Vita Chiesa

Aree interne: mons. Crociata (Latina), “l’attenzione alla tradizione non si dirige alla conservazione di un residuo del passato” ma mira a “una accresciuta vitalità ecclesiale”

“Anche queste caratteristiche – ha precisato il presule – non vanno esagerate quanto alla loro consistenza, tuttavia la forza della tradizione è ciò che si fa soprattutto notare in esse, se le si mette a confronto con le dinamiche della grande città, per non parlare della metropoli. Se questo dato corrisponde alla realtà, bisogna interrogarsi sull’approccio da riservare all’iniziativa pastorale in quel tipo di territori”. Per mons. Crociata, “il senso di una tale attenzione non si dirige alla conservazione, o addirittura imbalsamazione, di un residuo del passato, a mo’ di operazione nostalgica. Il senso è invece quello di partire dalla situazione data per farla crescere verso una accresciuta vitalità ecclesiale”.

Cercare di rispondere alla domanda “su come fare Chiesa nella nuova situazione – ha osservato il vescovo – suggerisce di procedere ad una riflessione da svolgere su tre livelli: un primo che, in termini di visione d’insieme, cerca di comporre tradizione e innovazione”, toccando “la questione dell’evangelizzazione”; un secondo, che “tocca l’organizzazione interna della dinamica ecclesiale e delle collaborazioni”, interessando “soprattutto l’ambito ministeriale”; un terzo, che “apra alle istanze delle condizioni sociali e materiali di vita proprie di quei territori più fragili”.

“La questione più delicata e complessa riguarda l’intreccio fra tradizione e innovazione”, ha affermato ancora mons. Mariano Crociata. “Con tradizione ci riferiamo alle espressioni e alle manifestazioni della pietà popolare, ma anche a tutto quel sistema di pratiche religiose sacramentali e devozionali che formano il tessuto ordinario della vita di una comunità ecclesiale – ha spiegato il presule -. In molti casi è diventato un problema assicurare quelli che da molti vengono vissuti come servizi religiosi di cui usufruire o da consumare senza pervenire ad una consapevolezza nuova o a una presa di responsabilità nei confronti della comunità ecclesiale, al più concedendo qualche forma di collaborazione per singole attività o in determinate circostanze straordinarie.

Riuscire a tenere in piedi simili attività è spesso, già di per sé, una sfida o, quanto meno, un impegno gravoso”. Ciò da cui guardarsi, ha avvertito il vescovo, “è sottovalutare certe pratiche o forme di pietà, o addirittura pensare che disfarsene sia indifferente. In realtà esse costituiscono come l’acqua di coltura di un residuo indistruttibile legame con le radici di fede dell’esperienza religiosa e cristiana. Il problema sta nell’innervare attività e pratiche religiose e di pietà di stimoli che abbiano per contenuto il Vangelo e coltivino la coscienza di fede in rapporto alla condizione di vita, alla storia personale e comune, alle responsabilità di fronte alla collettività”. Infatti, “abbiamo imparato che incontri formali e riunioni formative non hanno più capacità di richiamo e di coinvolgimento. Bisognerebbe trovare modalità informali, spesso personali o familiari o di piccoli gruppi, per riportare l’attenzione sull’interesse di fondo dell’esistenza in rapporto alla fede”. Proprio per questo, “se un ministro ordinato deve spendere tutte le sue energie per l’organizzazione di una festa, difficilmente troverà risorse fisiche e spirituali”, oltre che di tempo, per “dedicarsi alla preghiera e al servizio della Parola”. C’è bisogno di “cominciare da un nuovo assetto distributivo degli impegni, delle responsabilità, delle collaborazioni, sempre vigilando”, perché “cultualizzazione del clero e burocratizzazione dei laici con un incarico ecclesiale sono i pericoli incombenti”.

“Ci vuole la capacità di unire la dimensione della festa e quella della preghiera e dell’ascolto, nel caso specifico della pietà popolare, ma anche di altri momenti religiosi di raduno. È più semplice ripiegare solamente sull’uno o sull’altro aspetto, ma con l’effetto di non colpire il bersaglio che la pratica religiosa o la pietà popolare è chiamata a raggiungere, e cioè sperimentare un momento di reale e intensa condivisione del senso della vita interpretato da una manifestazione religiosa e nello stesso pervenire alla percezione di un annuncio più alto e profondo insieme, capace di raggiungere quel senso in maniera più precisa e acuta, come solo il Vangelo sa fare”. Lo ha evidenziato, oggi pomeriggio, mons. Crociata. Da questo punto di vista, ha aggiunto, “una delle eredità più pesanti che ci portiamo addosso riguarda il sovraccarico dell’aspetto dottrinale e lo spazio che esso assume rispetto ad altre dimensioni dell’esperienza religiosa e della predicazione ecclesiastica. Si tratta di una eredità che si manifesta nella riduzione verbalistica dell’annuncio e dell’evangelizzazione. Sappiamo fare quasi solo discorsi e prediche, quando ci riesce. In realtà la fede è cosa della mente e del cuore insieme, e i sentimenti non sono marginali o irrilevanti nell’abbracciare la fede e nel fare qualsiasi scelta di vita. La fede nasce dall’esperienza di una affezione verso qualcosa, o meglio qualcuno, che si presenta con una promessa di compimento e con i tratti di una incondizionata affidabilità”.

