Cultura & Società
Apuane, una montagna di fole e leggende
Recentemente, la casa editrice «Le Lettere» ha ristampato i suoi due cavalli di battaglia, «Le leggende delle Alpi Apuane» e «Storie e leggende della montagna lucchese» (dedicato al versante appenninico), mentre in autunno vedrà la luce la sua ultima fatica riguardante la Lucchesia collinare, più caratterizzata da racconti di carattere storico.
Storie, fole o leggende che dir si voglia non sono però da intendersi come narrazioni fini a se stesse. Attraverso di loro si tramandava di generazione in generazione tutto un mondo di esperienze, conoscenze e valori. «Avevano sottolinea Paolo, parlandone con noi una chiara funzione educativa e tenevano banco la sera durante le veglie, incantando anzitutto i bambini che poi, una volta andati a letto, lasciavano liberi gli adulti di raccontarsi tra loro storie di paura».
L’area apuana e lucchese è sicuramente quella che vanta la più ampia gamma di leggende caratteristiche rispetto al resto della Toscana. Un po’ per la natura del territorio, qui impervio ben più che altrove e ricco di profili anche bizzarri e capaci di evocare figure fantastiche, un po’ per la sua caratteristica di area di confine, aperta a influenze settentrionali come quelle apportate dai «folai» lombardi, uomini che scendevano dall’Appennino per lavorare a giornata e che alla sera incantavano con i loro racconti intere famiglie riunite a veglia presso un casolare. Ma c’è anche un altro, più atavico aspetto da non dimenticare: l’origine celtica dei Liguri Apuani, progenitori dei popoli di questi monti. È per questo, probabilmente, che qui si trovano storie frequenti nell’arco alpino ma sconosciute nell’area peninsulare, come quelle di Cigno e Cupavo, dell’Uomo selvatico o della Caccia selvaggia, vicende di tesori nascosti o figure come, appunto, i linchetti e i buffardelli o baffardelli, folletti ignoti in altre aree della nostra regione.
Non meno importante è il filone religioso, presente con le figure di santi leggendari ma veneratissimi dalla popolazione locale (Viano e Doroteo nel versante apuano, Pellegrino su quello appenninico) o anche storicamente documentati (Guglielmo di Malavalle), nonché con la Madonna, Gesù o l’intera Sacra Famiglia, come nel caso del bel racconto che fa dell’Alta Versilia la meta della fuga da Erode spiegando così l’origine del Monte Forato e dei burroni del Procinto. Ancor più frequenti le leggende dove come in Maremma protagonista è il diavolo che però, grazie a Dio, non l’ha mai vinta.
Era l’epoca in cui in calce alla quarta pagina dei giornali della sera apparivano, diluiti in tante puntate, romanzi d’amore e di morte: «Il padrone delle ferriere», «Le due orfanelle», «I miserabili». Mio padre, uno dei pochi del paese che sapesse leggere correntemente da giovane aveva frequentato le Scuole Tecniche che, a quei tempi, era come dire oggi l’Università teneva banco. Tutti pendevano dalle sue labbra dalle quali uscivano, di volta in volta, descrizioni poetiche di incontri romantici, epici racconti di duelli quasi sempre mortali per i protagonisti, o le sferzanti parole che bollavano assurde angherie perpetrate da nobili e padroni ai danni di onesti popolani. Si può senz’altro dire che la gente, in quel periodo, non vivesse che per ritrovarsi ad ascoltare un’altra puntata di quelle vicende. Non era raro il caso che sulle panche non ci fosse più posto; allora, noi ragazzi, o ci portavamo da casa le seggioline, oppure dovevamo sederci sulle ginocchia delle mamme o delle nonne e lì aspettare, smaniando, che ci prendesse sonno.
Mio padre, intanto, alla luce di una lucernina, recitando più che leggendo, dava vita ai vari personaggi del romanzo. A volte, in presenza di fatti o frasi per me incomprensibili, si interrompeva all’improvviso e a chi chiedeva il motivo di quella pausa fatta sul più bello invariabilmente rispondeva che «c’erino i tietti bassi». Io ero troppo piccolo per capire la metafora e non riuscivo a comprendere il perché, nel bel mezzo di Parigi o dentro una ferriera, avessero costruito dei tetti bassi e come tali tetti potessero impedire, da tanto lontano, la prosecuzione della lettura. Immancabilmente, a quel punto, tutti i presenti, i quali fino ad allora non ci avevano degnato di uno sguardo, si preoccupavano all’unisono del nostro sonno e così, seduta stante, venivamo portati a letto a furor di popolo.
Purtroppo, circa venticinque/trenta giorni dopo, anche questo piccolo mondo si estingueva: infatti, poiché le castagne erano già secche, il fuoco veniva spento, il graticcio allargato e le secchine, precipitando dall’alto, riempivano… la sala delle riunioni, mettendo fine alle serate. Poi, a poco a poco, mezzo sacco per volta, venivano pestate sul ciocco, per levare loro la pula, e portate al mulino.
Non appena il primo bolgio di farina arrivava a casa, veniva ufficialmente inaugurata la nuova stagione con la polenta di ciaccio e questo avvenimento quasi un rituale dava l’addio all’autunno e preannunciava l’inizio del gelido inverno.