Cultura & Società
Al via il Festival dell’Italia gentile. Setti: “Gentilezza vuol dire accogliere anche ciò che non si condivide”
Professoressa Setti, qual è l’etimologia della parola gentilezza?
Come la maggior parte delle parole italiane anche gentilezza deriva dal latino, dall’aggettivo gentilis a sua volta derivato dal sostantivo gens ‘famiglia, schiatta’; quindi gentile è originariamente ‘chi appartiene a una determinata famiglia’, nella cultura latina a una famiglia nobile mentre, con l’avvento del cristianesimo, a una comunità che non si riconosceva né nella religione cristiana né in quella ebraica. La gentilezza, ulteriore derivato da gentile con l’aggiunta del suffisso –ezza (lo stesso di bellezza, stanchezza, fierezza, ecc.) è, quindi, la ‘qualità del gentile’, di chi è nobile, prima per origini familiari e poi, a partire dal Duecento, di chi è nobile d’animo, di sentimenti elevati, raffinato nei modi a prescindere da titoli e origini. Secondo il modello dei poeti stilnovisti la gentilezza è una dimensione che si acquisisce attraverso l’esercizio della virtù e dei nobili sentimenti e, come tale, sarà celebrata anche da Dante: “tanto gentile e tanto onesta pare”; “al cor gentile rempaira sempre amore”; “biondo era e bello e di gentile aspetto”, sono tutti casi in cui l’aggettivo gentile significa ‘nobile d’animo, di sentimenti, di portamento e aspetto fisico’. Pur nello slittamento di significato da ‘nobile per stirpe’ a nobile per virtù’, l’aggettivo resta riferito alla sfera delle relazioni umane (nella tradizione poetica perlopiù amorose), alla disposizione a entrare in sintonia, ad accogliere la novità e la diversità degli altri, a mostrare apertura e disponibilità attraverso gesti, sguardi, parole.
Che differenza c’è tra gentilezza e cortesia?
Se guardiamo nei dizionari contemporanei possiamo considerarle come sinonimi, ma la loro storia le ha segnate di tratti leggermente diversi. Cortesia deriva da corte e la sua semantica si è formata nell’ambito dell’educazione cavalleresca medievale come ‘l’insieme delle qualità proprie dell’uomo di corte’, quindi rispetto verso gli altri, benevolenza, lealtà, liberalità, piacevolezza di conversazione, coraggio, difesa dei deboli; un complesso di atteggiamenti, di modi che poteva essere acquisito attraverso l’educazione e l’applicazione di specifiche regole di comportamento. C’è una tradizione di trattati di questo genere, da Il libro del Cortegiano (1513-1524) di Baldassar Castiglione, dedicato alla descrizione dei costumi del perfetto uomo di corte, al primo e più famoso manuale di “buone maniere’, il Galateo di Monsignor della Casa (1552), da cui sono poi fioriti moltissimi manuali di regole della buona educazione. Cortesia, proprio per questo originario richiamo al mondo di corte, mantiene forse una maggiore vicinanza con il senso della formalità, del rispetto delle norme di civile educazione, mentre la gentilezza conserva nel suo significato più profondo il valore di una dote che si raggiunge solo con una trasformazione interiore che porta a un’attenzione assidua verso il prossimo, a un’attitudine morale alla relazione dialettica e paritaria. Assocerei la gentilezza a un tratto dell’identità che opera profondamente dentro di noi, mentre la cortesia è più un atteggiamento di superficie, uno dei modi in cui la gentilezza può prendere forma.
Gentilezza: come possiamo farla incidere nei rapporti di tutti i giorni attraverso la lingua, sia scritta che parlata?
