Vita Chiesa

Anche l’arte aiuta il Sinodo

Mons. Timothy Verdon, canonico del Duomo di Firenze, storico dell’arte e docente alla Facoltà Teologica per l’Italia Centrale, partecipa al Sinodo dei Vescovi (unico rappresentante toscano) tra gli «adiutores», ovvero gli esperti di vari temi legati all’eucaristia. Per la prima volta infatti l’arte sacra occupa uno spazio importante nel Sinodo: ogni sessione è accompagnata dalla proiezione, su un grande schermo posto dietro il tavolo della presidenza, di immagini d’arte sacra relative all’Eucaristia. Dal Sinodo, mons. Verdon ci ha inviato queste riflessioni su arte e Eucaristia.

L’arte e la liturgia eucaristicadi Timothy VerdonNella Chiesa cattolica come in quasi tutte le culture antiche, l’arte monumentale ha carattere religioso e specificamente cultuale. Viene prodotta cioè al servizio della liturgia, come «visibilità del mistero». La liturgia poi è in sé opera artistica e generatrice d’arte. Composta di azioni rituali abbinate a parole, ha bisogno di spazi in cui svolgere le azioni e di arredi illustranti i testi. A loro volta, i templi e le processioni, i canti sacri, le immagini e suppellettili presuppongono la collaborazione di professionisti nei vari campi: architetti e coreografi, compositori, cantori, poeti, pittori, scultori, orefici.In alcune culture, l’estro creativo al servizio del culto è considerato addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme – ogni capacità di ideare e creare cose belle e significative – viene pensata in rapporto al sacro.

Nell’Antico Testamento, ad esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e «gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario» vengono istruiti da Mosé in persona, perché facciano «ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato» (Esodo 36,1).

Questo brano, tratto dal capitolo 36 del libro dell’Esodo, è forse il fondamento della concezione giudeo-cristiana dell’arte. Nel racconto biblico della fuga dalla schiavitù d’Egitto verso la libertà di una “terra promessa”, la chiamata degli artisti e la costruzione del santuario sono infatti gli atti conclusivi di una serie di eventi determinanti per la storia e per l’identità stessa del popolo di Dio. Sarà utile ricordare brevemente questi eventi.

Mentre sul monte Mosé riceve le tavole della Legge – i dieci comandamenti – il popolo, diffidente, fa fare un vitello d’oro e si mette ad adorarlo (Esodo 32, 1-6). Quando scende dal monte, Mosé – offeso dall’infedeltà degli israeliti – frantuma le tavole e obbliga il popolo a scegliere tra Yahweh e l’idolo, dicendo: «Chi sta con il Signore, venga con me!» (Esodo 32, 15-28). Pregando, ottiene poi il perdono del peccato del popolo e la promessa che il Signore camminerà in mezzo ad esso. Quando però Mosé chiede per se stesso il privilegio di vedere Dio direttamente, Questi risponde: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Esodo 32,20-33,20). Al suo amico, Dio fa tuttavia una concessione: «Ecco un luogo vicino a me. Tu sarai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Esodo 32,30-33,23). Mosé allora risale la montagna e vede, in questo modo parziale, Yahweh che, mentre passa, si identifica come un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di fedeltà» (Esodo 32,30-33,23). Mosé allora risale la montagna e vede, in questo modo parziale, Yahweh che, mentre passa, si identifica come un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di fedeltà». Dio stabilisce un’alleanza con Israele, e le dieci parole vengono riscritte su nuove tavole (Esodo 34, 1-28). A questo punto, di nuovo sceso dalla montagna, Mosé chiede al popolo un «contributo volontario» di quanto dovrà servire materialmente al culto, e chiama il primo degli artisti, Bezaleel, affermando che Yahweh stesso «l’ha riempito dello Spirito di Dio perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento, rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso» (Esodo 35, 31-33).

