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Arafat: il successo dell’uomo di lotta, la sconfitta dell’uomo di pace

di Romanello CantiniAveva cominciato la sua attività di guerrigliero quarant’anni fa mettendo una bomba, peraltro inesplosa, ad una pompa d’acqua in Cisgiordania. Se ne va dopo quattro anni di inferno che hanno fatto mille morti fra gli israeliani e tremila fra i palestinesi. In questo scarto fra l’inizio e la fine sta il successo di Arafat come uomo di lotta e la sua sconfitta come uomo di pace.

Come tutti gli uomini che escono di scena ancora come partigiani di una causa anche giusta, Arafat suscita adorazione e odio opposti tra chi è ancora impegnato nella lotta e trattamenti nevrastenici fra il bandito e l’uomo dell’Onu, fra gli attentati in Israele e il prato della Casa Bianca, fra le strisce di sangue delle stragi in Medio Oriente e i tappeti rossi delle capitali straniere.

Perfino alla fine si è ammalato come un recluso a Ramallah, ma è stato ricoverato con la maestà del sultano a Parigi con il pianto isterico della sua gente e perfino con gli intrighi al capezzale per l’eredità, i falsi certificati medici per prendere tempo nella successione, il mistero della sua malattia come in tutte le morti che hanno chiuso un’era da Franco, a Tito, a Deng Xiao Ping.

Arafat ha approvato, tollerato, condannato il terrorismo con una ambiguità mai definitivamente risolta. Ha perso molte battaglie, ma anche molte occasioni a cominciare dalla più generosa offertagli cinque anni fa dal premier israeliano Barak per fare la pace. Ma anche dopo aver virato, seppure con ritardo e con reticenze in direzione del riconoscimento dello Stato d’Israele, ha aggiunto negli ultimi trent’anni la soluzione politica a quella militare. Ma soprattutto ha fatto di quel popolo palestinese che quarant’anni fa Breznev descriveva a Nasser come «folklore arabo» una entità riconosciuta nel mondo intero e la causa posta al vertice delle emergenze mondiali.

Nella sua mancata decisione di combattere con più determinazione l’estremismo, Arafat ha dato sempre la precedenza al mantenimento del consenso fra la sua gente. Ha voluto più bene al suo popolo che il bene del suo popolo. Per mantenere la sua unità ha rinviato anche le possibilità di pace. Per rimanere il suo capo indiscusso ha evitato di avere soprattutto fra i palestinesi nemici e oppositori.

Il suo è stato un potere in buona parte personale e autoritario. È facile insistere su questo tallone di Achille che l’assedio israeliano degli ultimi anni ha favorito riducendo possibilità di elezioni e tregua per il dibattito politico. Ma in un mondo arabo, in cui soprattutto oggi le emozioni contano quanto i fatti, le istituzioni politiche e le condizioni sociali, il carisma di Arafat era una possibilità in più per condurre al momento giusto una galassia palestinese mai così esasperata e divisa verso l’accordo con l’eterno nemico.

Ora che la sua uscita di scena sembra andare incontro alle pretese israeliane che da tre anni chiedevano un nuovo interlocutore, ci si accorge infatti che gli estremisti di Hamas e della Jihad islamica rivendicano la partecipazione al potere.

Forse anche dall’altra parte si è persa una occasione mentre si cercava. Purtroppo la pace si fa con i nemici e non con gli amici e i compromessi, come dice lo scrittore israeliano Amos Oz, non sono mai felici. Sono solo necessari.

La difficile successione ad Arafat