi nella storia, della cupola del Brunelleschi), la Chiesa, nel trascorrere dei secoli, ha saputo elaborare, a partire dai pilastri della fede, linguaggi adatti a parlare agli uomini di ogni epoca. La trasparenza dei codici era garantita però dall’accettazione di un’origine solida e condivisa. Nella civiltà cristiana l’iconografia di un episodio evangelico o di un santo, lo schema planimetrico di una chiesa, il colore di una veste liturgica rientravano in un patrimonio di simboli comune, leggibile, anche se a diversi livelli, da tutta la comunità.
L’avvento di un’era in cui il Vangelo non è più il fattore di coerenza spirituale e culturale di tutta la società ha reso opachi codici un tempo limpidissimi. L’erosione dei simboli cristiani operata dal processo di secolarizzazione ha raggiunto livelli tanto alti da non poter lasciare più nulla di scontato. Risulta che un semplice test tra gli studenti delle scuole superiori sul significato della colomba nelle raffigurazioni del Battesimo di Cristo dia risultati ben poco confortanti: per i più è simbolo della purezza ovvero della pace. Sempre più numerosi sono coloro che entrano in una chiesa come si può entrare in un museo, semplicemente per turismo (culturale e non), per curiosità. E sempre più senza comprendere. Ecco allora che l’eredità che innumerevoli comunità di uomini e di donne hanno voluto offrire alle generazioni future corre il pericolo di restare senza eredi. E non mi si dica che è pur sempre possibile un’analisi estetica dei manufatti artistici di ispirazione religiosa. Mi si passi il paragone, sarebbe come voler comprendere cosa sia un’automobile fermandosi alle linee e ai colori della carrozzerie, senza mai chiedersi per quale scopo essa sia stata costruita.
Gli strumenti impiegati per secoli dalla Chiesa per comunicare rischiano oggi di essere muti.
Il cambiamento culturale in atto esige che la parola in questo caso l’immagine della fede sia non solo «ridetta», ripetuta, ma «ripensata». La Chiesa in questo ha un’esperienza antica, che le deriva dalla pratica dell’inculturazione. Non bisogna avere paura di questa contemporaneità così fluida. Non si deve sposarla, ma neppure comportarsi come se non esistesse. Trovare i modi per riattivare il potenziale comunicativo dei beni culturali ecclesiastici significa spazzare via la cenere della musealizzazione che li sta ricoprendo e riaccenderne l’attualità. Il Vangelo non è lettera morta. Il segno sacro è fatto per essere vivo. E un essere vivente parla, comunica, interagisce.
La comunicazione dei beni culturali religiosi non può essere improvvisata: dobbiamo essere in grado di trovare i sistemi per riattivare il potenziale comunicativo del mezzo costituito dal bene culturale, così da rendere nuovamente attingibile e trasparente l’origine.
Per far questo la Chiesa deve individuare una propria via. Tra le difficoltà, ci sono però alcuni punti che giocano a suo vantaggio. E il principale di questi è l’orizzonte in cui si collocano i termini della questione: la bellezza.
La soppressione dell’interiorità ha reso più ardente nell’uomo la sete che da sempre lo caratterizza. I surrogati propostigli dalla comunicazione non possono che acuirla ulteriormente. Solo la bellezza può placarla. Solo la bellezza può sovvertire i giochi, spezzare le catene degli slogan e delle mode, toccarci nell’intimo e far emergere il lato profondo della nostra umanità e del nostro stare insieme. L’arte che la fede e la Chiesa hanno saputo suscitare nei secoli sono un serbatoio inesauribile di questa bellezza. Riuscire a fare aprire gli occhi su uno dei tanti capolavori che anche le chiese più piccole e disperse custodiscono significa riuscire a fare spalancare lo sguardo dell’uomo su di sé.
Comunicare è un’arte. Tanto più quando l’arte è l’oggetto stesso del comunicare. Raccontare, mostrare il patrimonio storico artistico del nostro Paese richiede un’adesione fedele e insieme creativa, rigorosa e appassionata a una realtà che per straordinaria ricchezza non ha paragoni al mondo. Ma l’Italia è un territorio sacralizzato, i segni della cristianità appaiono ovunque nelle forme più varie: dalla maestà del duomo, che domina il centro storico, al candore della pieve, che inonda la campagna.
Il nostro è un tesoro affascinante perché diffuso e stratificato. Sta qui il vero primato a livello di beni culturali che il nostro Paese può vantare. Dalla coscienza di questa realtà può muovere una strategia consapevole di comunicazione. Questo orizzonte deve fare da sfondo al racconto e alla promozione del nostro patrimonio.