In questa sequenza – che apre con il vitello d’oro e chiude con gli ornamenti del santuario – l’arte ha a che fare col peccato e col perdono; segna una radicale scelta da parte del popolo; e materializza la promessa di Dio di «camminare» in mezzo ad esso. Inoltre prolunga una parziale rivelazione della divina gloria (le spalle viste da Mosé, non il volto) e manifesta la volontà del popolo di contribuire con i propri mezzi a realizzare un «luogo vicino a Dio», il cui architetto è sempre Dio che fornisce il disegno e dota gli artisti di talento. Tale «volontario contributo» da parte del popolo diventa poi segno di penitenza per il peccato d’idolatria, come la conseguente bellezza del santuario sarà segno dell’alleanza offerta da un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni e perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Esodo 34, 6-7).

Così com’è presentata nell’Antico Testamento, cioè, l’arte diventa uno dei segni del patto sussistente tra l’uomo peccatore e il Dio che, perdonando la colpa, cammina in mezzo al suo popolo; è già un «sacramento» della presenza e della salvezza che Dio offre, e quando, nella Chiesa, viene utilizzata per esaltare la reale presenza dell’Agnello immolato perché il popolo amato da Dio possa uscire da ogni schiavitù, attraversare ogni deserto e camminare nella fede verso la casa del Padre – quando cioè affianca con la bellezza estetica Colui che è Bellezza spirituale – allora raggiunge la pienezza della sua stessa vocazione. L’arte, in qualche modo, ci è data da Dio per l’Eucaristia.

Il Cristo eucaristico e l’arteLe funzioni cultiche che in Israele furono concentrate nel santuario portatile fatto realizzare da Mosé e successivamente nel Tempio gerosolimitano, sembrano destinate a venir meno nella nuova alleanza istituita da Gesù Cristo. Parlando con una donna della Samaria, Gesù dirà infatti che né il monte sacro dei samaritani né il tempio degli israeliti servono più, perché “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito”, Gesù continua, “e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Giovanni 4,21-24).

Sul medesimo tono, un giorno mentre insegnava, sentendo alcuni parlare “del Tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che l’adornavano, Gesù disse: ‘Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta’” (Luca 21, 5-6). E in un’altra occasione usa termini paradossali per ridimensionare la fede liturgico-artistica di Israele, quando, dopo aver scacciato i venditori e cambiavalute dal cortile esterno, si giustifica dicendo: “Distruggete questo Tempio e io in tre giorni lo farò risorgere” (Giovanni 2,19).

Ma ecco subito la vera chiave di lettura di simili passi: l’evangelista Giovanni, chiosando lo stupore degli ascoltatori – “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” – precisa che Cristo “parlava del suo corpo” e che, “quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla scrittura e alla parola di Gesù” (Giovanni 2, 20-22). Per la teologia cristiana, è infatti Lui – Gesù in persona – il nuovo “tempio”, il “luogo vicino a Dio” dove il credente contempla la gloria del Padre.

Nel Nuovo come nell’Antico Testamento, l’uomo non può vedere Dio direttamente, e il quarto Vangelo insiste che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Giovanni 1,17). Ma aggiunge subito che “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Giovanni 1,18)—affermazione risalente a Cristo stesso, il quale – all’apostolo Filippo, che aveva chiesto di vedere Dio – disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14,9). Nel medesimo spirito, un testo paolino dirà di Gesù: “Egli è l’immagine [eikwn , icona] del Dio invisibile” (Colossesi 1,15).

Ma se Cristo è la personale ed incarnata “icona” dell’invisibile Padre – l’irradiazione di quella gloria che Mosé volle vedere e non poté – , allora il ruolo delle immagini nella Nuova Alleanza dovrà essere non meno ma più importante che nell’Antica. Il luogo maggiormente decorato del Tempio gerosolimitano (come prima, nella “Dimora” o “Tenda” fatta da Bezaleel) era la cella interna o Sancta sanctorum contenente l’Arca in cui erano conservate le dieci parole di Dio su tavole di pietra; i rivestimenti in pregiato legno di cedro con rilievi raffiguranti boccioli di fiori alludevano all’importanza delle parole di Dio (cfr. 1 Re 6, 14-18).