Il linguaggio verbale è quello che distingue l’essere umano da tutti gli altri ed è lo strumento primario con cui entriamo in relazione col mondo, con l’altro da noi. Proprio attraverso il linguaggio manifestiamo anche tutte le inclinazioni verso gli altri: vicinanza, distanza, attenzione, indifferenza, solidarietà, aggressività. La gentilezza passa attraverso le parole, ma non solo singole parole, formule convenzionali che utilizziamo nelle relazioni sociali, quali i saluti, gli auguri, le congratulazioni, le condoglianze, ecc., ma diventa manifestazione di un atteggiamento morale di assunzione di responsabilità rispetto a ciò che diciamo (o scriviamo), alla capacità di considerare l’atto comunicativo come costruzione condivisa di senso. Dagli studi cognitivi sappiamo ormai con certezza che la comprensione di un testo (sia scritto che parlato) è un processo collaborativo: il mittente produce un testo con cui vuole trasmettere un preciso messaggio e il destinatario comprende interpretando attraverso il filtro della sua visione del mondo, della sua cultura, delle sue esperienze ed emozioni. Calato in questo processo, il concetto di gentilezza diventa la capacità, almeno il tentativo, di calarsi nella visione dell’altro, di provare a prevedere l’effetto delle nostre parole. In questo senso vediamo come anche il tempo entri tra le variabili in gioco: più la comunicazione sarà frettolosa e poco meditata, meno avremo la possibilità di figurarci l’effetto delle nostre parole: e sappiamo quanto parole, anche non esplicitamente offensive, possano ferire se lanciate senza un attimo di riflessione. Ma vorrei essere chiara: gentilezza non è accondiscendenza, piaggeria, semmai l’esatto contrario. La vera, profonda gentilezza è quella che emerge nel disaccordo, nello scontro: gentile allora è chi riesce ad argomentare e dimostrare la sua posizione con sicurezza e convinzione, ma mantenendo la calma, il rispetto per l’altro e un atteggiamento aperto al confronto. E di fronte a un’aggressione verbale? Rispondere in modo altrettanto aggressivo, come d’istinto saremmo portati a fare, porta alla radicalizzazione degli estremi e annulla la possibilità di risoluzione dialettica del conflitto: la gentilezza invece spiazza, soprattutto se prevede la disponibilità a mettersi in discussione e d’altro canto a chiedere motivazione, spiegazione, assunzione di responsabilità al nostro interlocutore, mostrandoci noi per primi disposti a tornare sulle nostre idee. In fondo, direi che la gentilezza è un tratto dell’identità che ci porta ad accettare, ad entrare in empatia anche con ciò che non si condivide, magari per cambiarlo; se ci si oppone in modo rigido le differenze si radicalizzano, l’avversario diventa nemico, il confronto diventa “guerra”.
Quando dare del tu diventa scortese?
In linguistica le parole che abbiamo per rivolgerci agli altri in modo “gentile”, si chiamano allocutivi di cortesia e servono, principalmente a connotare il registro linguistico e di adeguarlo al grado di formalità della comunicazione in cui ci troviamo. Nell’italiano contemporaneo le due possibilità sono il “tu”, informale, e il “lei” formale; la tendenza degli ultimi decenni è quella verso la diminuzione del grado di formalità di molte situazioni e al livellamento verso relazioni di tipo informale. Si sono ridotti i contesti in cui è visto come maleducato rivolgersi con il “tu” invece che con il “lei”: sicuramente resta il fattore età, per cui alle persone più anziane sconosciute è opportuno rivolgersi con il “lei”, così come a insegnanti, professionisti e in situazioni di alta formalità, istituzionali e ufficiali. Nella nostra quotidianità abbiamo esteso il “tu” a moltissime situazioni per cui, solitamente, in brevissimo tempo, con le persone che incontriamo, anche occasionalmente, per lavoro o altro, passiamo al “tu” che, oltre al vantaggio di rendere il rapporto più amichevole e fluido, ha quello linguistico di richiedere costruzioni più immediate e semplici dal punto di vista morfosintattico. La lingua, come sempre, si modella sui bisogni dei suoi parlanti e questo fenomeno quindi è l’effetto di una trasformazione dei rapporti sociali. Ogni scelta linguistica deve essere funzionale al contesto in cui avviene e, per gli allocutivi di cortesia, ci deve essere nei parlanti la consapevolezza del tipo di relazione in cui si sta agendo linguisticamente: nella scuola, ad esempio, è sempre più difficile far acquisire ai giovani lo scarto di registro e il senso del riconoscimento di autorevolezza che il “lei” veicola nei confronti degli insegnanti. Certo, bisogna che anche i docenti siano consapevoli dell’importanza del loro ruolo e che, anche attraverso l’accettazione del “tu” da parte dei propri allievi, può erroneamente passare il messaggio di un cambiamento del tipo di rapporto. Tra adulti, il passaggio dal “lei” al “tu” senza accordo reciproco può apparire (e a volte essere) come desiderio di portare il rapporto su un piano asimmetrico, in cui uno dei due interlocutori si ritiene “superiore” per qualche motivo (età, cultura, posizione sociale, ecc.) all’altro: non credo sia solo mancanza di educazione, ma sintomo di un atteggiamento egocentrico e, talvolta, prevaricatore.
