Cultura & Società
Armenia, un genocidio ancora sconosciuto
Un genocidio consumato non già per annientare una resistenza né eliminare un concorrente o per impadronirsi d’un territorio: bensì per estirpare dalle radici un popolo, una civiltà, una cultura, una tradizione, insomma una presenza. È la coscienza di ciò che ci consente d’uscire dall’infame equivoco della computisteria funebre: non si tratta di stabilire quale regime tirannico o quale demoniaco groviglio di ferocia, di volontà di potenza e d’interesse abbia fatto più vittime, bensì di condannare una mostruosità che non ha pari nella sua radice impastata di lucida follìa ideologica e di preteso scientismo. Ideologia e scientismo che, non dimentichiamolo, sono due mali correlati alla Modernità e complementari all’ateismo. Restano veri, per la Shoah, i due grandi aforismi di Dostoevskji e di Chesterton: «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e «Quando si smette di credere in Dio non è che non si crede più in nulla: al contrario, si comincia a credere a tutto».
Ma si commetterebbe davvero a nostra volta un delitto, e si offenderebbero senza remissione le vittime stesse della Shoah, se la sua unicità servisse per così dire a coprire in qualche modo gli altri genocidi; se il mostro razzista che l’ha provocata servisse, sbattuto in prima pagina, a nascondere altri mostri altrettanto infami anche se di differente segno politico o ideologico. Al contrario, la Shoah è, nel senso etimologico del termine, esemplare: ricordando e onorando le vittime di quell’immane massacro noi rendiamo omaggio a tutti gli innocenti del mondo e della storia impegnandoci a far sì che i diritti dell’uomo e la dignità della condizione umana divengano sempre più qualcosa di diverso da pure espressioni retoriche (quali per troppi versi sono rimaste anche dopo il ’45). Perché non ci siano più sulla terra non solo né Lager né Gulag, bensì nemmeno pellerossa, o tasmaniani, o africani, massacrati per qualunque ragione e nel silenzio-assenso dell’opinione pubblica del loro tempo e di quelli successivi. Cambiano i tempi, cambiano anche le condizioni dei genocidi. Ma i bambini africani che oggi muoiono di fame perché vittime indirette d’un barbaro sistema di produzione, di sfruttamento e d’iniqua distribuzione delle ricchezze e delle risorse del mondo sono vittime d’un genocidio del quale noi, col nostro quotidiano silenzio-assenso, siamo ben più colpevoli di quanto non fossero della Shoah i tedeschi sotto il regime hitleriano, che nella loro stragrande maggioranza non potevano né sapere né sospettare e che erano soggetti essi stessi a un duro regime di disinformazione e di polizia. Noi sappiamo, noi siamo o riteniamo d’essere liberi: non abbiamo scuse.
Per lo stesso motivo, bisogna procedere non solo a una purificazione, ma anche a un’attenta ricostruzione della nostra memoria. Ad esempio, appunto, recuperando certe cognizioni storiche per vari motivi cancellate o addirittura mai possedute: e, anche in questi casi, l’ignoranza non era per nulla innocente.
Si ricorda in questi giorni il novantesimo anniversario dell’inizio del genocidio armeno da parte dei turchi. In passato, c’è stato chi preferiva ignorarlo: anche perché la repubblica turca era una dei più fedeli alleati asiatici e musulmani dell’Occidente nella «Guerra Fredda», ed è rimasta anche dopo un pilastro fondamentale della politica atlantista e di quella degli Stati Uniti. Sappiamo che ancor oggi i turchi hanno difficoltà a riconoscere le loro passate responsabilità, per quanto molto sia cambiato anche dopo il convegno tenuto a Istanbul proprio su questo tema qualche settimana fa: del resto, l’ammissione delle responsabilità nei confronti delle etnìe armena e curda è uno dei prezzi che noi chiediamo alla società turca per esser ammessa nella Comunità Europea.
In realtà, il genocidio armeno era iniziato parecchio prima: nei primissimi anni del XX secolo, Giosuè Carducci gli dedicava una poesia dai toni molto duri. Quindi certe cose si sapevano.
