Italia

Art. 18, più ideologia che altro

Il 15 e il 16 giugno si svolgeranno i referendum sull’articolo 18 e sulla «servitù coattiva degli elettrodotti». Non c’è dubbio che il primo abbia preso la scena al secondo. Il motivo è semplice: perché chiede l’estensione del diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa a tutti i lavoratori, anche quelli di aziende con meno di 15 dipendenti. In molti però sostengono che si tratti di un referendum «politico» che poco ha a che vedere con il lavoro. Gli stessi sindacati si presentano divisi con la sola Cgil favorevole al sì. Molte perplessità anche sul fronte dei partiti: quasi tutti per l’astensione ad eccezione di Rifondazione comunista e dei Verdi. L’agenzia Sir ne ha parlato con Antonio Maria Baggio, docente di etica sociale alla Pontificia Università Gregoriana.

Professor Baggio, quale è la reale posta in gioco del referendum sull’articolo 18?

«Il referendum sull’articolo 18 si inscrive in una storia di contrapposizione ideologica che non risolve alcun problema. La reale posta in gioco non viene risolta con il referendum. Infatti tutta l’Unione europea è alle prese con l’introduzione di una normativa comune in merito a contratti e orari di lavoro, alla formazione continua dei lavoratori, all’efficienza delle imprese, alla sicurezza e alla tutela dei lavoratori. Questi temi non possono essere affrontati in maniera ideologica. Lo dimostra il fatto che nel febbraio dell’anno scorso il Governo italiano e quello inglese hanno firmato un documento comune su questo argomento. Quindi, chi si muove ideologicamente si trova spiazzato».

Come valutare le diverse posizioni?

«Le posizioni ideologiche presenti all’interno del mondo industriale e del sindacato espongono il Paese a dei forti rischi. Anzitutto quello che l’opinione pubblica approvi soluzioni obsolete, come quelle indicate dal referendum. Estendere i contenuti dell’articolo 18 anche alle imprese che non superano i 15 dipendenti significa prendere di mira solo i lavoratori dipendenti, considerati ancora alla stregua della massa operaia degli anni ’60/’70. Oggi ci sono nuove figure di lavoratori che vanno tutelati. Il referendum che ci viene proposto non si occupa minimamente di essi. Un altro rischio, quindi, è mantenersi su posizioni ormai arretrate senza riflettere sulle nuove figure del lavoro. L’auspicio è che all’interno dei due schieramenti, industriali e sindacati, prevalgano forze ragionevoli, che cerchino il dialogo».

È possibile non prestare il fianco a strumentalizzazioni?

«La strumentalizzazione è nel referendum stesso. Il problema da affrontare, infatti, è più vasto; riguarda tutta la riorganizzazione del lavoro e la tutela dei vecchi e dei nuovi lavoratori. Presentare il referendum chiedendo l’estensione dell’articolo 18 alle imprese sotto i 15 dipendenti è già una strumentalizzazione: si usa un problema reale per portare vantaggi a quelle classi dirigenziali che non hanno intenzione di rinnovarsi. L’errore fondamentale è stato mettere in discussione l’articolo 18. Bisognava piuttosto porre mano a una riforma d’insieme con agli altri Paesi europei».

Perché un errore mettere in discussione l’articolo 18?

«L’articolo 18 riconosce ai lavoratori dei diritti essenziali che riguardano la persona. Esso, infatti, introduce l’idea che per licenziare un lavoratore è necessaria una giusta causa o un motivo giustificato. Se questa condizione non venisse rispettata, il giudice reintegra il lavoratore nel posto di lavoro e stabilisce anche un risarcimento. Questo articolo, legato al mondo del lavoro, è tutelato dalla Costituzione ed è un principio di civiltà. Il referendum che abbiamo davanti sposta il problema, perché parte da un principio enunciato 30 anni fa – che avrebbe bisogno di una riforma proprio per essere salvaguardato – e ne fa un criterio intoccabile nel modo di esecuzione».

Come potrebbe cambiare il mondo del lavoro, se venisse raggiunto il quorum?

