Cultura & Società
Armeni, la verità sul genocidio negato
Il termine «genocidio», usato da papa Francesco durante la Messa della Domenica in Albis (12 aprile 2015) per indicare la tragedia del popolo armeno nella penisola anatolica dell’inizio della quale quest’anno ricorre il formale centenario, ha scatenato involontariamente un vero e proprio uragano diplomatico.
La repubblica turca ha sempre rifiutato che una tale responsabilità vada ascritta al paese anche se – giova ricordarlo – fu proprio il governo turco uscito dalla bufera della prima guerra mondiale che, nel 1919, dispose la celebrazione di un processo per crimini di guerra contro i responsabili principali di quella catena di eccidi che aveva avuto il suo acme tra ’15 e ’17 e la loro condanna a morte (peraltro mai eseguita in quanto gli imputati erano contumaci).
Ma il crimine di genocidio è stato definito dalle Nazioni Unite nel 1948 con una formula complessa, nella quale molti stati hanno riconosciuto inscritto anche il «caso» armeno, laddove il governo della repubblica turca, pur ammettendo deportazioni e stragi di cui si sarebbero resi responsabili i capi politici e militari della giunta che allora era alla guida dell’impero ottomano, ha sempre negato che essi possano configurarsi come genocidio: e tale parola è ufficialmente, formalmente proibita in Turchia con riferimento a quanto accaduto durante la prima guerra mondiale e dintorni.
Dal momento che la repubblica turca ha ancora una costituzione che noi potremmo definire fieramente laicista (se il termine «laico» fosse appropriato a definire le istituzioni di un paese a stragrande maggioranza musulmana), e dove i cittadini si qualificano anzitutto e fondamentalmente per la loro qualifica nazionale, senza riguardo alcuno (almeno formalmente) per la fede religiosa, le stesse minoranze cristiane di nazionalità turca si sono sentite colpite e offese dalle parole del papa e hanno tenuto – autorità patriarcali in testa – di dover confermare il loro lealismo nazionale. Il kemalismo, nonostante l’attività ormai quasi apertamente revisionistica di Erdoğan. In un clima di ormai purtroppo diffusa tensione tra comunità cristiane e comunità musulmane, le parole di papa Bergoglio hanno involontariamente messo in difficoltà i cristiani turchi: non era questa l’intenzione del papa, tuttavia la cosa va sottolineata altrimenti la delicatezza della questione che ne è scaturita potrebbe venire sottovalutata da noialtri «occidentali». Ma in che cosa consistette realmente quell’episodio che a un secolo di distanza suscita ancor oggi tanti problemi, quel lontano «passato che non passa»? Cerchiamo di rispondere contestualizzando l’accaduto di allora nel quadro storico di quegli anni.
Nella primavera del 1915 la Chiesa apostolica armena diffuse, attraverso l’ambasciatore statunitense nell’impero ottomano Henry Morgenthau, una serie di drammatiche fotografie: file di prigionieri malvestiti e denutriti, scene di massacri di massa, cumuli di teste tagliate. A riguardarle oggi, nonostante ormai il XX secolo e l’inizio del XXI ci abbiano abituati a vedere ben di peggio, quelle foto ispirano ancora pietà e orrore.
La diffusione di quei documenti è stata assunta a inizio formale del genocidio degli armeni da parte di reparti dell’esercito ottomano: gli esecutori materiali del crimine furono, salvo rare eccezioni, dei turchi. L’impero sultaniale era multietnico, e anche il suo esercito lo era: ma ormai da sei anni c’era stata la rivoluzione nazionalista, occidentalizzante e progressista dei «Giovani Turchi». E uno dei prodotti di quell’ondata rivoluzionaria nazionalista – il nazionalismo, largamente diffuso in Occidente, era ancora praticamente ignoto nel mondo musulmano: per quanto inglesi e francesi stessero già tentando, con successo, d’introdurlo fra gli arabi ma (ironia della storia!) in funzione antiturca – fu il progetto di «pulizia etnica» che avrebbe dovuto completamente turchizzare la penisola anatolica. Esso riguardava, certo, anche i curdi, etnia di stirpe e lingua iranica: ma essi erano musulmani sunniti, buoni soldati fedelissimi al sultano, e allora furono lasciati per il momento da parte.
