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Annalena Tonelli, la missionaria che si sentiva “nessuno”

DI ALESSANDRO RONDONIAnnalena Tonelli, missionaria laica forlivese, da oltre trent’anni impegnata in Africa ad aiutare i rifugiati somali, è stata uccisa barbaramente domenica 5 ottobre a Borama, nel nord ovest della Somalia dove sei anni fa aveva fondato un ospedale per la cura della tubercolosi. Per il suo impegno a favore dei profughi nel giugno scorso aveva ricevuto il prestigioso Nansen Award, attribuitole dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Aveva ritirato il premio il 25 giugno a Ginevra. Di passaggio a Forlì per salutare la mamma, i fratelli, i nipoti e gli amici del Comitato, aveva accettato di incontrare i giornalisti e di raccontare i suoi oltre 30 anni di missione in Africa, spiegando le origini, le motivazioni e soprattutto il lavoro per aiutare le popolazioni sofferenti. Segue l’intervista rilasciata da Annalena Tonelli il 21 giugno scorso durante la conferenza stampa a Forlì e pubblicata su “Il Momento”, settimanale forlivese.

In che cosa consiste la sua opera a favore degli ammalati di tbc?

“Sono oltre trent’anni che lavoro con gli ammalati di tubercolosi e nel 1976 iniziai un progetto che nel 1993 è stato riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è diventato famoso in tutto il mondo. È un modo nuovo di curare la malattia, una terapia verificata quotidianamente che associa la diagnosi a una scelta particolare di medicine, date direttamente al malato così che il tempo di cura si riduce da 18 a 6 mesi. L’altro fronte del mio impegno è quello di suscitare la volontà politica e quindi gli investimenti per curare la malattia. Io sto combattendo questa piaga dell’umanità da più di 30 anni, negli ultimi 7 nell’estremo nord-ovest della Somalia, a pochi chilometri dal confine con l’Etiopia e Gibuti. Quando sono arrivata bisognava cominciare tutto da zero: dai 118 ammalati del primo anno, siamo saliti a 1297 il secondo e poi pian piano, dopo qualche anno, il numero è calato”.

Poi è arrivato l’Aids…

“Mentre registravamo i frutti della cura contro la tubercolosi cresceva la piaga dell’Aids e siamo passati dal 2% al 16% degli ammalati di tubercolosi in Aids conclamato. Per noi è ancora più difficile combattere la malattia in un ambiente musulmano dove il rifiuto di questa malattia è fortissimo. Lo scorso anno a ottobre siamo stati attaccati e abbiamo chiuso il centro per un mese e mezzo, ci hanno preso a sassate, hanno gridato “a morte” contro di noi, perché non potevano accettare che il mondo parlasse di Borama come un luogo dove esiste la doppia infezione, della tbc e dell’Aids. Oggi la crisi è stata superata, la comunità è con noi, ma resta una realtà durissima da accettare. Adesso abbiamo tanti bambini ammalati e voglio lottare per loro, per riuscire ad avere le medicine. Pur essendo stati scelti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come centro pilota e di insegnamento, non abbiamo accesso ai medicinali perché l’Africa è considerata incapace di gestire le cure. Noi vogliamo creare e sviluppare una speranza per queste persone condannate a una morte disumana e tra sofferenze indicibili. L’Aids, infatti, distrugge l’uomo e lo abbrutisce in tutti i sensi”.

Ci sono delle persone che l’aiutano?

“L’ospedale di Borama è nato con 30 posti all’interno e gli altri nelle 300 capanne attorno. Oggi, grazie all’aiuto dell’Alto Commissariato per i rifugiati vi sono 250 posti letto e uno staff di 50 persone con 3 medici, 11 infermieri, 12 ausiliari, 4 cuochi, 1 autista, 4 maestri, 1 tecnico di radiologia e 4 laboratoristi. Ci sono delle guarigioni prodigiose tra gli ammalati di tubercolosi, anche tra quelli con l’Aids: dopo poco tempo che hanno iniziato la terapia si rimettono in piedi e aumentano anche di 30 kg. Bisogna assolutamente donare una speranza di vita agli ammalati, perché altrimenti nulla ha senso per loro e l’unica prospettiva è pensare alla morte, anche per l’ammalato di fede musulmana. Anche perchè l’islam in questa regione è un po’ retrivo. La mia impressione è che non si tratti di una fede vera, di spessore. Io ero abituata alla fede rocciosa dei nomadi del deserto, che è servita moltissimo al rafforzamento della mia fede, proprio perché era autentica e incrollabile. Per la gestione ordinaria dell’ospedale saranno utilizzati anche i 120.000 dollari del finanziamento a carico del Comitato per la lotta contro la fame nel mondo e delle istituzioni forlivesi”.