«Se paradossalmente il referendum raggiungesse il quorum e venisse approvata la proposta si aprirebbe una situazione di attacco alla piccola imprenditoria. Il problema vero, invece, oggi è incoraggiare gli imprenditori ad assumere i lavoratori assicurando loro delle garanzie. Bloccare questo processo significa non capire la realtà dell’occupazione e dello sviluppo delle piccole aziende».

Padre Sorge: «Perché è giusto astenersi»In un editoriale di «Aggiornamenti sociali», il direttore, padre Bartolomeo Sorge, invita a non andare a votare per il referendum sull’articolo 18. «Oggi i cittadini – spiega il noto gesuita – sono chiamati a dire sì o no ad una versione semplificata e del tutto inadeguata di un problema che è molto più complesso della questione referendaria a cui è stato ridotto: cioè se applicare o meno la clausola della giusta causa alle piccole aziende». Secondo padre Sorge, votare sì, con la conseguente estensione dell’art.18 e dell’obbligo di reintegro anche nelle imprese con 15 dipendenti o meno a tutti i contratti di lavoro senza distinzione alcuna, renderebbe «il nostro mercato del lavoro ancora più rigido di quanto è già», bloccando «la parte forse più vivace del nostro sistema produttivo, composta da artigiani, commercianti e piccoli imprenditori», finendo per incrementare lavoro nero e precarietà. D’altro canto, votare no e quindi esprimersi a favore del mantenimento della situazione esistente, potrebbe sì «tradursi in una spinta a trovare altre strade» per la tutela del mondo del lavoro, ma potrebbe anche essere interpretato «come un voto contro la tutela dei lavoratori tout court». «Il comportamento più saggio dunque – afferma Sorge – è astenersi dal votare, facendo mancare il quorum necessario alla validità della consultazione», segno di una partecipazione responsabile che «conferisce una valenza morale e politica all’astensione, come riconosce l’art. 75 della nostra Carta costituzionale, dove si prevede che un referendum possa legittimamente fallire per mancanza del quorum necessario» e della convinzione che «il referendum non è lo strumento adatto a risolvere questioni come quelle del lavoro, che vanno invece affrontate con il dialogo, la trattativa, la ricerca del consenso, la partecipazione di tutte le parti interessate, cioè con gli strumenti propri della politica sociale, tenendo sempre presente il bene comune, stella polare di ogni attività politica». Elettrodotti: una servitù di lunga dataIl secondo referendum in programma il 15 e 16 giugno è dedicato ad una questione abbastanza particolare: all’abrogazione della servitù di elettrodotto stabilita da un regio decreto del 1933 per il quale «ogni proprietario è tenuto a dare passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree e sotterranee che esegua chi ne abbia ottenuto permanentemente o temporaneamente l’autorizzazione dall’autorità competente». I promotori del referendum chiedono che contemporaneamente sia abrogato l’art. 1056 del Codice civile per il quale «ogni proprietario è tenuto a dare passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche, in conformità alle leggi in materia».I promotori sostengono che «questi articoli di legge che si vogliono abrogare sono nati quando la gestione dell’energia elettrica era di competenza statale e bisognava portare l’elettricità a tutti, permettendo il passaggio di un elettrodotto attraverso le proprietà pubbliche e private, indipendentemente dalla volontà dei proprietari o degli amministratori: quando sono state emanate, s’ignoravano i gravi effetti sulla salute e sugli equilibri naturali dei territori attraversati». «Oggi – a giudizio degli ambientalisti – le società private che producono e trasportano l’energia, utilizzano questa normativa per prevaricare i diritti dei cittadini e scavalcare le amministrazioni comunali».

Il quesito di questo referendum è all’apparenza molto più semplice dell’altro, in quanto il quesito posto sull’articolo 18 si presenta lunghissimo a causa della lunghezza degli articoli e dei commi da abrogare per «estendere a tutti i lavoratori subordinati i diritti e le tutele previsti dall’art.18 della legge 20 maggio 1970».