Opinioni & Commenti
Aldo Moro, la tragedia che cambiò la storia d’Italia
Un grande uomo, scriveva Hegel, obbliga sempre i suoi simili a interpretarlo. Aldo Moro non fa eccezione, e questo rende molto difficile tracciarne un ricordo ragionato. La tragedia che chiude la sua vita, il 9 maggio 1978, ha spesso schiacciato il giudizio, impedendo una valutazione serena. Sul Moro chiuso nella cella delle Br continuano ad accavallarsi le rivelazioni: persino troppe, uno non ci si ritrova più. Sulla figura storica di Moro statista (titolo che egli solo ebbe, insieme a De Gasperi, prima che il termine venisse abusato ed affogato nel mare di ignoranza politica che ha fatto seguito alle evoluzioni del ’92) invece è possibile ricomporre una valutazione, adesso che gli anni acquietano le passioni e rendono più saggi gli esseri umani.
Moro, innanzitutto, era un cattolico impegnato in politica. Punto essenziale, mai da dare per scontato. Apparteneva ad un partito laico di ispirazione cristiana, molto popolare, la cui evoluzione lo aveva visto protagonista fin dal 1945. Aveva sviluppato l’idea, partendo dall’osservazione della vita democratica nazionale, che la Democrazia Cristiana, partito di centro che guardava a sinistra, dovesse aprire la cosiddetta «Terza fase» della storia della Repubblica. Quella dell’alternanza con le sinistre, nel pieno compimento di un gioco democratico che avrebbe portato il Paese nell’alveo delle democrazie mature.
Si badi bene: non un connubio, non un matrimonio, né un partito unico, quanto piuttosto uno schema politico in cui i cattolici, lasciando alle destre populiste e antidemocratiche tutta la loro marginalità, avrebbero continuato ad essere alternativi ma non antagonisti a quelli che una volta, a quei tempi, erano i comunisti italiani. Comunisti che – è bene ricordarlo – in quegli stessi anni si staccavano definitivamente dall’Urss e accettavano tanto la forma democratica occidentale quanto l’appartenenza alla Nato.
Ora, Moro aveva ben chiare due cose: solo il partito laico di ispirazione cristiana poteva gestire questo passaggio così delicato, perché nel suo dna recava l’idea di politica come sintesi e non contrapposizione. La seconda certezza era che questo processo non poteva avere luogo né con la confusione tra cattolici e destre (l’aveva imparato ai tempi dell’Operazione Sturzo), né con la pretesa della Dc o di chi per essa di poter essere autosufficiente. In altre parole, se la politica per Don Milani è uscire insieme dai problemi, per Moro è sintesi, mediazione ed inclusione. Il che, in fondo, è la stessa cosa. Le grandi menti pensano all’unisono.
Nessuno ha ancora chiarito chi fosse, se mai c’è stato, il Grande Vecchio che ordì la sua esecuzione: ancora dobbiamo essere sicuri di quali mani materialmente lo posero nel bagagliaio di una vecchia Renault rossa. Certo che quella mente era politicamente raffinata. Quel giorno infatti iniziò il declino della Dc, saltò il profondo rapporto che si stava creando con il Pci, soprattutto cambiò la natura della Repubblica. Che si fece preda dei leader, il cui antesignano fu Craxi, dimenticando che i progetti valgono più degli atteggiamenti, e che i partiti sono fondamentali. Non sono macchine elettorali al servizio di un padrone, i partiti, ma strumenti di riflessione politica e selezione della classe dirigente. Senza di essi ogni democrazia è un cavo teso tra Robespierre e Benito Mussolini, con una vasta gamma di variabili nel mezzo.
L’uccisione di Moro (e quella, sempre firmata Br dieci anni dopo, di Roberto Ruffilli) hanno interrotto un cammino, e noi siamo ancora in attesa di riprendere la strada. Ma per farlo dobbiamo prima reimpossessarci della nostra identità, e tornare ad assumerci le nostre responsabilità. È il modo migliore che gli uomini hanno per interpretare la grandezza di un loro simile.