In Gesù Cristo però non “dieci parole” ma la Parola – il Logos o Verbum – si fece carne. Non era nascosta in un’arca in una cella inaccessibile, ma manifesta a tutti, così che la prima Lettera di Giovanni potrà dire:

“Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fata visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Giovanni 1,1-3).

Il ruolo dell’arte nella Nuova Alleanza sarà appunto quello di un annuncio, finalizzata alla comunione, di “ciò che era fin dal principio” e che alcuni hanno ora sperimentato in modo sensorio – che hanno cioè “veduto”, “contemplato”, “udito” e perfino “toccato” -: la Parola incarnata, Vita eterna che, rendendosi visibile, suscita in chi la vede una testimonianza gioiosa. La frase che conclude il brano evangelico citato sopra recita infatti: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Giovanni 1, 4).

Ora, nella vita della Chiesa, il luogo ufficialmente deputato all’espressione della gioia – l’ambito tipico di testimonianza e comunione – è la liturgia eucaristica. Le immagini al suo servizio diventano perciò automaticamente parte di un annuncio che è anche incontro, in analogia con i sacramenti, i segni di salvezza e vita nuova istituiti da Cristo. Dalla liturgia sacramentale attingono ‘presenza’, ‘forza’, ‘realtà’.

Per i teologi dei primi sei secoli cristiani, i sacramenti stessi sono da considerarsi “immagini”. Secondo san Basilio, ad esempio, nel battesimo (che è partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo: cfr. Romani 6), “l’acqua ci offre l’immagine della morte, accogliendo il corpo come in un sepolcro”. E parlando dell’Eucaristia, Gaudenzio di Brescia afferma che “il pane è considerato con ragione immagine del corpo di Cristo” perché fatto “di molti grani di frumento” che, macinati, impastati con l’acqua e cotti al fuoco, diventano segno complessivo della comunione di molte persone battezzate nell’acqua e nel fuoco dello Spirito Santo—persone che diventano a loro volta l’unico “corpo mistico” di Cristo, cioè la Chiesa.

In queste citazioni, dove sembra dominare l’aspetto metaforico del rapporto “immagine-sacramento”, non manca la dimensione visiva. San Leone Magno arriva a dire che, dopo il ritorno di Cristo al Padre nell’Ascensione, “quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali”, rivelatori di quella “arcana serie di azioni divine” su cui “l’intera esistenza del cristiano si fonda”. Tale infatti è l’importanza di questa conoscenza per immagini sensibili , che Gaudenzio da Brescia ritiene “necessario che i sacramenti siano celebrati nelle singole chiese del mondo sino al ritorno di Cristo dal cielo, perché tutti – sacerdoti e laici – abbiano ogni giorno davanti agli occhi la viva rappresentazione della passione del Signore, la tocchino con mano, la ricevano con la bocca e con il cuore e conservino indelebile memoria della nostra redenzione”.

Ma se l’intera comunità deve sempre avere davanti agli occhi la passione di Cristo, consegue che, insieme ai riti che costituiscono la “viva rappresentazione” della morte e risurrezione del Salvatore, avranno grande dignità anche i mosaici e dipinti, le vetrate e sculture che, avvicinate ai riti, ne visualizzano i contenuti. Innumerevoli capolavori d’arte cristiana infatti suggeriscono questo rapporto, alcune in maniera quasi letterale: la stampa quattrocentesca che fa vedere l’elevazione dell’ostia davanti a una pala d’altare, ad esempio, o il dipinto cinquecentesco che raffigura la distribuzione della comunione davanti a un’altra pala – un dipinto nel dipinto – che a sua volta raffigura il corpo di Cristo deposto dalla croce.