Annalena, cosa dice di se stessa?

“Io sono ‘nobody’: nessuno. Nel senso che non appartengo a nessuna organizzazione o congregazione religiosa. Sono una cristiana: sono una donna con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza. E questo per grazia di Dio. Non ho fatto nulla per conquistarla, nessuno sforzo o fatica, mi è stata donata. È una fede incrollabile che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà. Anche se, devo confessare, le vere difficoltà non sono quelle che la gente immagina, come la durezza della vita. Una durezza è non avere nessuno che condivida la mia fede rocciosa: questa per me è una sofferenza indicibile. Farei qualsiasi cosa per poter ascoltare una voce che senta quello che io sento, per poter avere una condivisione”.

Perché ha scelto l’Africa?

“Non volevo andare in Africa, ma in India perché mi affascinava per il bisogno dell’uomo. Sono partita con una passione per l’uomo veramente invincibile. Avrei fatto qualsiasi cosa, non avevo paura di niente. La mia famiglia, che amo e rispetto, non voleva che partissi e io ho colto al volo la prima occasione. Il caso ha voluto fosse l’Africa, dove non volevo andare, tanto meno in Kenya, che ai miei occhi era il paese dei turisti. Poi, trovandomi in quel solco, ho capito che non ha assolutamente importanza il luogo dove ci si trova. Potevo essere rimasta in Italia o in qualsiasi altro buco del mondo. Non ha assolutamente importanza. Perché veramente ciò che conta è amare: e si può amare nella società più ricca, in quella più retriva e in quella più sviluppata. Si sta nel solco che Dio ci ha dato e nelle vie misteriose dove ci ha portato, perché ciò che conta è amare”.

Che cosa le dà più gioia e soddisfazione nel suo lavoro con gli ammalati?

“Quando gli ammalati tornano a sperare, a credere nella vita, a sentire la bellezza della vita è certamente una gioia grande, anche se è difficile spiegare cosa si prova. Io sono parte di loro, e loro mi considerano così, si aprono con me, io sento i loro problemi e loro si accorgono di questo. Vedere il loro ritorno alla vita è una grandissima gioia. Lavorare contro la tubercolosi è sempre fonte di gratificazione perché si vedono tante persone rifiorire. Gli ammalati rimangono con noi mesi e mesi, si crea come una grande famiglia, dove si accompagna quella sofferenza e si cerca di ridare speranza”.

Ha mai avuto paura?

“Non ho paura e anche questa è una cosa che non mi sono data. Sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiato, sono stata imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Sono sicura, lo so, perché anche in quei momenti il cuore non fa un battito in più. È una cosa che uno si ritrova dentro, che non si dà, e io lo vedo come un evento di provvidenza, di grazia. Magari il cuore batte un po’ prima di svolgere una relazione importante, ma poi tutto passa”.

Come è nata la scuola per i bambini sordi?

“La scuola è nata per i bambini ammalati di tubercolosi, mentre seguivano la cura, poi si sono aggiunti i bambini disabili, quelli non udenti, i poveri della città e i figli dei clan disprezzati dalla cultura somala, fabbri ferrai, lavoratori del cuoio e cacciatori. Questi clan non mandano i figli a scuola. Hanno iniziato i bambini ammalati di tubercolosi e oggi vorrebbero venire tutti, perché la nostra è una scuola vera. Imparano l’inglese, navigano in Internet e spesso, in giro per la città, si sentono i bambini che dicono ai grandi ‘portami alla scuola dei sordi’. Ad agosto integreremo nella scuola i primi bambini non vedenti con i bambini sani, con l’aiuto di alcuni esperti che verranno ad insegnare ai nostri maestri. La Somalia non ha mai avuto scuole speciali per ciechi e sordi e speriamo di allargare a tutto il Paese quello che è iniziato da noi. Assieme ai Campus nei quali è già stata ridata la vista a 3700 ciechi da cataratta, i miei insegnanti stanno imparando il linguaggio dei segni in lingua somala per i non udenti e nel giro di cinque anni sarà pronto il vocabolario. Adesso la scuola è un gioiello, dà una grande speranza, gli insegnanti lavorano con una passione grandissima, e può essere un punto di riferimento per chiunque volesse aprire una scuola speciale”.(ha collaborato Giovanni Amati)

Annalena, una vita per i poveri dell’Africa