Di qui la sollecitazione a “ricuperare, in questo senso, due dimensioni essenziali non solo nell’ambito ecclesiale: la narrazione, cioè racconti di vita cristiana, e il dialogo. Si evangelizza di più e meglio così, che attraverso tante prediche e discorsi. Questo il Papa ce lo ricorda e insegna in tanti modi”.“Nel costruire una pastorale improntata a uno stile relazionale, di incontro e di accoglienza, non si può trascurare un aspetto che pure caratterizza questo genere specifico di ambienti. Bisogna fare i conti non solo con i pregi, ma anche con i limiti delle aree interne; vivere nei piccoli paesi e nei tanto decantati borghi non è un idillio”, ha ammesso mons. Crociata.

“Come in tutti i piccoli ambienti, è facile scontrarsi con la grettezza di mentalità, con la chiusura e la diffidenza delle persone, con l’attaccamento alle consuetudini e la resistenza al cambiamento. Su questi aspetti la fede è chiamata a mostrare di essere capace di introdurre un soffio di novità e di trasformare (convertire) le persone e la loro vita. L’accompagnamento a scomparire, o anche solo il mantenimento dell’esistente, non può mai essere il proprio dell’azione pastorale della Chiesa; essa deve generare piuttosto nuovi fermenti e nuovi inizi di vita credente e di speranza”.

Da mons. Crociata è venuto anche un invito a “riprendere in mano la questione ministeriale in senso lato”.

“Vanno certo dismessi condizionamenti di tipo rivendicazionistico da parte non solo di laici, che rivelano povertà umana, culturale e spirituale”, ha chiarito il presule, evidenziando la necessità di “una revisione graduale ma effettiva dei rapporti tra presbiteri, diaconi permanenti e laici, che vada nel senso di una effettiva partecipazione, collaborazione, condivisione. È in qualche modo ciò che sta perseguendo o comunque intende anche perseguire il Cammino sinodale della Chiesa in Italia”. Si tratta di capire, innanzitutto, “che cosa significa esercitare il ministero ordinato lavorando in équipe”.

Secondo il vescovo, “piccole comunità sparse in un territorio spesso molto vasto o impervio hanno bisogno di maturare ed esprimere una propria soggettività, e di non stare in attesa che giunga un prete trafelato a celebrare in fretta e furia qualche sacramento per poi scappare per un’altra destinazione. Una soggettività maggiore significa spazio ordinario per la preghiera e l’ascolto, e capacità di attendere e preparare un momento assembleare liturgico con la presidenza del presbitero vissuto con la dovuta appropriatezza, serenità e viva partecipazione. A questo scopo è necessario che qualche laico della comunità venga preparato a tale scopo e che l’organizzazione del rapporto tra parrocchie diverse consenta, anche a distanza temporale più lunga del ritmo settimanale, di vivere adeguatamente una esperienza di assemblea celebrante. In taluni casi un lavoro di raccordo, in qualche ambito specifico, può essere svolto da un diacono permanente”.

Nelle unità pastorali, ha osservato mons. Crociata, “ciò che dovrebbe essere assicurato è una circolarità tale della presenza presbiterale da garantire un minimo di vita ecclesiale di qualità, grazie alla continuità di una rete di relazioni capace di tenere viva ogni parte della grande comunità di parrocchie. In questo un ruolo importante sono destinati a svolgere gli organismi di partecipazione”. Insomma, “solo il coinvolgimento di tanti, in uno sforzo di effettiva partecipazione e, diciamo pure, corresponsabilità, nella logica dello schema uno-alcuni-tutti, potrà continuare a rendere vivo un territorio toccato dallo spopolamento e dall’invecchiamento”.

Ma, ha ammesso, “la formazione dei preti, anche di quelli che si stanno preparando in questi anni, non sempre va nella direzione della crescita della collaborazione e della corresponsabilità. Si comincia a parlare di leadership, ma la si intende nel senso di una guida, certo autorevole, sicura, competente, ma spesso anche autoreferenziale se non autoritaria”. Servono preti (e anche vescovi) che “sappiano farsi collaborare, sappiano far lavorare, capaci di dare spazio e fiducia, mantenendo un coordinamento di largo respiro, e non con il respiro corto di chi difende con ansia, se non con le unghie e con i denti, il proprio spazio, preoccupato di invasioni di campo o di lesa maestà”. E “la musica non cambia quando si tratta di mettere a collaborare presbiteri, anzi per certi versi si complica e da andante diventa mosso”.

