Opinioni & Commenti
Appello ai giovani: non buttate la vita in una notte
Alla periferia di Firenze sono morti tre ragazzi tra i 16 e i 19 anni: Margaux, Francesca e Mario. Nei giorni scorsi, altre due giovani di 25 e 33 anni (Silvia e Debora) sono morte nei pressi di Massa tra le lamiere contorte della loro auto. La Toscana paga così, in questo inizio di anno, un contributo altissimo in termini di giovani vite a quelle che un tempo si chiamavano le «stragi del sabato sera» e che ormai sono divenute tragedie quotidiane. E’ ai giovani, che ci rivolgiamo, con questo appello:
di Franco Vaccari
Dove corri? Per arrivare al funerale del tuo amico, schiantato nell’auto? Ormai lui ti aspetta. Sei tu, come al solito, che potresti non arrivarci. Trafelato e ansimante, piangerai. Per cosa? Per lui? Per i suoi genitori?
Perché piangerai per lui? Per quello che si è perso del resto della vita? Non essere ipocrita! Perché, allora, continui a correre, riaffermando che la vita ha senso solo se esisti tu? Morto te, morto tutto. È questo ciò che pensi. Quindi non dire alla ragazza «ti amo», dille «ti uso». Non fingere affetti verso babbo e mamma: tutta la tua vita è un implicito «me ne frego!». Non hai neanche il coraggio di poeti maledetti e artisti sciagurati di farne una coerente filosofia di vita.
No, tu vivi una cronica doppiezza: bravino a scuola o all’università, poi la sera la notte cambi il codice della vita, ti trasformi. E vai progressivamente, in modo sfumato, quasi senza accorgertene e poi corri, corri
Tu corri. Eccitato verso i miraggi, alimentati da innocenti sostanze: che male c’è a farsi una canna? un birrino ?…un cocktail ! Non entrare in quel luogo dell’amore ferito, del dolore vero.
Ma tu correrai ed entrerai in quella chiesa, mimetizzato tra le ambigue emozioni dei tanti, nel fastidioso applauso finale che anche tu alimenterai. Se la Parola di vita e di amore lì proclamata aprisse gli occhi ai presenti e ti vedessero per come sei, tutti, in silenzio, fisserebbero lo sguardo su di te guardandoti con un amore pieno di dolore, vedendo come ti butti via. Se quello sguardo ti raggiungesse, moriresti di struggimento e correresti via questa volta una corsa salutare e piangeresti sul tuo inizio di cambiamento.
«Quanta fretta, ma dove corri? Dove vai?», te lo chiede in musica, da molti anni, il cantante. E ti fa capire che se corri, corri anche quando ti fermi fisicamente un attimo sei a rischio. Hai perso il senso delle cose, il loro valore sei preda dei primi furbastri che ti fregano. E neppure te ne accorgi, divenendo pietoso e ridicolo. Ma il branchetto alimenta il miraggio e tu credi reale ciò che non lo è e nulla la sostanza della vita.
È così che un cavalcavia ti sembra una piazza d’armi senza limiti e la tua onnipotenza ti illude di poter raddrizzare curve che invece restano saldamente come sono.
In una strada di campagna, al bordo di una curva a gomito ci sono due piccole lapidi, di foggia diversa. Una datata 1944, l’altra 2004. Luigi e Andrea avevano la stessa età: vent’anni. Intimamente uniti per sempre da una parola: libertà. Luigi, morto per averla conquistata, Andrea per averla dissipata. Davvero ci sono cose che ogni generazione deve conquistare da capo. Libertà, giustizia, democrazia, amore non sono ereditabili.
Non provi nulla leggendo queste parole? Hai faticato ad arrivare fin qui perché il tuo cervello continua a correre? Verso stanotte? Verso domani? Verso tutto e verso nulla?
Allora, se ce la fai a seguirmi per un altro rigo, sappi che ho capito: sei già morto. Ti riconosco, con l’occhio che guarda e non vede nulla, non vedrai neppure il prossimo cavalcavia.
Deceduto alle ore 3,45 di domenica mattina, scriverà il medico legale. Ma chi ti amava sa che la morte alla vita era avvenuta molto tempo prima.
Nei nuovi contratti ormai si muore a rate.