In particolare i nuovi social sembra che abbiano scatenato l’esatto contrario: che ne pensa?
La comunicazione digitale e i social sono strumenti che usiamo tutti moltissimo e che funzionano da amplificatori all’ennesima potenza di tutte le nostre abitudini, in primo luogo quelle linguistiche. Indubbiamente, dalla maggior parte degli utenti, la rete è considerata, erroneamente, un “luogo” in cui tutti sono uguali, in cui le idee e le posizioni di ciascuno hanno lo stesso peso, in cui tutti siamo “amici” e quindi ci si dà automaticamente del “tu”. Abbiamo però davanti agli occhi ormai la deriva a cui questo ha portato. Maria Montessori, tre volte candidata al Nobel per la pace, diceva che per crescere cittadine e cittadini pacifici bisogna educare bambine e bambine nella pace, mettendo così in luce l’importanza dell’esperienza diretta, dell’esempio. Spostando questo principio alla cultura della gentilezza, potremmo dire che le nuove generazioni dovrebbero essere formate nella gentilezza, in ambienti e relazioni in cui le differenze e le contrapposizioni non si radicalizzano e in cui le sicurezze personali si fondano su preparazione, impegno, cultura e rispetto per l’altro. Le giovani generazioni attuali sono cresciute nella continua “esposizione” allo scontro, al disprezzo per le idee altrui, all’aggressione verbale veicolata da vecchi e nuovi media. Non credo quindi che i social abbiano “scatenato” il fenomeno, ma che lo abbiano reso pervasivo dell’ambiente di formazione dei bambini, proponendo modelli talmente diffusi da apparire automaticamente unici e difficilmente contrastabili.
Pensando al rapporto tra cultura e gentilezza si tende a pensare che il linguaggio della persona colta sia di per sé più rispettoso e gentile rispetto a quello popolare, ma è davvero così?
Qui si torna alla questione della simmetria nella relazione comunicativa. È evidente che chi ha più strumenti linguistici è più capace di esprimersi, di spiegare e affermare le proprie idee, di persuadere gli altri. Don Milani diceva: “è la lingua che ci fa uguali”, quindi se non hai una competenza linguistica adeguata rischi di restare sopraffatto da chi sa parlare e scrivere meglio anche se le tue idee sono migliori. Non avere parole sufficienti significa non avere strumenti per dare un nome alle cose, alle emozioni, ai sentimenti, alle paure, alle sofferenze (il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein ha scritto: “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”). E se non si hanno nomi per esprimersi si agisce, si cerca di dominare il reale fisicamente perché non lo si può dominare attraverso le parole (quello che invece avviene, o dovrebbe avvenire, nell’agire politico). La lingua, è vero, è fatta anche di atti linguistici, ma le parole (in particolare verbi) che realizzano qualcosa quando vengono pronunciate sono poche e limitate ad ambiti e “riti” specifici. Si chiamano verbi performativi, ad esempio, condannare, assolvere, promettere, giurare, dichiarare marito e moglie, battezzare verbi che compiono qualcosa solo per il fatto di essere pronunciati in particolari contesti o da parlanti che hanno specifici “poteri”. E comunque vanno pronunciati. In tutti gli altri casi fare senza pensare e senza parlare significa ridurre la facoltà del linguaggio a un formulario quasi “magico” come quando usiamo parole d’ordine. Ho accennato già allo stretto legame che, a mio avviso, c’è tra cultura e gentilezza: le persone di maggior cultura, i veri grandi in tutte le discipline, sanno essere semplici, chiari; sanno passare in modo gentile, senza arroganza e presunzione di superiorità, le loro conoscenze e tale capacità è frutto di una vera conoscenza unita a un profondo rispetto per gli altri e a un sincero amore per il sapere.