“Uno dei temi da esplorare – anche perché con il tempo è destinato a diventare drammatico – è quello della gestione di chiese non più utilizzate o scarsamente usate per il ministero. Bisognerà arrivare a forme di collaborazione da parte di persone competenti e responsabili, perché beni ecclesiastici non si perdano ma nemmeno diventino un peso schiacciante per un parroco che deve provvedere a tutto”. Lo ha sostenuto il vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno aggiungendo che “A questo proposito una osservazione da tenere presente riguarda il peso degli edifici religiosi nella programmazione e nell’azione pastorale. Un principio elementare è che il ministero dei preti sia servizio delle persone e delle comunità, e non di guardiani delle chiese da tenere aperte a tutti i costi. Non si decidono gli orari e il numero delle celebrazioni, per esempio, solo per garantire la valorizzazione di una o più chiese. Ridursi a custodi di un patrimonio immobiliare, per quanto di grande valore storico, artistico, religioso e culturale, sarebbe la più triste delle fini del nostro ministero”, ha osservato il presule.

Mons. Crociata ha poi parlato di “itineranza”, che è “altra cosa dal nomadismo esclusivamente legato al culto; essa deve prendere un altro senso e, soprattutto, richiede un altro approccio e diciamo pure un’altra formazione. Itineranza dovrebbe voler dire, nel senso evangelico o anche paolino, non essere definiti dalla titolarità di una sede, di una chiesa (con le derive impiegatizie che ahimè abbiamo conosciuto!), ma essere al servizio di una comunità dispersa in un territorio e bisognosa di accompagnamento nel suo pellegrinaggio esistenziale credente. Cogliamo subito il sapore antico, originario, di una tale prospettiva. Non è l’organizzazione territoriale il criterio decisivo, per quanto il rapporto con il territorio non possa essere mai trascurato, ma la presenza nella vita dei credenti che si raccolgono in piccoli gruppi o che, talvolta, possono e devono essere convocati in un’unica grande assemblea”.

Una terza pista di lavoro individuata da mons. Mariano Crociata, sta “nel compito di testimonianza pubblica e di animazione sociale che la comunità cristiana ha sempre il compito di rendere, innanzitutto per essere se stessa e rispondere alla sua chiamata e alla sua missione, ma poi perché ha a cuore la comunità umana in mezzo alla quale rende la sua testimonianza e svolge la sua missione. Su questo punto si sconta un limite che non è meno grave e insidioso della stessa progressiva riduzione numerica di fedeli e di preti, e cioè lo scollamento tra fede e vita, con la conseguenza di una irrilevanza pubblica della presenza cristiana. Questa sembra caratterizzarsi solo per l’esercizio del culto, ma il più delle volte non per la qualità della coerenza personale e di gruppo nella vita sociale, nel lavoro, nel dibattito della cittadinanza, in linea peraltro con un diffuso senso di indifferenza per la cosa pubblica e di noncuranza per il bene comune”.

Proprio “la situazione di disagio che subiscono le aree interne può diventare occasione di presa di coscienza della propria indivisibile responsabilità ecclesiale e civile. In questo senso, l’animazione che laici possono condividere con i ministri ordinati deve abbracciare le questioni poste dal territorio e le esigenze della gente che vi è insediata con tutti i disagi e le difficoltà che ciò comporta. Non è troppo ardito affermare che la presenza cattolica si risveglierà a una più viva e numerosa partecipazione quando avrà maturato anche la coscienza della propria responsabilità non solo ecclesiale, ma anche sociale e civile”. Del resto “l’irrilevanza morale e pubblica è solo lo specchio in cui si riflette l’insignificanza religiosa e culturale, e quindi anche spirituale ed ecclesiale. Queste cose stanno o cadono insieme. Per questo bisogna interrogarci sulle severe esigenze del nostro essere Chiesa. Altrimenti risulta fatuo e futile ragionare di presenza dei cattolici in politica; se non ci sono cattolici maturi e seri, non possono esserci nemmeno cattolici in politica”.

“La Chiesa – ha osservato – non è estranea o indifferente di fronte ai problemi del lavoro, della salute, della solitudine, della carenza di mezzi essenziali alla sussistenza, e altro ancora. Contrastare una mentalità di attesa passiva di qualcuno o di qualcosa che arrivi da fuori, far sorgere volontà di iniziativa e di collaborazione: questo è un compito che una comunità ecclesiale si deve comunque dare. Soprattutto di fronte a temi che sono in modo peculiare connessi a quei territori: pensiamo ai flussi migratori non solo in uscita, ma anche degli immigrati che spesso penetrano perfino in angoli remoti del Paese, o anche alla cura dei beni comuni come l’acqua e l’aria, o ancora più in generale la terra e la sua coltivazione, e in generale dell’ambiente sempre più minacciato anche nei territori più remoti”.

Mons. Crociata ha concluso: “Le aree interne formano la parte debole del Paese. Noi crediamo però che la coscienza della debolezza e la ferma volontà di reagire, soprattutto se assunte in una luce di fede, sono in grado di produrre effetti anche superiori alle potenzialità effettive. Se a questo si aggiunge la persistenza di un patrimonio ancora non del tutto dilapidato, dal punto di vista morale e religioso, allora le possibilità di riscatto, ecclesiale e civile, aumentano a dismisura. Si tratta di ricomporre le identità sociali e di ritessere il filo della coesione sociale, di rifondare il legame sociale, in un contesto – purtroppo – di generale contrattualizzazione delle relazioni sociali”.