Cultura & Società

Apuane, una montagna di fole e leggende

di Marco LapiChissà quanti vecchi cavatori delle Apuane o quante nonne garfagnine e versiliesi, dando loro un po’ di confidenza, narrerebbero ancora volentieri storie di linchetti o buffardelli. Come hanno fatto con Paolo Fantozzi, insegnante nelle superiori e nostro collaboratore a Lucca, che da anni chiede agli abitanti dei monti del marmo e delle altre montagne lucchesi di raccontargli le «fole» che conoscono. Ne sono nati alcuni libri, primo fra tutti, nel 1994, «Paure e spaure. Le leggende della provincia di Lucca».

Recentemente, la casa editrice «Le Lettere» ha ristampato i suoi due cavalli di battaglia, «Le leggende delle Alpi Apuane» e «Storie e leggende della montagna lucchese» (dedicato al versante appenninico), mentre in autunno vedrà la luce la sua ultima fatica riguardante la Lucchesia collinare, più caratterizzata da racconti di carattere storico.

Storie, fole o leggende che dir si voglia non sono però da intendersi come narrazioni fini a se stesse. Attraverso di loro si tramandava di generazione in generazione tutto un mondo di esperienze, conoscenze e valori. «Avevano – sottolinea Paolo, parlandone con noi – una chiara funzione educativa e tenevano banco la sera durante le veglie, incantando anzitutto i bambini che poi, una volta andati a letto, lasciavano liberi gli adulti di raccontarsi tra loro storie di paura».

L’area apuana e lucchese è sicuramente quella che vanta la più ampia gamma di leggende caratteristiche rispetto al resto della Toscana. Un po’ per la natura del territorio, qui impervio ben più che altrove e ricco di profili anche bizzarri e capaci di evocare figure fantastiche, un po’ per la sua caratteristica di area di confine, aperta a influenze settentrionali come quelle apportate dai «folai» lombardi, uomini che scendevano dall’Appennino per lavorare a giornata e che alla sera incantavano con i loro racconti intere famiglie riunite a veglia presso un casolare. Ma c’è anche un altro, più atavico aspetto da non dimenticare: l’origine celtica dei Liguri Apuani, progenitori dei popoli di questi monti. È per questo, probabilmente, che qui si trovano storie frequenti nell’arco alpino ma sconosciute nell’area peninsulare, come quelle di Cigno e Cupavo, dell’Uomo selvatico o della Caccia selvaggia, vicende di tesori nascosti o figure come, appunto, i linchetti e i buffardelli o baffardelli, folletti ignoti in altre aree della nostra regione.

Non meno importante è il filone religioso, presente con le figure di santi leggendari ma veneratissimi dalla popolazione locale (Viano e Doroteo nel versante apuano, Pellegrino su quello appenninico) o anche storicamente documentati (Guglielmo di Malavalle), nonché con la Madonna, Gesù o l’intera Sacra Famiglia, come nel caso del bel racconto che fa dell’Alta Versilia la meta della fuga da Erode spiegando così l’origine del Monte Forato e dei burroni del Procinto. Ancor più frequenti le leggende dove – come in Maremma – protagonista è il diavolo che però, grazie a Dio, non l’ha mai vinta.

