Italia

Albanesi in Italia, trent’anni dopo. Non erano “invasori”

Aveva solo dieci anni, nel 1994, Leonard, quando insieme alla sua famiglia lasciò l’Albania e sbarcò a sud di Bari, negli anni dei grandi esodi dal Paese balcanico. I suoi genitori avevano deciso di emigrare in Italia per dare migliori opportunità di vita a Leonard e sua sorella, e la differenza la sentirono subito, nelle piccole cose, come la corrente elettrica che qui non saltava mai. Si trasferirono in un piccolo paese del Molise, Portocannone, abitato in gran parte dai discendenti di una migrazione albanese risalente al Millecinquecento. “Lì si parlava ancora il vecchio albanese, non eri visto come un estraneo – racconta ora Leonard Berberi a Scarp de’ tenis –. Era un paesino di poche anime e l’immigrato non era visto come un pericolo. Ci trasferimmo nuovamente nel 2000: i miei genitori avevano scelto l’Italia per dare a noi figli l’opportunità di studiare e il Molise non offriva grandi possibilità; così ci spostammo a Milano per permettere a me e mia sorella di finire il liceo e frequentare l’università”. Oggi Leonard fa il giornalista al Corriere della Sera.

Italia, Paese d’immigrazione. Trent’anni fa avvenne lo sbarco dei 20mila albanesi che a bordo della Vlora cercavano la propria personale America. Fu uno shock per l’opinione pubblica nazionale: di colpo ci si rese conto che l’Italia era diventata un Paese di immigrazione. Scarp racconta nel numero di luglio (titolo di copertina E questi erano gli invasorihttp://www.blogdetenis.it/) le storie di chi, come Leonard, dopo aver attraversato il canale di Otranto, è diventato parte integrante del nostro Paese. “Collaboravo con la pagina dedicata all’immigrazione, ma – spiega il giornalista – per quanto cercassi di essere obiettivo su alcuni temi caldi come la questione della cittadinanza, mi sono reso conto che, da immigrato, il mio lavoro poteva essere considerato di parte, oppure al contrario ci si aspettava da me una posizione più schierata e mi veniva contestato di essere troppo distaccato”. Dall’altra parte, l’essere in bilico tra due mondi e due culture gli ha regalato uno sguardo di vantaggio: “ho sempre intercettato prima di altri quel che avveniva in Albania, cambiamenti sociali inclusi”.

Dalla paura all’integrazione. Qualche anno fa si è occupato del fenomeno dell’immigrazione di ritorno, quando tanti immigrati della prima ora, o i loro figli, sono tornati in patria per ricostruirsi un’opportunità. Oggi la presenza degli albanesi in Italia non è più una novità. “La presenza albanese è stata normalizzata. La tv, che all’inizio ha contribuito in maniera massiccia a costruire la grande paura dell’albanese, poi l’ha reso parte della vita sociale. Per tutti gli anni ’90 l’albanese era il delinquente, che ti entrava in casa, rubava ed era violento. Negli anni è diventato il ballerino o l’intrattenitore. Certo – continua Berberi – un problema di criminalità albanese esisteva ed esiste tutt’ora, ma non è più percepita come diretta e vicina: oggi si muove in aree sommerse, dello spaccio, del riciclaggio di denaro. Insomma, come l’albanese onesto si è adattato al nuovo Paese e ha imparato come si vive qui, si è adattato anche l’albanese delinquente”.

“L’inizio è stato duro…”. Un’altra storia raccontata dalla redazione di Scarp (rivista promossa da Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana) è quella di Anxhela Zeneli. Arrivata in Italia con la famiglia su un peschereccio nel 1997, oggi è cittadina italiana. Dall’inizio del 2020 è tornata in Albania per un progetto di cooperazione. Operatrice di Caritas Italiana, è stata “prestata” a Caritas Albania. Una collaborazione intrecciata, che simboleggia perfettamente la sua storia e la sua cultura, ibridata tra quella italiana e quella albanese. Anxhela Zeneli – “si scrive così, ma si pronuncia Angela, come in italiano”, precisa – è nata a Valona, nel Paese balcanico, trent’anni fa, ma è emigrata in Italia con tutta la sua famiglia nel 1997. In realtà, il padre faceva avanti e indietro dall’Italia già da qualche anno. Ex cuoco per matrimoni e grandi eventi nel Paese di origine, nel 1992 come migliaia di altri, venne in Italia a cercare lavoro per garantire alla famiglia una vita più dignitosa. “L’inizio è stato duro, viveva in una casa abusiva, non aveva i documenti in regola, per guadagnarsi la fiducia e i soldi da mandarci faceva dei lavoretti come dipingere i cancelli, aggiustare le bici, raccogliere verdura nei campi. Poi nel ‘94, grazie a una sanatoria, è riuscito a ottenere i documenti e la persona per cui lavorava lo ha assunto in regola come giardiniere”.

Accolti in una chiesa. Ma le cose non sono andate bene a lungo. Nel 1997 a Valona – si legge ancora nel dossier della rivista di strada – il fallimento degli istituti di credito in cui la maggior parte della popolazione stava conservando i primi anni di risparmi scatenò una rivolta popolare. “Eravamo rimasti di nuovo senza niente, a quel punto i miei genitori decisero che questa volta saremmo rimasti insieme. E mia madre, con il resto della famiglia rimasta in Albania, decise di partire”. Le traversate del mare, a quell’epoca, non avvenivano sui gommoni, ma sui pescherecci. C’era sempre un parente o un conoscente che per una generosa quota a passeggero riempiva la propria barchetta e affrontava il canale di Otranto. A loro toccò farlo di marzo: Anxhela nei suoi ricordi di bambina si porta le immagini del mare mosso, della gente che stava male, la sensazione del freddo. E l’impressione della nave, immensa ai suoi piccoli occhi, della Guardia costiera che era arrivata in loro soccorso. Ricorda i primi giorni in Puglia, quando separarono le donne e i bambini in alcune strutture e gli uomini, il nonno e i suoi zii, in altre. Ricorda che li accolsero in una chiesa, dove avevano preparato per loro letti e vestiti e tutti si prodigavano nel dare aiuto. Ricorda che i profughi vennero sparpagliati in diverse strutture e che loro finirono a Rimini “dove venne a prenderci mio papà insieme al suo datore di lavoro. Tornammo insieme nella sua casa in affitto, in provincia di Pavia, e in quel paese iniziò la nuova parte della mia vita”.