Come al solito, la storia è complessa. Non è del tutto vero né che la persecuzione contro gli armeni era cominciata nel 1915, né che era stata tutta un’invenzione del movimento dei «Giovani Turchi» (che semmai avevano innestato il loro razzismo sul ceppo dello scientismo evoluzionista oggetto, come tutte le cose occidentali, della loro ammirazione). Ma la tragedia era stata avviata da prima. Per comprenderne la portata, bisogna compiere il fatidico passo indietro (di parecchi decenni) e comprendere che cosa intanto era accaduto nell’impero ottomano.
Già dalla prima metà dell’Ottocento il governo e la classe dirigente sultaniali avevano avviato una complessa ma decisa azione modernizzatrice ed europeizzatrice della loro compagine. Sino dagli anni Ottanta, il sultano Abdül-Hamit – protagonista di una pesante politica repressiva che gli aveva procurato molti avversari – aveva abbracciato con decisione anche un programma di tipo nazionalista ispirato soprattutto ai modelli diffusi nei mondi francese e tedesco del tempo. Ciò aveva comportato la volontà di turchizzazione progressiva della penisola anatolica, con il tragico risultato dei primi massacri dei cristiani armeni, tra 1890 e 1897 (le stime vanno dalle 100.000 alle 250.000 vittime).
Nel giugno del 1896 Giosuè Carducci, sulla base di uno scarno dispaccio telegrafico proveniente da Atene dove si diceva che i turchi, in quel momento in guerra contro la Grecia per il possesso dell’isola di Creta, cominciavano a mietere in Tessaglia e continuavano intanto a saccheggiare, componeva – indignato per la ferocia ottomana, ma anche per quella che gli appariva come «l’ignavia dell’Occidente» (il ministro Gentiloni non s’è inventato niente) – una poesia, La mietitura del Turco, ch’è un’autentica denunzia-invettiva:
L’inizio della strage degli armeni data pertanto da circa un quarto di secolo prima di quello che oggi viene ricordato formalmente come l’anno del suo avvio. Ma qual era la situazione del periodo?
Dopo il congresso di Berlino del 1878, che aveva strappato al sultano molte aree balcaniche, era ormai chiaro che l’impero stava avviandosi a coincidere sempre di più, sotto il profilo territoriale, quasi esclusivamente con la penisola anatolica (a parte il Meridione arabo). Erano quindi nate all’interno della classe dirigente ottomana – e soprattutto negli ambienti più colti e vicini all’Occidente – le istanze di totale turchizzazione dell’Anatolia: un’idea fino ad allora inaudita.
Ma tra gli avversari del sultano c’era chi voleva addirittura andare ben oltre. Nel 1907 i vari gruppi che costituivano l’opposizione al governo sultaniale, capeggiati dal Comitato «Unione e Progresso» e dalla società «Patria e Libertà» guidata da Mustafa Kemal (il futuro Atatürk) si fusero nel Partito che ordinariamente venne denominato «dei Giovani Turchi», con un programma fortemente nazionalista e modernizzatore ispirato principalmente al nazionalismo tedesco e alle tesi teistico-scientiste care agli ambienti massonici (le logge massoniche erano penetrate nel mondo musulmano già dalla fine del Settecento, sull’onda dell’entusiasmo suscitato in Egitto dal proclama che il giovane generale Bonaparte aveva pubblicato in Alessandria il 2 luglio del 1798). Le genti anatoliche, pretendevano i «Giovani Turchi», andavano rigorosamente turchizzate espellendo dalla penisola le minoranze etniche (arabi nel Meridione, turchi e armeni nell’interno, greci sulle coste occidentali); da questo punto di vista – mentre i curdi, iranici e musulmani, venivano soggetti a una specie di turchizzazione unilaterale – il problema più grave era costituito dagli armeni, che per giunta erano anche cristiani. L’Islam difatti, dal punto di vista non tanto propriamente religioso quanto storico-culturale, stava sempre più divenendo nella prospettiva nazionalprogressista turca una parte del progetto di costruzione di una nuova «grande patria turca».
