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Aleppo urla di dolore: «Per i poveri cristiani non si spendono parole»
Monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo (Siria): «Quando accadono fatti come decapitazioni, crocifissioni, esecuzioni sommarie, voi in Europa siete soliti dormire per non vederli». E denuncia: «Lo Stato islamico fa soldi con la disperazione di tanti poveri che vengono pagati profumatamente, anche in anticipo di mesi, per combattere»
«Non abbandonateci, non lasciateci soli»: lo ripete come un mantra, monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo, una delle città martiri della guerra civile in Siria, mentre dall’altro capo del telefono si sentono chiaramente gli scoppi dei mortai. «È appena caduto un razzo katiuscia – dice mentre la sua voce viene quasi del tutto coperta dal boato – siamo a circa cento metri dalla linea di demarcazione, al confine della città antica. Ogni giorno muore qualcuno». La notizia del rapimento di 90 cristiani – «sono 87» corregge prontamente – da parte dello Stato Islamico che ha conquistato alcuni villaggi cristiani nel Khabour (Siria), è arrivata fino ad Aleppo e adesso sale la preoccupazione per la loro sorte. «Speriamo che possano essere liberati e tornare così alle loro case ma dopo quello che abbiamo visto fare a questi barbari dell’Is in Libia, in Siria, in Iraq c’è da aspettarsi di tutto». Purtroppo, le notizie che giungono non sono rassicuranti e parlano già di alcuni uccisi.
Per un attimo mons. Jeanbart sembra dimenticare quanto gli accade intorno e attacca senza mezzi termini l’inazione europea: «Quando accadono fatti come decapitazioni, crocifissioni, esecuzioni sommarie, voi in Europa siete soliti dormire per non vederli. La gravissima strage di Parigi, a Charlie Hebdo, invece ha richiamato in meno di 24 ore i potenti del mondo. Ma per questa gente innocente, colpevole solo di professare la fede cristiana, nessuno spende mai una parola e ciò è davvero terribile». La stessa commozione il presule la riserva per la sua città, la più antica del mondo, Aleppo, che non ha mai pensato di abbandonare. E parla di «grave emergenza umanitaria». «In città manca tutto – racconta srotolando una lunga lista di bisogni – elettricità, cibo, acqua, benzina, medicine. Le industrie sono state chiuse e i loro operai, più di un milione e duecentomila, ora sono privi di reddito. Le infrastrutture colpite e distrutte dai bombardamenti dei ribelli e dei governativi. La vita è sempre più dura, complice anche l’inflazione che ha fatto quadruplicare i prezzi dei generi di prima necessità». Tutto questo sembra non esistere per i media del mondo. «La città sembra ormai abbandonata a se stessa, nessuno ne parla più, nessuna riga sulle sofferenze della popolazione. Prima della guerra qui abitavano oltre tre milioni di persone, oggi ne sono rimaste poco meno della metà. Gli altri oggi ingrossano le fila dei profughi e degli sfollati. Come Chiesa facciamo quel possiamo forse più delle Ong, delle agenzie umanitarie e anche del Governo stesso, aiutando quanta più gente possibile. Ma non basta».
Mentre dentro la città si vive «nella paura e nella miseria», nelle zone periferiche si combatte. Da una parte, le forze governative e, dall’altra, quelle di opposizione. Bombardamenti giungono da entrambe le fazioni che controllano diverse zone della città. «Negli ultimi giorni – spiega mons. Jeanbart – l’esercito regolare del presidente Assad sembra avere conquistato il controllo di località e villaggi intorno ad Aleppo così da formare una cinta difensiva con il chiaro scopo di evitare che cada nelle mani dei ribelli o peggio dei miliziani integralisti dello Stato islamico». Questi ultimi, in maggioranza stranieri, «rappresentano un nemico anche per gli oppositori di Assad, in larghissima parte siriani, che invece ogni giorno di più lasciano le armi per cercare vie negoziali con il regime. Rischiano meno con le forze regolari del presidente Assad che con i miliziani del Califfo». Le bandiere nere del Califfato rappresentano un’altra ferita aperta nella già maltrattata carne siriana. «Lo Stato islamico – denuncia l’arcivescovo – fa soldi con la disperazione di tanti poveri che vengono pagati profumatamente, anche in anticipo di mesi, per combattere. Una grande fonte di reddito per le famiglie di provenienza che per questo li spingono nelle braccia di al-Baghdadi. Lo stipendio mensile di un combattente Is si aggira sui 500 dollari, circa 150mila lire siriane. Una cifra enorme rapportata al salario medio in Siria che adesso è di 15mila lire. Sono tanti soldi nelle mani di ragazzi di 16 o 17 anni ai quali vengono date anche droghe e poi mandati a morire. Una cosa indegna».
Tra molte ombre qualche luce sembra trasparire. È il caso dell’annuncio dell’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, su una possibile e imminente tregua di sei settimane ad Aleppo. Se ciò dovesse accadere la città vedrebbe innanzitutto l’apertura di corridoi umanitari e di rifornimenti per i civili. «Se de Mistura dovesse riuscire a mettere d’accordo regime e ribelli, sarebbe un grande risultato – dichiara l’arcivescovo – e potrebbe preludere ad accordi più importanti. La gente qui ha bisogno che la vita riprenda subito, che si riparino gli ospedali, le strade, le scuole, che ad Aleppo sono circa 2.000. Che riparta l’economia, il lavoro, la ricostruzione e soprattutto che si cerchi la riconciliazione. Abbiamo bisogno di tornare a sognare un Paese sereno e riconciliato, solo così tutto il sangue versato dall’una e dall’altra parte non sarà stato versato in vano. Sogniamo – e qui la voce s’incrina – un Paese nuovo, dove tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e doveri, dove nessuno sia più prevaricato, dove il dialogo tra le fedi non sia fatto solo di convenevoli ma di scambio di convinzioni. In questo impegno la Chiesa avrà sempre la mano tesa verso l’altro, senza differenza alcuna».