L’ italiano riserva molte parole e espressioni alla sfera della gentilezza. Sono cadute in disuso?
Nella generale tendenza alla minor formalità delle relazioni, sicuramente alcune formule ed espressioni sono diventate più rare, riservate magari ad occasioni speciali. Il problema è sempre quello della competenza linguistica: per poter scegliere cosa utilizzare e cosa scartare devo avere a disposizione un repertorio più ampio possibile. Alle mie allieve del primo anno di Scienze della Formazione chiedo all’inizio del corso di inviarmi una mail su un argomento stabilito (ma non è questo l’importante) per vedere come impostano la loro lettera, quali formule di ingresso e di saluto utilizzano, come si rivolgono a me, come si pongono nell’esporre il loro pensiero. Questo “esercizio” mi serve a vedere come si destreggiano di fronte a una tipologia di testo, molto diffusa e presente nella loro esperienza, che richieda scelte precise in merito al registro e alle formule cosiddette di cortesia. In generale le cose non vanno benissimo, ma il commento delle mail diventa occasione di analisi linguistica e di assunzione di consapevolezza da parte loro dell’importanza di sapersi rivolgere in modo adeguato al contesto e di arricchire le loro possibilità di scelta: ad esempio per aprire una lettera non c’è solo ciao o salve, ma cara/gentile professoressa, per chiudere ci sono diverse possibilità dai ringraziamenti per poi passare ai saluti distinti/cordiali/molti/cari saluti. Tutto ciò rientra certamente più nell’ambito della cortesia, delle convenzioni sociali della buona educazione, certo non considero le mie allieve poco gentili o sgarbate se mi si rivolgono in modo non del tutto adeguato. Ma faccio anche notare che, in altri contesti, con altri interlocutori, le stesse modalità potrebbero essere accolte, anche in modo pretestuoso, come contravvenzioni alla gentilezza e provocare reazioni poco piacevoli. C’è poi un altro fenomeno che opera nella lingua e che produce una perdita di connotazione nelle parole e formule che usiamo: nello specifico mi riferisco all’abuso che si fa di alcune espressioni che, nella ripetizione, diventano tic linguistici fino a diventare semplici etichette svuotate di buona parte del loro significato. Prendiamo cortesemente/gentilmente (su questo segnalo una risposta di Matilde Paoli presente sul sito dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-uso-particolare-degli-avverbi-gentilmente-e-cortesemente/210), due avverbi che imperversano ormai in ogni tipo di richiesta e che possono assumere sfumature diverse di significato a seconda della posizione che occupa: “potete avvicinarvi gentilmente?” può significare ‘per cortesia/favore potete avvicinarvi?’ oppure ‘potete avvicinarvi con gentilezza?’. Se gli usi (e abusi) prevalenti sono senz’altro nella comunicazione burocratica, (dove è entrata addirittura in ordini e prescrizioni del tipo “cortesemente è vietato fumare”), è stato rilevato che tali impieghi sono filtrati anche nei principali mezzi di comunicazione e, da lì, nelle abitudini (anche cattive abitudini) di molti parlanti. Solo un esempio di come la gentilezza possa ridursi a una formuletta passpartout apparentemente innocua, anzi cortese, ma che rischia di minare alle radici il vero valore della gentilezza, anche nei nostri scambi verbali.