I «Giovani Turchi», filotedeschi e ammiratori della Germania guglielmina, si andavano dal canto loro distinguendo in nazionalisti «piccolo-turchi» e in «grandi turchi» panturanici: una distinzione che ripeteva esattamente quella dei nazionalisti tedeschi in «piccoli tedeschi» che guardavano alla Germania vera e propria e in «grandi tedeschi» pangermanisti che aspiravano all’unione di tutte le stirpi germaniche d’Europa. La fazione dei «Giovani Turchi» che s’ispirava al pangermanesimo sognava un futuro impero «da Edirne a Samarcanda», fondato sull’unione in un solo grande stato-nazione di tutte le genti turche a ovest e ad est del Caspio. Non bisogna dimenticare queste aspirazioni, perché nella società turca di oggi esse stanno risorgendo e fanno parte del complesso panorama nazional-religioso dei movimenti che appoggiano il presidente Erdogan.
Ma riprendiamo il nostro racconto. Nell’Ottocento, l’impero ottomano era «l’uomo ammalato» al cui capezzale si affollavano le potenze d’Europa: non tanto per guarirlo quanto per contendersene l’eredità facendo a brani il territorio da esso dominato e inglobandolo nei loro possessi coloniali. Ma i sultani avevano imparato a sfruttare le rivalità tra francesi e inglesi, tra francesi e tedeschi, tra russi e tedeschi, tra russi e inglesi. Il primo nemico dell’impero sultaniale era senza dubbio lo Czar di tutte le Russie, che ambiva al controllo degli Stretti tra Mediterraneo e Mar Nero, agognava la stessa Istanbul e si atteggiava a protettore di tutti i cristiani ortodossi sudditi dei sultani. Nel 1854 una coalizione franco-anglo-piemontese aveva combattuto in Crimea in difesa del sultano contro i russi; nel 1878, con il congresso di Berlino, il principe di Bismark aveva invece salvato l’impero ottomano in procinto di cedere alle truppe dello Czar. Da allora, il sultano si era sempre più appoggiato alla Germania facendone il suo partner privilegiato ai livelli non solo diplomatico, ma anche economico, finanziario, tecnologico, militare, culturale. Le élites ottomane andavano a studiare nelle città tedesche, l’esercito sultaniale si riformò secondo modelli germanici. La trionfale visita del Kaiser Guglielmo II ai territori dell’impero nel 1898, con teatrali ingressi a Istanbul, a Damasco e a Gerusalemme, rafforzò l’amicizia germanico-ottomana.
Ma l’amicizia del più potente sovrano d’Europa non bastò al sultano per proteggerlo dai giovani militari e intellettuali ch’erano del resto a loro volta dei sinceri ammiratori della giovane e fiera Germania imperiale. La rivolta militare di Salonicco capeggiata da un gruppo di giovani ufficiali tra i quali si distingueva il leader Enver Bey, nel luglio del 1908, aveva come scopo immediato il ristabilimento della costituzione del 1876 ch’era stata successivamente sospesa: ma rappresentava in realtà la generale sconfessione del governo di Abdül-Hamit, che nonostante avesse accettato il reintegro costituzionale fu deposto meno di un anno dopo. Il nuovo sultano Mehmet V dovette affrontare una serie di sollevazioni dall’Albania alla penisola arabica. L’impero subiva frattanto l’aggressione dell’Italia che, pur alleata dell’amica Germania, tra 1911 e 1912 gli strappò le ultime residue province nordafricane da esso ancora almeno formalmente controllate, Tripolitania e Cirenaica; gli italiani occuparono anche Rodi e il Dodecaneso e giunsero a forzare i Dardanelli. Mentre, il 12 ottobre del 1912, turchi e italiani accedevano alla faticosa pace di Losanna, l’ulteriore indebolimento dell’impero causato dalla guerra italo-turca dava i suoi frutti immediati. Il sultano avrebbe invero volentieri ceduto Tripolitania e Cirenaica all’Italia in cambio di un suo governo nella sostanza coloniale, ma che formalmente rispettasse la sovranità ottomana: tale accordo era già stato accettato dall’Inghilterra per l’Egitto e dalla Francia per Algeria e Tunisia. Ma il governo di Giolitti, che aveva scatenato la guerra per distogliere l’attenzione degli italiani da forti difficoltà interne, aveva bisogno di un’affermazione piena, non di una transazione che sarebbe parsa un ripiego se non una mezza sconfitta. Così la guerra continuò per approdare alla costituzione di una «Libia italiana».