Non mancano neppure struggenti storie d’amore, mai a lieto fine, nate per spiegare l’origine di monti come il Cusna, il Femminamorta e le Cime di Romecchio sull’Appennino o, nelle Apuane, il Sagro e la Brugiana, il Grondìlice, il Pisanino, il Croce e soprattutto l’impressionante profilo dell’Uomo Morto, tra la Pania della Croce e la Pania Secca. Secondo la leggenda più nota, il curioso rilievo altro non sarebbe che il profilo di un giovane pastore sacrificatosi per una pastorella di cui era innamorato: se volete saperne di più, non c’è che da acquistare il libro sulle leggende apuane.La valenza del recupero di tutto questo patrimonio non è certo solo per un’operazione di salvaguardia etnografica o antropologica. Ancora oggi, e ben lo sa Paolo nella sua veste d’insegnante, il potenziale educativo delle leggende appare notevole, così come l’interesse che sono ancora capaci di suscitare nei ragazzi. Riappropriarsene vuol dire riscoprire un’intera cultura, fatta della vita, del lavoro e delle cose di un tempo, e anche – sottolinea l’autore – «il grande valore della fantasia, attingendo alle proprie radici senza bisogno di ricorrere a Tolkien o Harry Potter». Quale fosse l’importanza che per un ragazzo apuano poteva avere la fola narrata dalla nonna ben lo racconta il brano a fianco di Vincenzo Giannarelli, versiliese di Basati e, a sua volta, appassionato raccoglitore di leggende. Ai tempi in cui era ragazzo, il romanzo già si andava sostituendo – almeno per gli adulti – alla storia tramandata oralmente, ma la fantasia restava comunque libera di galoppare verso i mondi e i volti evocati dalla voce di chi sapeva leggere. Qualche decennio dopo, ad addormentarla del tutto ci avrebbe pensato la televisione. La testimonianza: Quelle sere nel metatoDopo la coglitura, che si effettuava verso la fine d’ottobre, c’era una stasi nella routine lavorativa del contadino-montanaro, utilizzata per allestire il metato. Era, questo, un fabbricato composto da due locali sovrapposti, senza pavimento intermedio e divisi soltanto da un graticcio mobile che veniva appoggiato sulla trave centrale fissa. Una volta sistemato, dall’unica finestrella posta sopra la porta d’ingresso vi venivano cautamente distese sopra le castagne da seccare. A terreno, nel mezzo della stanza, veniva acceso il fuoco che doveva ardere ininterrottamente giorno e notte. Torno torno, a ridosso delle pareti, venivano installate le panche per accogliere i vicini i quali, per consuetudine, vi si riunivano per trascorrere le serate insieme. Queste riunioni avevano anche lo scopo di sorvegliare il regolare andamento dell’operazione seccatura, dato che le loro castagne erano state messe insieme alle nostre. Si doveva entrare senza toccare la porta che era tenuta semi-aperta, in quanto doveva lasciar passare un flusso d’aria costante per mantenere il fumo unito a tela ad una certa altezza, in modo da non essere costretti a respirarlo o a trovarcelo davanti agli occhi.

Era l’epoca in cui in calce alla quarta pagina dei giornali della sera apparivano, diluiti in tante puntate, romanzi d’amore e di morte: «Il padrone delle ferriere», «Le due orfanelle», «I miserabili». Mio padre, uno dei pochi del paese che sapesse leggere correntemente – da giovane aveva frequentato le Scuole Tecniche che, a quei tempi, era come dire oggi l’Università – teneva banco. Tutti pendevano dalle sue labbra dalle quali uscivano, di volta in volta, descrizioni poetiche di incontri romantici, epici racconti di duelli quasi sempre mortali per i protagonisti, o le sferzanti parole che bollavano assurde angherie perpetrate da nobili e padroni ai danni di onesti popolani. Si può senz’altro dire che la gente, in quel periodo, non vivesse che per ritrovarsi ad ascoltare un’altra puntata di quelle vicende. Non era raro il caso che sulle panche non ci fosse più posto; allora, noi ragazzi, o ci portavamo da casa le seggioline, oppure dovevamo sederci sulle ginocchia delle mamme o delle nonne e lì aspettare, smaniando, che ci prendesse sonno.

Mio padre, intanto, alla luce di una lucernina, recitando più che leggendo, dava vita ai vari personaggi del romanzo. A volte, in presenza di fatti o frasi per me incomprensibili, si interrompeva all’improvviso e a chi chiedeva il motivo di quella pausa fatta sul più bello invariabilmente rispondeva che «c’erino i tietti bassi». Io ero troppo piccolo per capire la metafora e non riuscivo a comprendere il perché, nel bel mezzo di Parigi o dentro una ferriera, avessero costruito dei tetti bassi e come tali tetti potessero impedire, da tanto lontano, la prosecuzione della lettura. Immancabilmente, a quel punto, tutti i presenti, i quali fino ad allora non ci avevano degnato di uno sguardo, si preoccupavano all’unisono del nostro sonno e così, seduta stante, venivamo portati a letto a furor di popolo.