L’arte al servizio dell’Eucaristia Le immagini, che la tradizione della Chiesa ha posto al servizio dell’Eucaristia che ri-presenta la passione di Cristo, costituiscono una sorta di “segnaletica”. Rappresentando corporalmente Cristo, Maria e i santi, i dipinti e sculture indicano la “via nuova e vivente” (Ebrei 10, 19-20) che è la carne del Salvatore presente nel pane consacrato ma anche nel corpo mistico che è la Chiesa. Non è un ragionamento astratto, questo: anzi, è intensamente personale, perché la nuova via a Dio, la carne di Cristo, è anche la nostra carne, e l’immagine del corpo in cui egli ha celebrato i riti di un sacerdozio eterno è anche l’immagine del nostro corpo. “Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue”, Cristo dice ai credenti in uno straordinario testo di san Pietro Crisologo. “E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?” Commosso da quest’idea, Crisologo poi esclama: “O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L’uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica”. Invitando poi a imitare Cristo, esorta:“Sii, o uomo, sacrificio e sacerdote […], fa del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla morte”. In questa prospettiva, oltre ad essere annuncio e segno dell’Alleanza, l’arte figurativa nel contesto cultuale è anche uno specchio in cui il cristiano contempla la propria dignità, e in molte immagini avvicinate ai riti il Verbo sembra proprio dire: “Vedete in me il vostro corpo, fa del tuo cuore un altare”. E’ il caso dello schienale di un trono abbaziale o vescovile conservato ai Musei Vaticani dove, nella parte centrale, vediamo un altare con una grande croce e, dietro l’altare, Cristo risorto che celebra (fig. 1). La nudità di questo “sacerdote”, nonché il suo gesto orante – le braccia allargate ed alzate (il gesto appunto del sacerdote che celebra la Messa) – traducono in termini rituali il sacrificio compiuto da Cristo sul Calvario. Sopra questo “sacerdote-vittima”, una seconda raffigurazione lo presenta poi glorificato, in quasi letterale traduzione di un altro passo della Lettera agli Ebrei, dove si afferma di Cristo che, “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio” (Ebrei 12,2). Ecco, dipinta sulla sedia da cui un prelato si alzava per andare all’altare, quest’immagine comunica perfettamente il rapporto “speculare” sopra accennato: l’abate o vescovo che celebrava doveva avere in sé “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”, non agendo per interesse o vanagloria ma accettando pure lui l’ignominia “in cambio della gloria che gli era posta innanzi” (Filippesi 2,3-5; Ebrei 12,2). I fedeli dovevano similmente vedere il corpo di Cristo nel corpo di un loro fratello, l’abate o vescovo, rendendosi conto che il vero “celebrante” è sempre lui, Cristo, sacerdote della nuova ed eterna alleanza.

Molte opere eseguite per il luogo della celebrazione liturgica infatti presentano Cristo, Maria e i santi nei termini “sacerdotali” di un impegno della propria vita: il celebre mosaico della Basilica di San Clemente a Roma; il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, ora a Londra; la penultima Pietà di Michelangelo, a Firenze; il Risorto in croce di Giuliano Vangi nel Duomo di Padova. In questi casi, sopra l’altare dovevamo vedere – a San Clemente e a Padova vediamo tuttora – l’immagine del nostro corpo offerto, al posto di vitelli e capri, da Chi ci ha lasciato un esempio perché ne seguiamo le orme (cfr. 1 Pietro 2,21). Perfino le raffigurazioni del Bimbo in braccio alla madre, avvicinate all’Eucaristia evocano il sacerdozio di Chi, “entrando nel mondo”, promise al Padre che, al posto degli olocausti di tori e capri, avrebbe offerto il corpo che gli era stato preparato (Ebrei 10,4-7: cfr. figg. 12, 13, 14, 111).

Così, riconoscendo la propria natura, la propria umanità nel corpo raffigurato di Cristo o di un santo, il credente si scopre “sacerdote” e “vittima”, capace in Cristo di offrire sull’altare del proprio cuore un sacrificio che “rende perfetto, nella sua coscienza” l’offerente (Ebrei 9,9). E le cose promesse nell’Antico Testamento – l’Alleanza di perdono, la vicinanza di Dio e una parziale visione della sua gloria – vengono riportate all’esperienza che il cristiano ha di se stesso quando, nella liturgia, incontra il Redentore nella concretezza della propria vita elevata a dignità sacerdotale.