Intanto, fino dal settembre del 1908 la Grecia si era alfine annessa CretaCzar di Bulgaria e l’Austria aveva definitivamente incorporato Bosnia ed Erzegovina nonostante le proteste turche. Si andava preparando, con l’accordo almeno provvisorio di Austria e Russia – e la riserva di un loro futuro scontro per l’egemonia – la definitiva deturchizzazione, anche formale, dell’intera penisola balcanica. Temendo un’eccessiva espansione austriaca, e con l’implicito appoggio russo, la Serbia, la Bulgaria, la Grecia e il Montenegro (regno indipendente dal 1910) dichiararono guerra alla Turchia nell’intento di determinare un deciso consolidamento della nuova situazione balcanica dai negoziati per l’organizzazione del quale l’impero austroungarico doveva essere escluso. Ciò dette adito alle due successive, complesse «guerre balcaniche» del 1912-13, dalle quali si uscì con la pace di Bucarest del 1913 che deluse tutti i contraenti ma dalla quale scaturì il riconoscimento dell’Albania come principato autonomo.
Dopo la «rivoluzione di Salonicco», l’impero ottomano era ormai preda delle fazioni. Nel luglio del 1912, dopo una serie di colpi di mano, un governo detto del «Grande Gabinetto», presieduto da Ahmet Muhtar Pasha, aveva sciolto l’assemblea nazionale e adottato una politica violentemente opposta ai membri del partito di «Unione e Progresso». Esso fu rovesciato nel gennaio del 1913, i piena crisi balcanica, da Enver Bey, che assunse direttamente il potere – insignito anche del titolo di pasha – a capo di una trojka rivoluzionaria. S’impose così un regime monopartitico, legittimato peraltro dalle elezioni del maggio 1914: ne fu anima «ideologica» un intellettuale di origine curda, Ziya Gökalp, che stabilì in tre punti fondamentali il suo programma nazionalista e sociale: 1. turchizzazione dei settori sociali, economici e politici del paese (nella prospettiva d’un futuro impero che comprendesse i turchi non solo dell’Anatolia, ma anche dell’Azerbaijan e dell’Asia centrale); 2. islamizzazione come segno identitario e rimedio morale ai guasti provocati dall’occidentalizzazione; ma, al tempo stesso, 3. decisa occidentalizzazione sotto il profilo non etico-culturale bensì politico, civico, tecnologico e militare (quella che egli definiva «contemporaneizzazione»). Il nazionalismo unitarista-progressista s’ispirava largamente al darwinismo sociale, concepiva la lotta tra le nazioni come conflitto tra «specie organiche» e avversava la morale democratica importata dall’Occidente liberale anzitutto in quanto morale individualistica, decisa sostenitrice di diritti ma negatrice di doveri. Scriveva Gökalp: «Non dire mai: ho diritto; il diritto non esiste; c’è solo il dovere… Il mio animo, il mio cuore non pensano, sentono. Seguono la voce che viene dalla nazione. Chiudo gli occhi, compio il mio dovere». Un’etica che sotto molti aspetti si potrebbe definire – non diversamente dalla visione socioantropologica che l’animava – «prenazista».