Una sera nella quale avevo meno sonno del solito, ad una ennesima interruzione seguita dal solito discorso sui tetti bassi, dissi: «Vôaltri volete che si vadi a letto perchè ‘un volete che si scôlti quel che succede doppo! Dite sempre che c’èno i tietti bassi, ma anco quegli de la casetta de’ cuniglieri e de la capanna de le legne èn bassi, eppure ci si pôle ragionà lo stesso».Una risata generale, tra il divertito e il sorpreso, accolse questa mia battuta ed io me ne andai a nanna, fiero di averli messi in difficoltà. Però non era tutta farina del mio sacco: in realtà avevo sentito una conversazione fra la Mimì e la Lucia, nella quale la prima raccontava il seguito dei fatti, appreso la sera prima, dopo la nostra uscita forzata. Durante il pomeriggio, invece, il metato era il ritrovo dei ragazzi, dove le nonne narravano ai nipoti le storie e le leggende delle Apuane. Era lì che la Bèna ci snocciolava una fòla dietro l’altra ed i suoi personaggi, tanto mirabilmente cesellati, s’imprimevano indelebilmente nella nostra memoria, complice il guizzante bagliore delle fiamme.Per quasi un mese questo luogo era, per tutti, un caldo e confortevole rifugio, specie nei giorni in cui pioveva o faceva troppo freddo per giocare o lavorare. L’ultima sera, poi, era di prammatica la smondinata: vi si cuocevano le bruciate – dette, appunto, mondine – che venivano mangiate appena tolte dal fuoco, con una bella spruzzata sopra di striscino, vino frizzante nostrale di seconda passata, chiamato anche picciôlo.

Purtroppo, circa venticinque/trenta giorni dopo, anche questo piccolo mondo si estingueva: infatti, poiché le castagne erano già secche, il fuoco veniva spento, il graticcio allargato e le secchine, precipitando dall’alto, riempivano… la sala delle riunioni, mettendo fine alle serate. Poi, a poco a poco, mezzo sacco per volta, venivano pestate sul ciocco, per levare loro la pula, e portate al mulino.

Non appena il primo bolgio di farina arrivava a casa, veniva ufficialmente inaugurata la nuova stagione con la polenta di ciaccio e questo avvenimento – quasi un rituale – dava l’addio all’autunno e preannunciava l’inizio del gelido inverno.