Ma il sistematico massacro degli armeni, portato avanti soprattutto negli anni 1916-17 e del resto proseguito anche in seguito, non era affatto figlio e questo va capito bene oggi, perché molti amano ormai parlarne in quanto pensano così di recar un contributo all’approfondirsi dei pregiudizi contro l’Islam del fanatismo religioso, come non lo era della tirannia politica. Il potere assoluto dei sultani ottomani non aveva mai incoraggiato i massacri indiscriminati per motivi etnici o religiosi; l’islam turco tradizionale aveva sempre considerato gli armeni un millet (comunità soggetta) fatto di jimmi (sudditi tutelati) che, appartenendo a una «religione del Libro» come il cristianesimo, avevano diritto a mantenere la loro fede e le loro tradizioni a patto di pagare certe tasse e di esser fedeli al governo di Istanbul. Gli armeni erano una delle colonne portanti dell’economia e del commercio dell’impero della Mezzaluna. Ma la modernizzazione della Turchia procedette di pari passo con la nascita di un nazionalismo turco, il quale si modellò ovviamente su quelli europei: furono i giovani ufficiali dell’esercito e i giovani intellettuali raggruppati nel movimento detto appunto dei «Giovani Turchi» che, tanto occidentalizzanti quanto tendenzialmente «laicisti» (fra loro avevano grande fortuna le Logge massoniche), tanto progressisti quanto sovente atei, non ebbero tuttavia scrupolo alcuno nell’usare strumentalmente l’Islam come elemento identitario: gli armeni erano pertanto «nemici interni» dell’impero in quanto etnicamente stranieri (indoeuropei, diversi dunque dai turchi che sono uraloaltaici) e religiosamente estranei, secondo quella sintesi tra nazione e Islam ch’è profondamente antimusulmana (nella fede coranica le differenze etniche sono del tutto irrilevanti) ma che servì ottimamente alla demagogia nazionalista. E fu una «pulizia etnica» dura e feroce, che d’altronde sottrasse ai turchi energie militari e procurò loro inimicizie interne ed esterne: che, in ultima analisi, contribuì alla loro stessa sconfitta militare del 1918 e che li disonorò di fronte alla comunità internazionale.
Per troppi anni quest’infamia è stata coperta per compiacere a quelle forze che non avevano, per motivi politici, interesse a ricordarla. Oggi, può darsi che al contrario essa venga riesumata e sottolineata non perché il farlo è obiettivamente un nostro dovere di uomini liberi e di esseri umani, ma perché si suppone possa servire a qualcuno, e ancora una volta al fine di qualche speculazione politica. Il rispetto dovuto a quelle vittime innocenti ci obbliga a impedirne una strumentalizzazione postuma.
C’è un modo per onorare gli armeni caduti a centinaia di migliaia durante il genocidio di novant’anni fa. Esso non consiste affatto nella stolida e falsa denunzia dell’«Islam che ha sempre massacrato i cristiani», ma nell’identificazione di chi oggi è «armeno», cioè minacciato di genocidio; per impedire che quell’orrore si ripeta altrove, ancora oggi, per motivi diversi dal fanatismo religioso-nazionale, sotto altre forme. Abbiamo già constatato penso alla «pulizia etnica» nei Balcani di non essere ancora guariti da quei vecchi mali. Sperimentiamo ancor oggi un iniquo sistema d’informazione ad esempio quello relativo all’Iraq e all’Afghanistan nel quale si dà evidenza solo ai morti occidentali trattando quelli irakeni o afghani come fossero puri numeri, indegni magari perfino di esser contati (difatti non ne sappiamo la quantità, a fronte per esempio dei duemila soldati americani caduti in Iraq). Ma esistono altre forme di genocidio, legate ai meccanismi della globalizzazione e al perpetuarsi di una distribuzione delle risorse mondiali che rappresenta ancor oggi, soprattutto oggi, una negazione di Dio eretta a sistema socioeconomico. Fermiamo gli assassini dalle mani spesso in apparenza pulite che perpetuano i genocidi del XXI secolo. Smettiamo di esser loro complici, di far loro da spalla fingendo di non sapere e di non capire.