La crisi austro-serba del luglio 1914, ch’era in realtà una crisi austro-russa (nella quale ciascuna delle due contendenti contava sul suo sicuro alleato, rispettivamente la Germania e la Francia) coinvolse rapidamente nel conflitto – avviato il 28 luglio del ’14 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia – Germania, Russia, Francia, Belgio, Inghilterra e Giappone (che ambiva a occupare la concessione coloniale tedesca di Chaochow, chiave alla sua penetrazione in Cina settentrionale). Il 2 agosto, esattamente il giorno successivo a quello della dichiarazione tedesca di guerra alla Russia, l’impero ottomano stipulò un trattato con la Germania e dichiarò al tempo stesso la «neutralità armata»; ma il 20 ottobre successivo due navi da guerra tedesche formalmente passate alla flotta turca attaccarono le coste russe del Mar Nero. Di conseguenze, il 5 novembre, Russia, Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Turchia. Il mondo balcanico, in cui i nuovi stati cercavano ampliamenti territoriali l’uno a svantaggio dell’altro, si divise: l’Italia dichiarò guerra all’Austria in cambio della promessa franco-inglese di compensi territoriali dal Tirolo meridionale all’Istria e alla Dalmazia (nonché di assegnazione di alcuni distretti territoriali e di concessioni minerarie in Asia Minore una volta sconfitta la Turchia); la Bulgaria scese in guerra al fianco della Germania mirando a strappare la Macedonia alla Serbia e ponendo un’ipoteca sulla Dobrugia rumena; e la Romania a sua volta scelse le potenze dell’Intesa che le promisero sostanziose aree territoriali tolte all’Ungheria. In un trattato del 18 marzo del 1915, la Francia e l’Inghilterra assicurarono alla Russia il possesso, a guerra finita, di Istanbul e degli Stretti: ciò allarmò la Grecia che, dinanzi alle prospettive d’un’egemonia russa nel Mediterraneo del nord-est e di un eccessivo rafforzamento della Serbia alla sua frontiera settentrionale, preferì attenersi – nonostante i ricatti agli armeni quanto agli ortodossi e dell’Intesa, che giunse a bloccare i suoi porti impedendo l’arrivo di rifornimenti alla popolazione – a un regime di neutralità. Ma alla fine la pressione franco-inglese divenne talmente intollerabile da obbligare nel giugno del ’17 re Costantino all’esilio: il nuovo governo, guidato dal nazionalista Eleutherios Venizelos, entrò in guerra al fianco dell’intesa franco-anglo-italiana con l’obiettivo di annettersi Istanbul e le coste tracie e anatoliche (tanto più che l’insuccesso dell’attacco alleato ai Dardanelli tra aprile del ’15 e gennaio del ’16 e poi la crisi che stava travolgendo la Russia sconfitta dalla Germania faceva prevedere che l’impegno franco-inglese riguardante Istanbul e gli Stretti a vantaggio dello Czar sarebbe caduto).
Nei primi anni del Novecento, e soprattutto nel periodo 1908-1909, si erano già avuti episodi di xenofobia violenta, con linciaggi o con autentici massacri, in varie parti dell’impero: ne erano stati vittime cristiani ortodossi e armeni. Ma il trattato anglo-franco-russo del marzo 1915, e soprattutto in quanto lo czar si atteggiava a tutore di tutti i cristiani soggetti all’impero ottomano e quindi anche degli armeni – famosi peraltro anche per l’inveterata simpatia dei loro intellettuali nei confronti della Francia – irritò ulteriormente il governo del partito di «Unione e Progresso» inducendolo a scatenare quella «pulizia etnica» nella penisola anatolica che dagli alti comandi militari del sultano fu vista anche come una sorta di atto di difesa preventiva: si temeva – e, del resto, non senza ragione – che, in caso di penetrazione delle armate russe a sud del Caucaso, gli armeni avrebbero dato loro man forte. Una parte della popolazione turca era d’altronde ormai stata resa sensibile ai temi antiortodossi e antiarmeni, quindi in ultima analisi anticristiani, in una duplice, ambigua chiave demagogica: islamica per un verso, nazionalista per un altro. Fede religiosa e nuova coscienza nazionale turca sembravano unirsi nel rendere popolare l’odio anticristiano e antiarmeno, brodo di cultura nel quale i germi del genocidio avrebbero prosperato.
Il massacro si scatenò tra l’aprile del 1915 e il luglio del 1916, ma riprese vigore dopo la controffensiva ottomana su fronte russo del ’17 e continuò fino al ’23. Si è calcolato che il costo umano di quelle violenze fu di circa un milione e duecentomila morti massacrati durante gli eccidi o periti per fame o per stenti durante gli spostamenti coatti: praticamente i due terzi della totale popolazione armena, cui va aggiunto un altro milione di esuli (bisogna dire però che queste cifre sono insicure e che sono state più volte oggetto di contestazione; calcoli basati su parametri diversi hanno fornito differenti risultati).