Il nonno Pasqualone, la mattina dopo, chiudeva a chiave il metato nel quale, come per magia, avrebbero continuato ad aleggiare quei personaggi che le voci di mio padre e della nonna Bèna avevano evocati; ma non sarebbero stati soli: assieme a loro, ci sarebbe senz’altro rimasto il ricordo di quelle violente emozioni che l’attento uditorio aveva vissuto, nella semi-oscurità appena rischiarata dalla debole e vacillante fiammella di una lucernina ad olio.Vincenzo Giannarelli Una storia vera che sa di fantastico: Robè e la luna di PiastrolaPer il vecchio Robè lo spettacolo del sole che al mattino sorgeva all’interno dell’arco naturale del Monte Forato non era certo un mistero. Dalla sua casa di Piastrola, sopra il paese di Pruno, aveva potuto ammirarlo più volte, in certi giorni di maggio e luglio. Quella cima così particolare con il gran foro nel mezzo gli stava proprio davanti, al centro di una meravigliosa corona di monti culminante, verso nord, con la Pania della Croce. Dopo una vita di lavoro, ora si godeva volentieri quelle albe così particolari ma anche altre mattine indugiava a lungo seguendo la traiettoria di quella palla infuocata che talvolta sembrava davvero giocare a rimpiattino con le vette, facendo capolino e poi celandosi di nuovo dietro un repentino balzo del crinale, per riapparire infine più in alto, più sfolgorante che mai.Altrove, la storia del sole che in certi giorni passava attraverso il Monte Forato aveva piuttosto il sapore di una leggenda: qualche rara informazione sui tramonti visibili da Barga o da Fornovolasco, appena sotto la cima, e nulla più. Finché due amici non si presero la briga di svelare l’arcano, addentrandosi in complicati calcoli astronomici. Non solo: grazie a quella moderna magia chiamata computer trovarono anche le date in cui nel foro si sarebbero affacciati la luna e altri astri, che nel cielo hanno un andamento ben più bizzarro e imprevedibile. Così, una sera Robè vide uno di loro salire a Piastrola, armato di macchina fotografica e cavalletto, e quando seppe che era lì per fotografare la luna nell’arco lo prese per matto. Salvo restare, poi, a bocca aperta vedendo avverarsi la previsione.Nacque subito un’amicizia e, dato che poi fu pubblicato un libro, Robè ebbe il suo doveroso posto d’onore, con tanto di foto, all’inizio del capitolo che parlava delle albe e dei tramonti. L’anno successivo il paese sottostante, Cardoso, fu devastato dalla grave alluvione che sconvolse anche il resto della valle e Fornovolasco, sull’altro versante della catena. Erano proprio i giorni in cui tra Pruno e Piastrola, ma anche dal vicino abitato di Volegno, si sarebbe dovuto vedere il sole passare attraverso l’arco. La solidarietà non mancò e la gente, nonostante il dramma e le numerose vittime, seppe reagire in fretta. Cardoso fu presto ricostruito e Pruno, dopo soli dodici mesi, fece tesoro della sua posizione di punto di osservazione privilegiato sul fenomeno dell’alba nell’arco dedicando da allora al solstizio d’estate una festa popolare di grande richiamo. Così anche quest’anno, in particolare domenica 22, in tanti saliranno al Pianello sopra il paese per vedere il sole affacciarsi nel foro. E Robè, che da Piastrola l’avrà già ammirato un mesetto prima, ne attenderà impaziente il ritorno.M.L. Solstizio d’estate, grande festa con l’alba attraverso il Forato«L’eco della tradizione»: è questo, per il 2003, il tema dell’ormai tradizionale appuntamento a Pruno e Volegno, nel comune di Stazzema, per il solstizio d’estate. Una festa nata nel 1997 – come spieghiamo a lato – che col passare degli anni ha acquisito sempre più importanza, proponendosi come evento culturale di tutto rilievo. Il programma, dal 18 al 25 giugno (più l’appendice di sabato 5 luglio), coinvolge non solo i due paesi dirimpettai ma anche altri centri come Cardoso, Seravezza e Trassilico nel comune di Gallicano. I giorni «clou» sono naturalmente quelli del solstizio. Sabato 21 saranno di scena laboratori del gusto curati da Slow Food a Pruno e, dalle 18 alle 24, un divertente «Sabba del Solstizio d’Estate» presso la restaurata Rocca di Trassilico, con «cena a base di prodotti tipici e balli in compagnia di streghe, folletti e buffardelli». Domenica 22, appuntamento alle 7,15 al Pianello di Pruno in compagnia dei cantastorie Felice e Celina per assistere allo spettacolo del sole che attraversa il Monte Forato. Poi per chi vuole, dalle 9,30, escursione sul «sentiero del sole» con le guide del Parco delle Apuane (prenotazioni al numero 0583-644242) e tanti appuntamenti con diversi artisti di strada a Pruno, Volegno e Cardoso. Non mancheranno neppure convegni e mostre (tra cui, a Volegno dal 20 giugno al 5 luglio, una collettiva sul tema «Aspettando il sole») e, la sera di lunedì 23, vigilia di San Giovanni, il «grande fuoco della baldoria» nella Piazza del Lavatoio a Pruno. Per maggiori informazioni, si può consultare il sito www.ilsolstiziodestate.it.