L’arte è stata per secoli uno degli strumenti principali per la trasmissione della fede. E oggi? Quali sono i margini di azione e presenza dell’arte dei nostri tempi nella Chiesa? Non è questo il luogo per ripercorrere i motivi storici che hanno portato nella modernità alla separazione tra espressioni artistiche contemporanee e sfera ecclesiale. Un divorzio che però ha determinato drammatiche conseguenze sia sull’arte e gli artisti sia nella comunicazione estetica delle Chiesa. Ma negli ultimi decenni è anche vero che molto è stato fatto per superare la frattura. Mi piace ricordare, tra i numerosi esempi, uno dei più recenti, di cui sono stato modesto promotore e che mi sembra particolarmente significativo perché è un caso di comunicazione per così dire «integrata», che combina cioè parola e immagine. Si tratta della pubblicazione del nuovo Lezionario della Conferenza episcopale italiana il libro in più volumi (in questa edizione nove) che raccoglie le letture dell’Antico e del Nuovo Testamento da proclamare nella celebrazione della santa Messa lungo l’anno liturgico, nelle feste di santi, nei riti sacramentali e in occasioni varie . La Chiesa ha sempre circondato di venerazione non solo la proclamazione della Parola di Dio, riservandole un posto preminente nell’azione liturgica, ma anche il libro stesso – lezionario e soprattutto evangeliario – su cui sono fissate le parole da leggere nell’assemblea. Una particolare cura è stata da sempre riservata anche al materiale del libro e alla sua decorazione, effettuata con disegni evocativi dei contenuti delle pericopi bibliche e delle feste più significative dell’anno liturgico. Non si tratta però di semplici illustrazioni. Alla base di questa scelta sta infatti una precisa teologia, che ha trovato codificazione nella storia della Chiesa nel 787 al Concilio di Nicea II, in cui si ricollega l’icona al mistero stesso dell’Incarnazione e la metodologia è quella di un reciproco rinvio tra le parole della Scrittura e l’immagine artistica che ne dice in altra forma il senso. Nella pubblicazione dei volumi del nuovo Lezionario, in atto a partire dal 2007, la Chiesa italiana ha voluto assicurare al libro da cui viene proclamata nell’assemblea la parola di Dio la presenza di immagini che offrono alla contemplazione degli occhi il messaggio di quanto le parole si incaricano di narrare e annunciare. Di qui è nato un fecondo dialogo con alcuni tra i più accreditati artisti italiani contemporanei, provocati da una committenza che chiedeva di entrare con il proprio segno artistico a confronto con i tratti testuali del libro sacro.
Questa operazione rientra a pieno titolo in quel “Progetto culturale orientato in senso cristiano” che alimenta l’impegno della Chiesa italiana da circa un decennio e che ci vede in fruttuoso dialogo con diversi ambiti della cultura contemporanea, al fine di poter esprimere la verità del Vangelo in forme comprensibili e plausibili per l’uomo contemporaneo, così da costituire risposta ai suoi interrogativi profondi e fattore di più alta e umanizzante convivenza sociale. In questo orizzonte, il Progetto culturale segna un’importante presa di coscienza da parte della Chiesa. Resta però la parte forse più difficile: il fatto che questa presa di coscienza sia, oltre che forte, diffusa.
I beni culturali oggi possono essere per la Chiesa un prezioso strumento di nuova evangelizzazione e di percorsi significativi per il Progetto culturale. Ma occorre fare scelte precise e destinare risorse. Servono figure capaci di compendiare preparazione storica e teologica e linguaggi della comunicazione. Operatori in grado di interfacciarsi in maniera rispettosa tra le esigenze di un’aderenza alla natura sacra delle opere e quelle di un pubblico di volta in volta preparato, vorace, scostante, disattento, analfabeta. Ma i soggetti della comunicazione sono anche chi ha un ruolo o una presenza rispetto al bene culturale ecclesiastico. In primis, gli interlocutori dei beni culturali sono proprio la gerarchia e il popolo dei fedeli. Ci sono già iniziative volte alla formazione di questi intermediatori culturali. La collaborazione tra enti ecclesiali e università consentirebbe la creazione di percorsi di formazione ad hoc. Sta però alle Chiese locali smuoversi da una certa pigrizia o dalla paura (quante volte la cultura è purtroppo vista più come un peso che come una risorsa) che rallentano e vanificano molti sforzi. Abbiamo già perso troppo tempo. C’è fermento, c’è voglia di fare. Raccogliamo i segni dei tempi. È per noi un dovere particolare in questa città, che come nessuna ha dato e ricevuto dall’incontro tra fede e arte, e che non può sottrarsi nel presente a questa sua specifica vocazione. Non mancano competenze e risorse; occorre meglio progettare e organicamente collegare, perché risorse e competenze non vadano disperse e con esse si disperdano occasioni preziose per la Chiesa e per la cultura.