Allo sterminio parteciparono anche milizie irregolari curde e gruppi di turchi criminali comuni ch’erano stati inquadrati in unità speciali per collaborare allo sterminio. I beni confiscati agli armeni, insieme con varie forme di speculazione su forniture di guerra e contratti pubblici, contribuirono alla formazione di una «borghesia nazionale» turca che sarebbe sopravvissuta al conflitto. Anche l’Armenia russa, vale a dire l’Armenia transcaucasica, fu attaccata dalle truppe sultaniali.
L’Europa reagì in modo incerto e contraddittorio alle notizie che provenivano dall’Anatolia. La Russia czarista era stata spazzata via dalle due rivoluzioni del 1917; l’opinione pubblica tedesca appariva disinformata o insensibile in merito, mentre molti erano gli ufficiali del Kaiser che collaboravano all’inquadramento dei militari turchi e si resero corresponsabili dei deportazioni e di lavori forzati vittime dei quali furono gli armeni (ma vanno ricordati casi come il sottotenente medico Armin Wagner, che documentò con le sue foto le atrocità commesse dai turchi); in Inghilterra e soprattutto in Francia qualcosa si mosse, per quanto in quei casi si trattasse soprattutto di strumentalizzazione a fini utilitaristici del tema della crudeltà dei turchi. Vero è che lo speciale legame fra armeni e francesi si rinsaldò, e molti esuli armeni corsero a combattere inquadrati nell’esercito francese per vendicare e per difendere i loro compatrioti. Anche negli Stati Uniti, dove esisteva un consistente gruppo di emigrati armeni, l’opinione pubblica reagì con una certa energia. Quanto alla Santa Sede, Benedetto XV venne tempestivamente anche se non perfettamente informato della situazione e intervenne ripetutamente – pur con la cautela necessaria a salvaguardare la stretta neutralità vaticana rispetto al conflitto – presso il sultano Maometto V.
Va ricordato che gli armeni non furono le uniche vittime della violenza nazionale-religiosa scatenata dal governo turco: ne fecero le spese anche le popolazioni cristiane arabo-aramaiche (cristiani «caldei» e «assiri» dell’attuale Iraq) e gli yezidi. Si calcola ad esempio che dalla metà ai tre quarti della popolazione «assira» (cristiana nestoriana), pari a circa 500-700.000 persone, sia stata allora sterminata.
Dopo la guerra, mentre attendeva alla ricostruzione e fronteggiava un nuovo conflitto contro greci e alleati, il governo turco di Mustafà Kemal – che non aveva ancora proclamato la repubblica – celebrò nel 1919 a Istanbul, come ricordato all’inizio, un processo contro i responsabili del genocidio degli armeni membri del precedente governo, che peraltro erano tutti fuggiti, condannandoli a morte in contumacia. Ma si trattò di una decisione oggetto di successivi ripensamenti e comunque mai applicata. Dal canto loro, gli armeni organizzarono una specie di organizzazione terroristica, afferente alla cosiddetta «Operazione Nemesi», allo scopo di colpire i responsabili dell’eccidio che si trovavano in varie parti del mondo, esuli ma incolumi e impuniti. Tra 1919 e 1920 l’Armenia subì però un nuovo attacco da parte delle forze del rinnovato stato turco, che ebbero facilmente la meglio (un trattato di pace fu siglato nel novembre di quell’anno). Altri episodi si andarono trascinando fino al ’23 e anche posteriormente rispetto a tale data.
La realtà del genocidio armeno è stata oggetto di accaniti dibattiti dalla fine della prima guerra mondiale ad oggi e, fino a tempi recentissimi, il governo turco ne ha sempre negato la sostanza pur ammettendo che alcuni episodi di violenza fossero effettivamente accaduti. Nel 2015, che il genocidio sia stato tale è stato ammesso dai parlamenti di 21 stati: ma le polemiche sono ancora in corso. Particolare interesse merita la posizione ufficiale d’Israele, che è sempre stata al riguardo molto guardinga, sia in quanto i buoni rapporti con la Turchia sono stati storicamente un asse portante della sua diplomazia, sia perché da parte israeliana ed ebraica è vivo un certo timore che una valutazione forte degli eventi armeni finisca col coincidere con possibili tentativi di sminuire o di ridimensionare la gravità della Shoah.
