Opinioni & Commenti

Africa, le distrazioni dell’Europa sulla democrazia negata

di Romanello Cantini

Corre in Africa un detto per cui dai palazzi del potere si esce o con i piedi davanti o con un fucile dietro. In altri termini o con la morte naturale o con un colpo di stato. I vari Mubarak, Ben Ali, Gheddafi, che rimangono al potere per decenni, non sono l’eccezione, ma la regola.

I capi di stato africani che hanno rinunciato al potere volontariamente o alla scadenza del loro mandato si contano sulle dita di una mano. Leopold Senghor rinunciò alla presidenza del Senegal nel 1980 dopo aver guidato il suo paese per venti anni. Ma Senghor era un poeta più che un politico e più ancora che un militare. Nel Mali il generale Amadou Tounami Toure, che era andato al potere  con un colpo di stato nel 1991, destò meraviglia quando lo consegnò ad un civile eletto con regolari elezioni l’anno dopo. Nelson Mandela, nonostante la sua enorme popolarità, ha lasciato il potere in Sudafrica all’approssimarsi dei suoi novanta anni. In Kenia nel 2002 il presidente Arap Moi ha rinunciato a ripresentarsi seppure dopo aver governato per 24 anni e con una pensione di novecentomila dollari al mese.

Ma per il resto la tendenza a trasformare una carica elettiva con il potere a vita cominciò già con i grandi nomi divenuti celebri nella lotta per la decolonizzazione. Sekou Tourè , dopo essere diventato il primo presidente della Guinea indipendente, ha esercitato un potere sempre più violento per ventisei anni fino alla sua morte. Julius Nyerere, dopo aver liberato la Tanzania dagli inglesi, rimase al potere per venticinque anni rinunciando al governo nel 1985, ma rimanendo di fatto il padrone del paese come presidente del partito unico. Jean Bokassa, dopo essere andato al potere nel 1965 ed essersi fatto nominare imperatore in un paese che si chiamava Repubblica Centrafricana, ci rimase, nonostante le accuse anche di cannibalismo, finchè nel 1979 non fu cacciato da un colpo di stato organizzato con il concorso dei parà francesi. Mobuto Sese Seko, che arrivò a definirsi il secondo uomo più ricco del mondo, governò il Congo per più di trenta anni finche non fu tolto di mezzo nel 1996 da una insurrezione militare aiutata dalle compagnie petrolifere americane.

E la seconda generazione dei governanti africani spesso ha fatto ancora peggio. Hailè Mengistu è stato padrone dell’Etiopia per diciassette anni prima di essere rimosso da un colpo di stato e di essere condannato all’ergastolo in contumacia come responsabile di migliaia di morti. Omar Bongo, il decano dei decani, è rimasto al potere nel Gabon per quarantadue anni fino alla sua morte nel 2009 lasciando il potere in eredità a suo figlio Ali Ben Bongo. Theodoro Oblag Hguema è al potere in Guinea Equatoriale da ben trentadue anni. Nel Ciad Idriss Deby, un presidente sempre in guerra, governa dal 1982, cioè da quasi trenta anni. Nello Zimbabwe Mugabe è in sella da ventisette anni. In Sudan Omar Al Beshir, incriminato dalla corte penale dell’Onu per crimini di guerra, continua a rimanere al potere da ventidue anni. In Algeria, al confine con quella Tunisia in cui Ben Ali si era fatto rieleggere per cinque volte, c’è Abdelaziz Buteflika che è già al suo terzo mandato.

Abbiamo fatto questo lungo elenco di dinosauri al potere, come li chiamano in Africa, perché domani, quando eventualmente qualcuno di loro sarà contestato da una rivolta, non si faccia solo allora la scoperta di un dittatore e ci si meravigli che fino al giorno prima gli stati abbiano fatto accordi e affari con un impresentabile. La indignazione in questo caso rimane purtroppo ancora molto selettiva. Mentre tutti in Europa si entusiasmavano per la caduta delle dittature nordafricane, appena un po’ più a sud, nella Costa d’Avorio, si combatteva da sei mesi, nell’indifferenza quasi generale del resto del mondo, una vera e sanguinosa guerra civile, di cui si stanno ora scoprendo le fosse comuni, per ottenere una cosa ovvia, che cioè il vincitore delle elezioni andasse al potere e il presidente uscente lo lasciasse. Alla fine solo l’aiuto estemporaneo delle truppe di una Francia, che ormai si mette in testa il casco di sughero per infilarsi in tutte le possibili campagne africane, è riuscita a dar ragione a chi l’aveva, cioè al vincitore elettorale Ouattara sul perdente Gbagbo.

E tuttavia la distrazione rispetto alla democrazia negata permane spesso non solo quando tutto tace, ma anche quando la gente si muove. Accanto all’intervento in Libia si è avari non solo di gesti, ma perfino di condanne per situazioni non molto diverse in Siria, nello Yemen, nel Barhein e fra non poco forse anche nelle tradizionali monarchie arabe dal Marocco, alla Giordania, all’Arabia Saudita. Ma da queste parti si rischia di trovare l’Iran e di perdere soprattutto il petrolio intorno a quel Golfo Persico che Kissinger chiamava la «vena iugulare» dell’Occidente. Quella cioè senza cui si muore e per salvare la quale si può morire.