È d’altronde un fatto che il genocidio armeno era in pratica universalmente noto, nei suoi tratti di fondo se non nei particolari, dopo la prima guerra mondiale. Hitler citava i due casi degli armeni e dei pellerossa d’America per convincere i suoi collaboratori più riluttanti che una politica di sterminio, una volta portata a termine, finisce sempre con l’essere dimenticata dall’opinione pubblica mondiale. Il che peraltro nella stragrande maggioranza dei casi che conosciamo è del tutto vero.
La realtà è stata comunque diversa da come la concepiva il Führer proprio per il caso della Shoah. Ciò non toglie che, in materia di genocidi dimenticati, sia purtroppo vero che la nostra memoria è straordinariamente corta e la nostra visuale vergognosamente limitata. Lasciamo andare le deportazioni e gli eccidi di massa, di cui nelle sue iscrizioni andava tanto fiero il sovrano assiro Assurbanipal: nemmeno il grande Cesare ci fa una bella figura (ben se ne accorsero i galli), ma gli stessi cristianissimi imperatori di Bisanzio ci andavano giù pesanti: come Basilio II detto Bulgaroktonos, «il bulgaricida», noto ai primi dell’XI secolo per accecare in massa i barbari suoi prigionieri e lasciar un occhio solo a uno su mille di essi affinché riconducesse a casa i suoi compagni di sventura. È stata studiata piuttosto bene la pratica genocida di Genghiz Khan: ma anche a proposito della «crociata degli Albigesi» che spopolò la Provenza nella prima metà del Duecento, c’è da dire che la Cristianità occidentale non scherzò. E il triste elenco potrebbe continuare a lungo: basti pensare alle grandi civiltà mesoamericane del Cinquecento e ai Conquistadores, ma anche allo spopolamento del continente oceanico causato da inglesi, portoghesi e olandesi, e ai misfatti di Cromwell prima e della corona britannica poi in Scozia.
Vecchie storie, si potrebbe obiettare. Il fatto è che il Novecento è stato forse il secolo peggiore: a parte la Shoah, purtroppo ben nota, si pensi al Pakistan e al Bengala nel 1971, alla Cina maoista, alla Cambogia di Pol Pot, allo sterminio dell’etnia tutsi in Ruanda nel 1994, all’uccisione di oltre 2 milioni di persone in Darfur nel 2003, al conflitto congolese tra 1996 e 2002. Molti di questi massacri sono recenti, sono avvenuti si può dire sotto i nostri occhi, al tempo dell’iperinformazione e del «dovere della memoria»: e noi non ce ne siamo quasi accorti o li abbiamo subito dimenticati. Spesso, dal momento che il significato del termine «genocidio» fu stabilito come già si è detto dalle Nazioni Unite nel 1948, si è cercato di giocare sulle parole per distinguere rispetto ad esso, minimizzandone il significato, eccidi, stragi e massacri che sembravano non possedere i requisiti giuridici per venir denominati tali. Un altro trucco adottato è consistito nell’aver cercato di dimostrare che la responsabilità dei genocidi appartiene sempre e comunque a regimi autoritari, o totalitari, o tirannici. Ma purtroppo non funziona.
Esiste un prototipo preciso del genocidio moderno, con tutte le caratteristiche richieste dalla definizione del 1948: intenzionalità, sistematicità, coordinamento fra strage, deportazione, limitazione coatta delle nascite e via dicendo. Si tratta dello sterminio dei native Americans, dei pellerossa, da parte del governo statunitense in seguito all’infausto Indian Removal Act del 1830, che ne prescriveva la deportazione di massa dal sud-est verso l’ovest in un episodio tremendo, poi restato nella memoria indiana come «il Sentiero delle lacrime». Purtroppo, l’ideatore della manovra che avrebbe dovuto assicurare alla giovane nazione americana Wasp (White, Anglo-Saxon, Protestant) lo «spazio vitale» di cui essa riteneva di aver bisogno era stato uno dei politici e pensatori considerato tra i padri storici degli Stati Uniti e della democrazia moderna: Thomas Jefferson.